Anche tu ti svegli un po' 5Stelle? RIMEDIO INFALLIBILE! cLICCA QUI!!!!

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Certe mattine uno rischia davvero di svegliarsi a Cinque Stelle. Se dovesse succedere anche a voi, non preoccupatevi. C'è un rimedio imbattibile. Garantito.

Può succedere a chiunque. Magari il giorno prima ha sentito dire a Di Maio che Grillo e Casaleggio si vedranno meno: vuoi vedere che è finita la fase dei guru e degli imbonitori? Sarebbe veramente una buona notizia. Nel frattempo la trattativa sulle riforme si è arenata, com'è destino che si areni qualsiasi cosa si faccia in streaming (ormai credo sia un dato acquisito: chiedere lo streaming è un modo molto lungo e cortese per dirti di no. Come sentirsi dire "sei il mio migliore amico" negli anni '90, ecco, probabilmente oggi le ragazze ti fissano uno streaming). Quello che si è chiarito oltre ogni benevolo dubbio, è che Renzi preferisce fare le riforme con Berlusconi. Un po' perché preferisce davvero Berlusconi, lo trova più affidabile e addomesticabile (non sarebbe il primo a sbagliarsi su entrambe le cose); un po' perché Berlusconi è un'ottima scusa per fare riforme un po'... come definirle? Se diciamo "autoritarie" rischiamo di offendere il Presidente della Repubblica, quindi meglio non usare la parola.

Allora mettiamola così. Tra un annetto o due, quando le riforme saranno a regime, l'Italia rischierà di trovarsi a completa disposizione di qualsiasi padroncino possa permettersi di investire in campagna elettorale il necessario per conquistare neanche il quaranta per cento dei consensi (anche meno se trova dei partner). Tanto basterà a riempire l'unica Camera di nominati che gli dovranno tutto; per eleggere un presidente della Repubblica di suo piacimento, e controllare di conseguenza i due terzi della corte costituzionale che se interpellati potranno testimoniare che la riforma è buona. Tutto questo ovviamente non verrà via gratis; servirà qualche soldino: neppure tanti in questi tempi di disaffezione elettorale.

Certo chi gestirà un vecchio partito senza più finanziamenti o rimborsi pubblici partirà un po' più svantaggiato rispetto a chi, poniamo, sarà riuscito a conservare una concentrazione mediatica. Berlusconi sarà anche finito, ma non si capisce perché dovrebbe finire il berlusconismo - gli interessi che rappresenta non sono scomparsi con una sentenza o una sconfitta elettorale. Magari non succederà: ma dovesse succedere, cosa avranno da dire gli aedi e i cantastorie che oggi sciolgono canti alle illuminate riforme renziane? Probabilmente alzeranno le spalle e diranno: non avevamo scelta, le riforme andavano fatte con Berlusconi. Non c'era alternativa. Cioè, sì, c'era Di Maio in streaming, ma non era un'alternativa. (Continua sull'Unita.it, H1t#241).

Insomma, quando si scopriranno le magagne delle riforme, Berlusconi sarà un ottimo alibi. Benché molte di queste magagne abbiano un sapore decisamente renziano (l’ossessione per l’ubiquità dei sindaci). E di noi cosa sarà? Ci sarà spazio per chi ha continuato a criticare Renzi anche nei giorni del trionfo? Magari no, magari saremo tutti risucchiati nei Cinque Stelle. Se nel frattempo smollassero la Casaleggio Associati eil suo ridicolo marketing 2.0, se diventassero un movimento serio, radicato tra i cittadini… perché no?
Può succedere a tutti: una mattina ci si sveglia e ci si scopre a Cinque Stelle. Poi, come tutte le mattine, si dà un’occhiata a internet…

…Certe mattine uno rischia davvero di svegliarsi a Cinque Stelle. Se vi succede non preoccupatevi. Andatevi a leggere qualche tweet dei Cinque Stelle veri. Vi passa all’istante, garantisco.http://leonardo.blogspot.com
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Non è Israele; sei tu.

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"Ma la Siria? E l'Iraq? Non muoiono dei bambini anche là, da mesi? Perché non te n'è mai fregato nulla? Che cos'hanno di speciale quelli palestinesi? Cosa c'è di speciale nei bombardamenti di Israele per farti indignare come non ti hanno mai indignato le armi chimiche di Assad o le stragi in Egitto?"

Caro sostenitore di Israele che me lo domandi, su un blog o su un social network, un giorno sì e un giorno pure; e quando non lo chiedi a me lo stai domandando a qualcun altro che spaccia morticini siriani per palestinesi... io so che a nulla valgono le mie obiezioni: potrei dirti che non è vero che non m'è mai fregato nulla; non è vero che Assad non mi ha sconvolto e indignato. Anche se è vero che di Siria e di Iraq, e delle centinaia di altre crisi in giro per il mondo ho discusso di meno, litigato di meno. Ho un'attenzione selettiva? Probabilmente: e credo che ce l'abbiamo tutti. Ci sono mille motivi storici e culturali per cui un cittadino italiano di media cultura può sentirsi più vicino a Israele e alla Palestina che non a tanti altri Paesi che passano guai anche peggiori, vicini e lontani. E poi c'è un altro motivo, banalissimo: su internet si discute, si approfondisce, ma soprattutto si litiga.

Da che navigo in rete non mi è mai capitato di litigare con sostenitori di Assad o dell'ISIS. Non frequentiamo le stesse compagnie, non leggiamo gli stessi giornali, non seguiamo gli stessi opinionisti, insomma non abbiamo nulla da dirci. Nessuno mi ha mai taggato in una discussione sulle armi chimiche di Assad. Nessuno si è mai sentito in dovere di obiettare che sì, Assad è un genocida, però anche i suoi nemici... Nessuno ha mai tentato di spiegarmi quanto fossero giuste le rivendicazioni degli integralisti. E invece con Israele succede, puntualmente.

Tanta gente in buona e meno buona fede si sente in dovere di avvertirmi quotidianamente che sì, Israele ha i suoi difetti, ma Hamas è molto peggio (come se non lo sapessi). Qualcuno si sente in dovere di spiegarmi che sì, Hamas non riesce ad ammazzare nessuno, ma se fosse in grado farebbe un massacro (vero; però non ce la fa). Qualcuno deve continuamente ripubblicare la nuova versione del solito foglietto in cui gli israeliani sparano per difendere donne e bambini e invece i palestinesi li mettono in mezzo, come se non l'avessi visto migliaia di volte in vent'anni. Il tutto deve essere necessariamente condito con qualche sberleffo ("pacifinto", "sinistroide") e soprattutto quell'accusa di antisemitismo che ormai è una moneta di latta, tanto è inflazionata. Nel frattempo gli antisemiti veri minacciano e uccidono ebrei anche in Europa, e in rete c'è chi ogni tanto mi accusa allegramente di collaborare con loro. Per capirci: l'istigazione all'odio razziale qui da noi è un reato. Se davvero siete convinti che io stia diffondendo contenuti antisemiti, forse dovreste prendervi la responsabilità di denunciarmi alle autorità competenti. L'altra possibilità è ammettere che state, francamente, esagerando.

Caro lettore o interlocutore filo-israeliano: se davvero vuoi sapere qual è il motivo per cui discuto più di Israele che di Siria, più di Palestina che di Iraq, ebbene... il motivo sei proprio tu. (continua sull'Unita.it, H1t#240)

Sei tu che mi accusi di non capire (quando va bene), e di essere in combutta con degli assassini (quando sei un po’ più nervoso). Sei tu che mi inviti ad approfondire il problema, a studiarlo meglio, a cercare di esporre con più chiarezza le mie ragioni, onde evitare l’accusa di intelligenza con Hamas o la Jihad o direttamente con Hitler che controllerebbe il complotto antisemita da una base lunare. Sei tu che non lasci passare un giorno senza spiegare i motivi per cui Israele fa quello che fa, e non ti accorgi che in questo modo dai davvero l’impressione di avere bisogno tu per primo di ripeterteli ogni giorno, quei motivi. Se fossero motivi convincenti forse non ci sarebbe bisogno di tutto questo sforzo che, fin qui, non ha molto giovato alla tua causa.
Ora tu risponderai che anche i filopalestinesi si comportano così. Sì, qualcuno lo fa. E infatti ce n’è che non sopporto: ogni volta intervistano Vattimo sull’argomento ho l’istinto di impugnare un Uzi. E allora mettiamoci d’accordo almeno su questo: non c’è un altro conflitto che rovesci in rete tante quantità di cattiva fede, di foto false, di argomenti fallaci, da una parte o dall’altra. Temo che sia proprio questo ad attirarmi: non la sorte dei palestinesi o degli israeliani, che dalla nostra attenzione selettiva non hanno tratto finora molti benefici (anzi, forse la ribalta mondiale li ha danneggiati). Mi interessa il fatto che tutti mentano, che tutti si sbaglino, e che molti lo facciano volentieri, e di proposito. Mi interessano le leggende, e c’è chi ne fabbrica in continuazione. E a furia di sentirmele raccontare, e di cercare di smontarle, ho sviluppato una specie di competenza.
Molte cose probabilmente non le ho mai capite e forse non le capirò mai, ma è da anni ormai che ne sento parlare, che leggo, che discuto. Tutto quello che so l’ho imparato proprio mentre litigavo, on line e fuori. Certo, ci sono tante ragioni storiche e culturali per cui Gaza e Gerusalemme possono sembrarci più vicine di altre città martoriate del mondo. Ma forse non avrei mai davvero cominciato a interessarmi a Gaza o Gerusalemme se tanti anni fa, durante un’assemblea studentesca, un ragazzo vestito più o meno come me (jeans, camicia), non avesse preso la parola per accusare Arafat. Era un periodo abbastanza tranquillo, nessuno stava discutendo di Palestina, non era senz’altro all’ordine del giorno di quella precisa assemblea; e il ragazzo lesse un suo comunicato in cui spiegava che Arafat voleva sterminare gli ebrei. Tutti. Voleva riaprire i forni. Ecco, non ho più la minima idea di chi fosse quel ragazzo: probabilmente andò a studiare in un’altra città e ci perdemmo di vista.
Però ricordo perfettamente me che lo guardavo e pensavo: noi due non stiamo vivendo sullo stesso pianeta. Non avevo particolare simpatia per Arafat – non l’ho mai avuta, tutto sommato, ma questa storia che volesse riaprire Buchenwald, ecco, non l’avevo mai sentita. Si doveva essere aperto un portale interdimensionale, da qualche parte, e io o lui senza volere eravamo finiti in un mondo parallelo: forse ero io che senza saperlo quel mattino mi ero risvegliato in un universo in cui Yasser Arafat era un nazista genocida. Appena potei andai a controllare – no, non risultava. La storia era più o meno quella che ricordavo io: il leader dell’OLP era senz’altro responsabile della morte di molti nemici ebrei, ma questa cosa di riaprire i forni, insomma, era del tutto inedita. Dunque era quel ragazzo, vestito più o meno come me, a venire da un’altra dimensione. Avrei dovuto avvertirlo in qualche modo, e invece lo persi di vista. Forse si era richiuso il portale. Per qualche altro anno non ci pensai più.
Qualche anno dopo arrivò internet. Fu uno choc. Il varco interdimensionale si riaprì e cominciai a leggere di palestinesi nazisti. Era qualcosa che sfidava le mie certezze, che mi incuriosiva. A distanza di anni è ancora così. Perché non m’interesso anche della Siria, di Boko Haram, dei pirati somali? Perché sono un maledetto superficiale, probabilmente. Ma vi garantisco che se un gruppo di sostenitori della pirateria somala mi segnalasse ogni giorno delle notizie sull’umanità degli abbordatori, sulle giustezza delle loro rivendicazioni, sulla moralità dei loro abbordaggi, ecco, io resisterei qualche settimana, e poi comincerei ad interessarmene morbosamente.
“Hai paragonato Israele ai pirati somali, sei antisemita”.

(PS: questo pezzo si può commentare solo su facebook, sulla pagina dell'Unità o in fondo a questa. Vediamo come va).
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Come valutare il Cattivo Insegnante

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In quattro giorni ha fatto dietrofront. Ancora una settimana fa sembrava che Roberto Reggi volesse raddoppiare l'orario degli insegnanti italiani, senza spenderci un soldo di più. Ai microfoni di "Repubblica" prometteva scuole aperte fino alle dieci di sera, anche in luglio: scuole piene di vita e di voglia di fare e di manodopera sottopagata. Poi, appena gli è capitato di incontrare davvero qualche insegnante, si è rimangiato tutto. "Chiedo scusa, è stata una stupidaggine". Ovviamente le trentasei ore sono da intendersi come un tetto facoltativo; ovviamente chi lavorerà di più guadagnerà un po' di più; ovviamente la trasformazione delle scuole in centri estivi richiede una discussione più aperta, insomma se ne parlerà ancora un po' prima di lasciar perdere.

In sostanza Reggi non ha fatto che eseguire - con più rapidità, bisogna ammetterlo - il solito schema dei Grandi Riformatori della Scuola Italiana: (1) lanciare idee irrealizzabili, dichiarare guerra a un fronte immaginario di insegnanti sfaccendati, (2) aspettare che qualcuno reagisca protestando; (3) rimangiarsi quasi tutto; (4) non cambiare quasi niente; (5) incolpare delle proprie incapacità gli insegnanti che non avrebbero capito la potenza visionaria delle sue idee. Fanno più o meno tutti così; la Moratti ci mise degli anni, Reggi quattro giorni. Non so cosa sia meglio, ma fin qui è la stessa scenetta. E d'altro canto non è che si possa fare molto di più, finché nella scuola non si decide di investire sul serio.

Su un punto Reggi non cede, ed è la valutazione. Proprio perché bisogna ridare dignità agli insegnanti, Reggi crede che sia venuto il momento di valutarli. Ma come? "La valutazione dovrà essere dunque un risultato che deriva da molti elementi". Giustissimo, ma quali? Per aiutare il ministro a trovarli, ho provato a guardare la questione da un punto di vista un po' diverso dal solito: quello del Cattivo Insegnante. Tutti sappiamo che esiste; ma perché non riusciamo a snidarlo?

C'è un problema. Rispetto agli insegnanti più o meno bravi, il Cattivo Insegnante ha una specie di vantaggio evolutivo. Non deve preoccuparsi, come i colleghi, di entusiasmare gli studenti, confortare i genitori, aiutare i colleghi, soddisfare i dirigenti. Il Cattivo Insegnante deve solo sopravvivere. Mentre gli altri insegnanti si aggiornano, correggono, organizzano progetti, si arrischiano a scortare gli studenti in pericolosissime gite d'istruzione, il Cattivo Insegnante deve soltanto preoccuparsi di difendere il suo habitat dai predatori. Questo lo rende molto più resistente a tutte le minacce esterne, le tempeste e le mareggiate che periodicamente si portano via qualche bravo insegnante stanco e sfiduciato - nel frattempo, all'ombra della macchinetta del caffè il Cattivo Insegnante nidifica. Mettiamoci dunque dalla sua parte. Il Cattivo Insegnante sa che Roberto Reggi vuole eliminarlo. Come può reagire? (Scopriamolo sull'Unita.it, H1t#239)

Se Reggi vuole premiare la genuina voglia di lavorare di chi è pronto a raddoppiarsi l’orario settimanale, il Cattivo Insegnante può benissimo correre dal Dirigente a chiedere le 24 ore, o addirittura le 36. Tanto lui in quelle ore fa poco o nulla: chiacchiera dei fatti suoi, legge il giornale. Per alcuni insegnanti la lezione è molto faticosa, per lui no. Anche questo è un vantaggio evolutivo: se Reggi vuole premiare chi lavora di più a contatto con gli studenti, fatalmente selezionerà quelli che in questo contatto sprecano meno energie. Naturalmente quelle ore in più il Cattivo Insegnante le toglierà a docenti migliori di lui - mors tua vita mea, vedi che anche il latino alla fine a qualcosa serve.
Oppure Reggi potrebbe introdurre i questionari che si usano in altri ambiti di lavoro, anche nell’amministrazione pubblica: agli utenti (in questo caso studenti e genitori) si potrebbe chiedere di valutare il servizio offerto. Non sarebbe una cattiva idea, e il Cattivo Insegnante sa già come volgerla a suo favore: trasformandosi nell’amicone degli studenti e alzando i voti a tutti. Manipolare i genitori non è così difficile – specie se intorno a te hai insegnanti più o meno bravi che a volte somministrano insufficienze o minacciano bocciature. Al Cattivo Insegnante basta ricevere la mamma o il papà ogni tanto e confermare che i colleghi si sbagliano, che il ragazzino è un genio incompreso, inespresso, ecc.
E se Reggi volesse insistere sulla vecchia strada della valutazione, con le prove Invalsi? È da un po’ che non se ne parla più, addirittura quest’anno in prima media le prove non sono state fatte. È vero che costano molto, e se le si volesse usare davvero per la valutazione degli insegnanti (come aveva proposto la Gelmini) succhierebbero tutti i fondi destinati a premiare i migliori. Ma fingiamo che i soldi ci siano: a quel punto al Cattivo Insegnante non resta che trasformarsi in un allenatore. Comincerà a somministrare simulazioni di prove invalsi a settembre, e proseguirà fino a giugno; sacrificherà volentieri tutto il resto del programma, visto che l’unica cosa da cui dipende la sua sopravvivenza è il buon risultato dei suoi ragazzi. Se comunque non riuscisse ad allenarli bene, può sempre falsificare qualche risposta in fase correzione, visto che dopo tanti anni la prova Invalsi (concepita per essere analizzata e valutata da un computer) continua a essere corretta a mano dai docenti. Molti degli stessi docenti continuano a lamentarsi della cosa; a sentirsi umiliati da un test che li trasforma in “compilatori di crocette”. Il Cattivo Insegnante no: se lo Stato gli fornisce un’opportunità in più di truccare le carte a suo favore, tanto meglio.
Il Cattivo Insegnante, insomma, non vede l’ora che la valutazione arrivi nelle scuole. Purché sia una valutazione semplice, imposta dall’esterno con la forza, da politici poco esperti di complessità scolastiche. Purché sia uno slogan, insomma. http://leonardo.blogspot
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La riforma coi fichi secchi

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"I soldi non ci sono. Ce ne saranno pochi anche in futuro". Questa è in fondo l'unica cosa importante che ieri il sottosegretario all'istruzione Roberto Reggi ha rivelato a Repubblica. Tutto il resto - le 24 ore, le 36 ore, le scuole aperte tutto a luglio e fino alle sei di sera (ma perché non le dieci) - è puro spettacolo, come ormai è tradizione quando al Ministero provano a ritoccare i contratti degli insegnanti: proposte pirotecniche, qualche settimana di fuochi artificiali, poi il fumo e il chiasso si dirada e a settembre si riapre più o meno la stessa baracca. Magari stavolta sarà diversa; ma francamente non vedo come.

La scuola italiana è il carrozzone che è: non sono qui a difenderla, ma non credo che si possa migliorare a costo zero. Immagino che anche Reggi e il suo ministro lo sappiano benissimo; non sono dilettanti. Ma se i soldi non ci sono, che altro possono fare? L'unica è raccontare e raccontarsi che da qualche parte del carrozzone ci siano enormi rubinetti di denaro o di forza lavoro lasciati aperti; clamorosi sprechi a cui rimediare con tanta buona volontà... e senza investirci un mezzo euro in più. "La scuola italiana costa 55 miliardi l'anno, bisogna usare meglio quello che c'è". Come si fa a usare meglio? Si tengono tutti gli insegnanti a scuola tutta la settimana. Geniale, no? Come mai nessuno ci aveva pensato prima?

In effetti, qualcuno ci avevano già pensato. Finché non si era accorto che la cosa non era né sensata né fattibile. Sulla Repubblica di ieri si menziona una "colossale rivolta del mondo della scuola" che avrebbe impedito al ministro Profumo di aumentare l'orario settimanale degli insegnanti a parità di salario. Faccio appello alla buona memoria dei lettori: Profumo lanciò la sua proposta nell'autunno di due anni fa. Voi ricordate una qualche colossale rivolta, nel mondo della scuola o altrove? Non si riuscì a fare nemmeno uno sciopero unitario. Non furono le barricate dei supplenti storici ad affondare la proposta di Profumo; essa svanì "all'apparir del vero", nel momento in cui si passa dagli slogan al malinconico calcolo dei costi e dei benefici. Poi Monti andò a piagnucolare da Fazio che i poveri docenti non volevano lavorare due ore in più a settimana - dopo avermi chiesto un'ora al giorno senza contrattazione - che brutta figura che le hanno fatto fare professor Monti, che brutta fine.

Ma insomma il copione ormai è questo: (continua sull'Unita.it, H1t#238) si butta lì qualche proposta immaginifica e irrealizzabile a costo zero; si terrorizza qualche decina di migliaia di lavoratori; e se poi non si riesce a concludere nulla, al primo svogliato sciopero a singhiozzo si darà la colpa al “corporativismo della classe docente”. Poi magari mi sbaglio, e ne sarei felice, ma insomma: se i soldi non ci sono, non ci sono.

Se non hai un solo soldo in più, non puoi tenere le scuole aperte fino a sera, con quello che costerebbero alla collettività in termini di luce e riscaldamento. Non puoi chiuderci i ragazzi fino al trenta di luglio, anche se sei convinto che ai genitori piacerebbe – ma voi avete mai conosciuto un genitore a cui davvero piacerebbe? e ai ragazzi meglio non chiedere. Non puoi farlo perché, banalmente, nel 90% delle scuole in luglio fa veramente troppo caldo, e il riscaldamento globale non gioca in nostro favore. E siccome non hai un solo soldo in più per ventilarle… a proposito, e i bidelli? Anche a loro hai intenzione di raddoppiare l’orario gratis? Sono già sotto organico, ma puoi sempre raccontare ai giornali che invece da qualche parte ci sono hangar interi di bidelli sfaccendati che finalmente verranno impiegati al 100%. Poi, quando si tratterà di fare i conti, dirai che ti hanno frainteso, che non hanno capito l’ottimismo, non hanno voluto sottoscrivere il “patto della qualità”, qualsiasi cosa sia.
Non puoi rendere “obbligatoria la formazione”; primo, perché una formazione obbligatoria esiste già, anche se il livello è scadente; secondo, perché non hai intenzione di metterci un soldo in più. Non puoi aumentare la paga ai docenti senior, visto che ancora non esistono; è un bel lapsus,  i docenti senior furono un’effimera invenzione dell’era Gelmini. Se il senso è che vuoi dare un gruzzolo al preside, che avrà piena facoltà di spartirlo tra i docenti di cui si fida, ok, la cosa si fa interessante: ma prima di correre a lavare la macchina del mio dirigente vorrei capire una cosa, la solita: da dove prendi i soldi?
Non puoi tenere tutti i docenti a scuola per 24 o 32 ore alla settimana, perché un qualche aumento dovresti riconoscerlo. Non si capisce nemmeno cosa dovremmo fare a scuola tutto quel tempo – ovvero, sì, si capisce: vorresti non pagare più le supplenze, che danno lavoro ai precari ma costano un sacco. E siccome non puoi costringerci a fare supplenze gratis (suona male), spari questa cosa delle trentadue ore di permanenza nell’edificio scolastico. A fare cosa? preparare lezioni? correggere compiti? In quali ambienti? Vuoi imporre un orario di ufficio senza ufficio? Hai presente quanti soldi abbiamo fatto risparmiare allo Stato, fin qui, portandoci il lavoro a casa? Correggendo sulle nostre scrivanie, con i nostri computer, connessi a spese nostre? O vuoi fornire una postazione a tutti i docenti a costo zero? E così via.
Mi dispiace suonare così gattopardesco: in realtà io credo che la scuola si potrebbe cambiare in tanti modi. Fino al trenta luglio no, ma a giugno si potrebbe ancora far lezione - magari sostituendo la disagevole pausa pasquale con una vacanza di primavera all’europea. Si potrebbero incentivare gli insegnanti che si aggiornano. Tante cose, si potrebbero fare. Ma servono i soldi: e i soldi, ce l’hai detto, non ci sono.
Non che avessimo molti dubbi, però la franchezza si può apprezzare. Avevamo ancora nelle orecchie gli annunci di Renzi ai tempi della campagna per le primarie: “Un paese civile deve ripartire dalla scuola“. Si vede che non siamo un paese così civile, tutto sommato. Avremo altre priorità.http://leonardo.blogspot.com
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L'imbarazzante sexy barbecue M5S

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Abbiamo cliccato Beppe Grillo per voi. 

Salve a tutti, bentornati alla saltuaria rubrica che vi mostra cosa c'è davvero nella meravigliosa colonnina destra del sito di Beppe, risparmiandovi dozzine di clic, di stupidi video pubblicitari, di stupidi video nemmeno pubblicitari, eccetera. Visto che il giornalismo sta per morire - Grillo ne è entusiasta - vale la pena di scoprire assieme cosa ci aspetta dopo il funerale: cosa sarebbe l'informazione se rimanesse a gestirla Casaleggio? Ecco qua.



Donne seminude e non solo! Imbarazzi! Davvero incredibile che nessuno ne parli. Ma di cosa? Dunque (clic), pare che nel 2012 il gruppo dirigente del PD di Napoli invece di farsi vedere a Occupy Scampia sia andato a una festa che si chiamava "People party", organizzata da Lorenzo Crea (capo ufficio stampa e portavoce del gruppo regionale del Partito democratico). Si trattava, secondo il sito casaleggiano TzeTzè, di un "party trash con ragazze seminude". Wow. Ce le fa vedere? La tizia sgranata nella foto è forse un assaggio? No. Se clicchi sulla notizia, parte un video sulla Minetti. Giuro. Non è neanche un video in senso stretto, è una famosa intercettazione della Minetti con un fermo immagine della Minetti - seminuda, almeno? No, neanche. Ovviamente la Minetti non è del Pd, non parla né di Scampia né del People Party, insomma "i dettagli" un par di ciufoli. Ché io in linea di massima in questi giorni di vacche magrissime potrei anche capire la necessità di intercettare sempre di più il target dei guardoni annoiati da youporn, e tuttavia mi domando fino a che punto una strategia del genere funzioni: cioè quante volte lo puoi fregare un guardone cliccatore compulsivo? Quante volte gli puoi permettere "ragazze seminude e non solo" e poi mostrargli uno scatto stravisto della Minetti vestita? Quante, prima che ti mandi nel luogo tanto caro ai 5Stelle, Fanculo? Poi sicuramente Casaleggio è un genio della comunicazione e ha capito cose che io no; e tuttavia, boh.


Nei momenti di stanca, quando gli streaming non vanno esattamente come dovrebbero andare, alla Casaleggio la buttano sull'alimentazione. Il modo migliore di curare la tosse è mangiare l'ananas. Cinque volte più efficace. Chi lo dice? Degli studi. Quali studi? Non lo dice. C'è solo il nome di un sito web, molto in fondo, che dice che l'ananas è una fonte di vitamina C: l'avreste mai detto? Vi passo comunque la ricetta che, secondo "gli studi", aiuta a sciogliere il muco nei polmoni: ananas, miele, pepe di cayenna e sale. Sappiatemi dire. (Continua sull'Unita.it, H1t#237). 


Di questo avete probabilmente sentito parlare. L’ostilità di Beppe Grillo ai POS è di vecchia data: due anni fa organizzò persino un sondaggio on line sull’argomento. Vinsero, neanche a farlo apposta, i difensori del contante. “Studiosi e dirigenti della banca centrale tedesca“, scrisse al tempo “dimostrano in modo inconfutabile che, rispetto ai pagamenti elettronici, il contante è: più comodo, più veloce, più accettato, più rispettoso della privacy, più economico, più trasparente“. Ah, se lo dice la Banca Centrale Tedesca…

Come nel caso delle donne seminude, anche stavolta cliccando non arrivi in nessun circo. Non sapremo nemmeno mai da dove è tratta l’immagine in questione. L’articolo di Tzetzè a cui rimanda il link spiega che gli elefanti vengono addestrati con un uncino metallico che fa parecchio male. C’è anche un video dove si vedono – da lontano – elefanti pungolati, ma mai al circo.

Vi può venire il cancro. Maddai. Beh, almeno stavolta nel pezzo di lafucina.it (l’altro sito casaleggiano a cui puntano i link di beppegrillo) c’è la fonte: Cesare Gridelli, oncologo presso l’Ospedale San Giovanni Moscati di Avellino. Ha scritto un libro in cui si spiega che carne e pesce alla brace aumentano il rischio di tumori. Però se mangi frutta e verdura gli antiossidanti riducono l’assimilazione di sostanze tossiche. E vai.

Perché non li chiamano – no, scherzo – ma fino a un certo punto, visto che su Tzetzé la deputata Giulia Sarti ammette “è vero non ci sono arrivati molti inviti“. Ma voi ve n’eravate accorti che avevano smesso di andarci? Io non saprei, non guardo un talk più o meno da quando è cominciato il mondiale. Magari succede anche ai 5stelle, e questo spiegherebbe il mistero.
Anche se in realtà non c’è nessun mistero. Non hanno smesso di andare in tv. Hanno soltanto diradato le presenze perché sono stanchi. “Abbiamo avuto talmente tanto lavoro tra ballottaggi, tra organizzazione di azioni in Parlamento, mille cose [...] Mentre negli altri partiti ci sono persone che fanno esclusivamente quello, magari non vengono in aula tant’è che sono state pure richiamate certe deputate del PD perché andavano sempre in televisione poi al momento del voto in aula non c’erano. Noi facciamo tutto”. Va bene. Nel frattempo mi giunge notizia che a Bruxelles i 17 eurodeputati si porteranno un “gruppo di comunicazione” di 24 elementi, tra cui qualche dipendente della Casaleggio. Chi li pagherà? Non sono un po’ tanti? Ma parliamo piuttosto di cibi velenosi.

È il sale. Ma non faceva bene ai polmoni? Eh, ma fa male alle arterie. “Se assunto in quantità smodate” – grazie al Grillo, anche la tachipirina se ne prendi un chilo ti uccide, un giorno di questi mi aspetto il titolo STA NEL TUO CASSETTO DEI MEDICINALI MA È UN VELENO. Gli antichi greci avevano una parola per questa cosa, credo. E ora siete pronti per la tresca della settimana? Vai col momento Novella2000:

Beccati! In una riunione! Chissà che combinavano. E adesso? Se clicchi arrivi su un video che ti mostra quante auto blu erano parcheggiate su un marciapiede nei pressi di Palazzo Madama il giorno della fiducia, 24 febbraio. E che c’entra? Non si sa. Più in basso ci sono ampie citazioni da un pezzo di Carlo Tecce sul Fatto Quotidiano. Il succo è che Renzi sapeva che la proposta di riforma del Senato sarebbe passata con la reintroduzione dell’immunità. Interessante – ancorché ovvio – ma noi volevamo le foto di Renzi e della Boschi beccati. E invece niente. Per fortuna che la notizia successiva è una “verità”.

La “verità” di Di Maio consiste in un messaggio da lui pubblicato su facebook che coincide perfettamente con un post di Beppegrillo.it. Dunque, o Di Maio è un autore di Beppegrillo.it (non ci sarebbe niente di male), o è uso copiare pari pari i pezzi di Beppegrillo.it sulla sua bacheca facebook (e anche qui non c’è niente di male). Poi Beppegrillo riprende il pezzo copiato da Beppegrillo e lo chiama “verità di Di Maio”.

Si chiama Chiara Gagnarli e ha firmato un’interrogazione parlamentare per esortare il governo a diffondere l’iniziativa di alcuni supermercati inglesi che hanno tolto snack e caramelle dagli scaffali più vicini alle casse. Per ora la “battaglia” non è neanche una proposta di legge: è un invito a diffondere un’iniziativa. Sacrosanta, per carità. Ne approfitto per segnalare un fatto buffo: i link falsi. Per esempio, in fondo a questa notizia sul sito di Beppe si legge “www.linkiesta.it”: però se clicchi sopra la scritta www.linkiesta.it, non vai sull’inkiesta, bensì su Tzetzè. Si vede che la gente non è poi così entusiasta di cliccare su tzetzè: al punto che bisogna mascherarlo un po’.
Si chiama Marinaleda, è un comune dell’Andalusia di 2600 abitanti. Non è vero che l’affitto sia a 15 euro: con 15 euro al mese la casa è tua – ma devi costruirtela. Non è neanche esattamente vero che tutti guadagnino 47 euro al giorno “non importa quale sia la posizione”: 47 euro è il salario della  Coperativa Humar, che dà comunque lavoro alla maggior parte della popolazione. Fonte Wikipedia, e questo per stasera è tutto.
No, aspetta, c’è un post scriptum. Proprio mentre scrivevo questo pezzo, qualcuno su facebook mi ha segnalato un fotomontaggio di Renzi al volante che contratta con una prostituta (“ma allora é identico a Berlusconi 100%“). Il maldestro tizio che l’ha concepito e postato per ora non sembra essersi reso conto del guaio in cui si è cacciato (“solo gli stupidi come tè non hanno ancora capito che i miei fotomontaggi rispecchiano la realtà“, ecc.). Il suo account è pieno di orrendi fotomontaggi sullo stesso argomento: Renzi-diavolo, Renzi-killer, Renzi al cesso, ecc. ecc. Immagino che Grillo, se interpellato, prenderà le distanze. Ma la responsabilità di aver formato una sottoclasse di web-attivisti isterici, di averli svezzati a vaffanculi e photoshop, è tutta sua. 
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Di Calderoli (non si butta via niente)

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Speravo non arrivasse mai quel giorno, e invece eccomi qui a cantare le lodi dello statista più abile e improbabile d'Italia, Roberto Calderoli. Cosa mi sta succedendo? E siamo sicuri che sia un problema solo mio?

Nei mesi scorsi mi è capitato più volte di criticare, dal mio trascurabile punto di vista, le bozze di riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione portate avanti dal governo e dalla ministra Boschi. Sia nella loro versione marzolina - quando il Senato per un po' fu ribattezzato Assemblea delle Autonomie, senza che si capisse bene su cosa avrebbe legiferato e perché - sia quella bozza successiva in cui, siccome la sproporzione tra regioni più o meno popolate non sembrava sufficiente, qualche buontempone aveva deciso di nominare senatori i sindaci dei capoluoghi di regione. Un nonsense completo che sembrava aggiunto apposta per essere cassato in un secondo momento, e infatti è andata così. Il testo che oggi fa ancora discutere, principalmente per la questione dell'immunità, è comunque molto migliorato. Non è il mio testo ideale, ma mi riconcilia col partito che ho votato alle europee. Non fosse che molti di questi miglioramenti si devono al fatto che ci abbia messo le mani Roberto Calderoli.

Proprio lui, il leghista col maialino al guinzaglio. L'unico ministro al mondo a essersi dovuto dimettere per aver causato una sommossa popolare mostrando una maglietta in tv. Pare che sappia scrivere le leggi meglio dei ministri PD. Questa per la verità non è del tutto una sorpresa... (continua sull'Unità, H1t#236).

Chi segue più da vicino la cronaca parlamentare ci raccontava già da anni di un Calderoli paziente diplomatico, assai diverso da quello che poi alle feste leghiste chiamava la Kyenge “orango tango“. Da cui l’orribile dubbio: è migliorato Roberto Calderoli, o siamo peggiorati tutti, al punto che persino il vecchio suino ormai ci fa la figura di statista? Nel nuovo testo non esiste più quel bizzarro club dei ventuno amici del Quirinale, nominati dal presidente della Repubblica, che avrebbero potuto fare da ago della bilancia in situazioni molto delicate (per esempio la rielezione del Presidente stesso). Ora sono soltanto cinque, una quota molto più accettabile. Ma ce lo doveva spiegare Roberto Calderoli che ventuno erano un po’ troppi?
Nel nuovo Senato non entreranno più i sindaci dei capoluoghi di regione, grandi o piccoli che siano. Si reintroduce finalmente il concetto di proporzionalità: le ragioni più popolate avranno più rappresentanti di quelle meno popolate. Sembra una banalità, ma c’è voluto un emendamento di Calderoli. E della Finocchiaro, certo. Ma fa più effetto pensare che a sventare ogni sospetto di incostituzionalità sia intervenuto proprio Roberto Calderoli.
Persino il suo punto di vista sull’immunità è tutto sommato condivisibile: se i deputati, in quanto eletti dal popolo, godono di un trattamento speciale, non si capisce perché non dovrebbero goderne anche i senatori. Avrebbe davvero più senso eliminare l’immunità per gli uni e per gli altri. Nel frattempo la reazione populista è già scattata, ma era inevitabile: i sindaci-senatori restano una pessima idea. Renzi ci tiene tanto, un po’ perché non ha mai smesso di sentirsi sindaco, e un po’ perché vuole risparmiare sugli stipendi. Il senato che ne risulterà però sarà formato da politici eletti da altri politici: l’obiettivo ideale di tutti i savonarola anti-casta.
Queste e altre obiezioni, fin qui, non avevano smosso il governo. Renzi aveva un progetto preciso – di questa riforma si parlava già ai tempi della prima Leopolda – e, soprattutto, ci aveva “messo la faccia”. La proposta alternativa di Chiti è stata liquidata quasi come un atto di sabotaggio. Non restava che sperare in Calderoli – e Calderoli non ci ha deluso. Ora la legge proseguirà il suo percorso. Se un Berlusconi incattivito dai suoi incidenti giudiziari facesse mancare la maggioranza la legge potrebbe passare comunque con un referendum confermativo. E io mi troverei nella situazione di votare una riforma del Senato e del Titolo V non perfetta ma accettabile – salvo che non lo era, finché non ci ha messo le mani Roberto Lanciafiamme Calderoli.
Sono davvero a questo punto? Ed è un problema solo mio? http://leonardo.blogspot.com
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UKIP - sezione Italia

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Settantotto per cento, un plebiscito. Quando giovedì finalmente Beppe Grillo ha chiesto ai suoi grandi elettori di scegliere il gruppo europarlamentare di preferenza, ventitremila hanno indicato la loro preferenza per l'UKIP di Farage - l'opzione sulla quale Grillo si giocava ormai la sua credibilità di leader. Come sempre il bilancio della democrazia interna è piuttosto avvilente: malgrado il Movimento continui a selezionare i suoi grandi elettori col contagocce (soltanto 87.656 iscritti hanno maturato la facoltà di voto) anche qui l'astensione è altissima; più della maggioranza degli aventi diritto non ha votato. L'esclusione dei Verdi Europei dalla competizione, con ragioni più o meno pretestuose, può avere allontanato qualcuno dal voto; e tuttavia quel 78% ci conferma che non c'è un M5S al di fuori di Grillo. È ormai un ricordo la fronda che in passato disattese le sue volontà, votando per esempio l'abolizione del reato di clandestinità, o costringendo il Capo Politico a uno sgraditissimo incontro con Renzi. Il Movimento che riparte dopo la delusione delle europee è più grillino che mai: se a Grillo va a genio l'UKIP di Farage, che UKIP sia. Ma cos'è l'UKIP, alla fine?

Cominciamo da cosa non è: l'UKIP non è un partito fascista, come molti hanno scritto in questi mesi, anche per l'oggettiva difficoltà nel tradurre in italiano un certo tipo di istanze che sono una novità quasi assoluta. Per la verità un nome esiste - sovranismo - ma è molto brutto e il correttore automatico lo segna ancora come un errore. I sovranisti esistono in tutta Europa; partendo da posizioni diverse (l'UKIP per esempio non nasce all'estrema destra, ma da una scissione del partito conservatore) arrivano più o meno allo stesso risultato: il rifiuto del progetto di unificazione europea. Per i sovranisti non è che un complotto cosmopolita ordito dai nemici dei popoli: banche, multinazionali, massoneria, ecc. Bisogna mandarlo a monte, tutti assieme. Se questa è la piattaforma, l'alleanza con Grillo non dovrebbe stupire. Né dovrebbe sorprendere che Paolo Becchi, ideologo del Movimento a fasi alterne, la presenti come una battaglia di sinistra addirittura ("La sfida del futuro è tra sovranità e internazionalismo negativo"), o che un mese prima della consultazione Grillo abbia già fornito all'ufficio stampa dell'UKIP il piedistallo del suo blog, perché in fondo chi meglio dell'UKIP può spiegare ai lettori quanto bravo e buono e non razzista o fascista sia l'UKIP? (continua sull'Unita.it, H1t#235)

Perfino la promozione del blogger Claudio Messora, che lascia l’ufficio Comunicazione M5S a palazzo Madama per Bruxelles, e che a qualche malfidato poteva sembrare una rimozione dopo le imbarazzanti vicende di qualche mese fa, assume un significato diverso; Messora sarà anche una catastrofe con twitter, ma la sua passione per Farage è sincera e relativamente antica – lo intervistò già più di due anni fa, quando in Italia era un perfetto sconosciuto. La storia d’amore tra M5S e UKIP non è insomma un colpo di fulmine: i segni erano nell’aria già da anni, ma forse abbiamo preferito ignorarli nella speranza che il Movimento diventasse più simile a come lo avremmo voluto: più progressista, più ambientalista, più europeo. Magari a un certo punto ha quasi rischiato di esserlo; ma alla lunga ha vinto la tendenza incarnata da Messora: complottismi assortiti e nostalgie d’un mondo che fu, al tempo in cui il Regno Unito era un Impero, e l’Italia… già, l’Italia, che nostalgie dovrebbe nutrire?
In effetti, uno dei motivi per cui il sovranismo ci ha messo molto ad attecchire qui da noi è la mancanza di un nobile passato da proiettare: il benessere drogato dall’inflazione degli anni Ottanta? Il boom degli anni Cinquanta? Più indietro c’è solo il fascismo, ma è una nicchia di mercato già occupata e sfruttata fino alla noia. Nel frattempo persino la Lega si improvvisa sovranista, smette la camicia verde e le pretese scissionistiche e riscopre il tricolore contro l’euroburocrazia. Una virata spettacolare di cui è responsabile Matteo Salvini, che lavorando a Bruxelles per tanto tempo magari ha fiutato l’aria prima dei cerchi magici  padani.
Se Grillo e Salvini hanno qualcosa in comune con Farage, non è il razzismo o un presunto fascismo, ma proprio la nostalgia. Si stava meglio prima. Ovviamente ognuno pensa a un “prima” diverso: Grillo e Salvini sognano il ritorno dell’Età dell’oro della Piccola Media Impresa; Farage immagina un Regno Unito riconvertito all’industria, di nuovo sbuffante carbone e vapore di petrolio dalle sue mille ciminiere. Se queste nostalgie abbiano ancora senso, in un mondo che va verso l’emergenza ambientale globale, è una domanda che va girata ai loro elettori. http://leonardo.blogspot.com
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"Vuoi più bene alla Boschi o a Mineo?"

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A conti fatti forse Matteo Renzi mentiva. Due settimane fa, ricordate? Quando festeggiò la vittoria alle europee ribadendo che non si era trattato di un referendum sul governo. "Non lo considero un voto sul governo, non lo considero un voto su di me". Una magnanima affermazione che ha avuto senso appena per il tempo dei festeggiamenti. È bastato che il primo nodo venisse al pettine (il dibattito sulla legge elettorale), perché gli elettori del PD scoprissero di non aver votato semplicemente per Matteo Renzi - il che ci potrebbe anche stare, via - ma proprio per la bruttissima legge elettorale su cui Matteo Renzi, a dispetto di ogni ragionevolezza e obiezione di incostituzionalità ha pervicacemente deciso di mettere la propria faccia.

Dunque, se Corradino Mineo, senatore del PD ritiene - come ritengo anch'io, per quel che vale - che quella proposta di legge sia davvero brutta, non solo il suo parere in commissione smette di essere interessante, ma diventa addirittura un tradimento a una volontà che gli elettori avrebbero espresso: "non ho preso il 40,8 per cento per lasciare il paese in mano a Corradino Mineo", pare abbia risposto Matteo Renzi. Onde evitare che il Paese intero rimanesse ostaggio del senatore regolarmente eletto Mineo, quest'ultimo è stato subito sostituito in commissione, con una procedura forse irregolare - ma forse sulla schede delle europee accanto al simbolo del Pd c'era la domanda: vuoi le riforme di Matteo Renzi, o preferisci lasciare il Paese in mano a Corradino Mineo? Io francamente non ricordo di aver letto così, ma forse andavo di fretta... (continua sull'Unita.it, H1t#234)



Quando ieri tredici senatori del PD hanno protestato per la sostituzione di Mineo in Commissione auto-sospendendosi, Luca Lotti (sottosegretario alla presidenza) ha rincarato la dose: “Tredici senatori non possono permettersi di mettere in discussione il volere di 12 milioni di elettori”. Per la verità a votare PD sono stati soltanto undici milioni e duecentomila: e sulla scheda non c’era scritto: “che ne dite di sostituire il senato con un dopolavoro di sindaci – ma non tutti i sindaci, soltanto alcuni scelti un po’ a caso – integrato da un club degli amici del presidente della repubblica? Sì o no?” Si tratta evidentemente di dettagli, inezie: undici milioni abbondanti di italiani hanno votato il PD, e pare che votare PD significhi anche questo. Non un referendum su Renzi, non un referendum sul governo, ma un referendum sul dopolavoro dei sindaci dei capoluoghi di provincia. Potevano almeno dircelo – no, dovevamo capirlo da soli.
A Lotti fa eco Ivan Scalfarotto: “è a quel quarantuno per cento di elettori che i nostri 14 colleghi dovranno spiegare le ragioni del proprio gesto”. Ecco, se posso dire la mia, molto umilmente: contatemi fuori. C’ero anch’io in quel 41%. Ho votato PD per motivi che nulla avevano a che fare con la riforma elettorale; mi dispiace, mi dispiace veramente, ma continuo a trovare le bozze della ministra Boschi una peggio dell’altra. Non ho votato per Matteo Renzi, che sulla scheda non c’era; non ricordo che ci fosse nemmeno una domanda del tipo “vuoi più bene alla Boschi o a Corradino Mineo”. Ho votato Cécile Kyenge per quanto di buono è riuscita a fare nel poco tempo in cui è stata ministro – prima che Renzi la sostituisse; ho votato altri due candidati perché li ritenevo eccentrici rispetto alla maggioranza renziana del PD. Mi riconosco nella minoranza del PD e credo che la proposta Chiti sia molto più interessante, nonché meno esposta a rischi di bocciatura da parte della corte costituzionale.
In breve, ho votato il PD perché il PD non è soltanto Matteo Renzi; se Matteo Renzi non è più d’accordo, vorrà dire che non voterò più PD. Potete cominciare a segnare: undici milioni e duecentomila meno uno. Grazie. http://leonardo.blogspot.com
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Fuori format

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Dunque il M5S ha perso perché è andato in tv o perché non c'è andato abbastanza? I deputati m5s alla Camera (o perlomeno il loro Staff Comunicazione) la pensano in un modo, Casaleggio in un altro. La verità non l'ha in tasca nessuno: invece nel cestino di molti opinionisti che in questi giorni ci hanno spiegato per filo e per segno gli errori di Grillo e i successi di Renzi, ci sono le bozze di articoli in cui venivano illustrati gli errori di Renzo e si salutava la vittoria di Grillo. Materiale buttato giù appena una settimana fa, ora inservibile.

La politica non ha l'aria di una scienza esatta. L'unica evidenza a nostra disposizione però sembra parlar chiaro: quando Grillo si negava alla tv ed espelleva chiunque si esponesse alle telecamere, il MoVimento vinceva. Oggi che Di Battista e Di Maio sono diventati volti televisivi, e Grillo si abbassa persino a comparire a Porta a Porta, il MoVimento cala. Forse non ha tutti i torti Casaleggio, dopotutto: il M5S è nato fuori dai riflettori e in tv non funziona.

Allo stesso tempo, è comprensibile che i parlamentari m5s insistano sulla tv. Anche se per ora il bilancio è negativo, è solo grazie alla tv che i più intraprendenti deputati e senatori a cinque stelle sono usciti dall'anonimato. Non è una questione di vanità, anche se guardando Dibba qualche dubbio viene. Se non vuole continuare a dipendere da Beppe Grillo, e dalla sua non sempre lucida foga oratoria, il M5S deve riuscire a trovare e imporre facce nuove. La Rete, al di là dei proclami, non riesce a selezionare e dare forma a veri e propri personaggi: se oggi Dibba può vantarsi di avere trecentomila amici su facebook, è grazie alla celebrità che si è conquistato mettendosi in favore di telecamera ogni volta che ne ha avuto l'occasione.

La tv ha ancora un ruolo centrale nella creazione del consenso (continua sull'Unita.it): ce lo dimostra l’assiduità con cui anche Renzi si è fatto intervistare negli ultimi giorni della campagna. Lo stesso Berlusconi non si è risparmiato, ma lo specchio televisivo comincia a essere impietoso nei suoi confronti (e dire che è passato appena un anno da quella sua straordinaria calata a Servizio Pubblico). Quanto a Grillo, la sua visita da Vespa forse è stato l’episodio più significativo di quest’ultima campagna elettorale.

È il caso di ricordare che sullo stesso set Berlusconi ha realizzato i suoi exploit più memorabili (il contratto con gli italiani, e quell’indimenticabile “abolirò l’ICI” al termine di un confronto con Prodi). Un successo da Vespa può fare davvero la differenza: Grillo lo sapeva, ed evidentemente quella differenza gli interessava. Porta a Porta poteva essere l’occasione di parlare a un bacino elettorale diverso da quello dei suoi tour di comizi, ma strategicamente cruciale: i moderati delusi da Berlusconi, tentati dall’astensione, incuriositi da Renzi.
Col senno del poi è facile concludere che il tentativo è fallito miseramente, dandoci l’opportunità di misurare l’ingenuità del vecchio attore che riteneva di poter calcare la scena televisiva improvvisando gli stessi numeri da repertorio che porta in giro nei comizi. Un professionista consumato dovrebbe ricordare che tv e piazza funzionano in modi diversi, e che aggirarsi per lo studio gettando i cameraman in confusione crea più ansia che empatia; ma forse questi ultimi tempi il professionista si è consumato più del necessario. Eppure c’è stato un tempo in cui Grillo riusciva a comunicare anche senza urlare: un tempo in cui gli bastava gettare un’occhiata nel silenzio per catturare l’attenzione del telespettatore. Forse, se si fosse un po’ calmato, e avesse risposto alle domande non perfide di Vespa ostentando il suo buon senso con inflessione genovese, qualche voto moderato avrebbe potuto conquistarlo. Molte repliche di Vespa erano inviti in tal senso: siediti, calmati, spiega agli italiani cosa faranno di pratico i tuoi onesti al governo.
Grillo, per quanto fosse probabilmente consapevole  della necessità di smorzare i toni, non è riuscito a controllarsi. Era impossibile non ripensare a quel famoso incontro con Renzi in cui gli bastò sedersi a un tavolo e subire un paio di repliche per andare in confusione. L’embargo tv imposto da Casaleggio fino all’anno scorso forse era anche un sistema per nasconderci la situazione: l’unico vero personaggio televisivo del M5S, in tv non ci riesce più a stare. Gli altri, per quanto volonterosi, non riescono a far sentire la loro diversità in un circo di talk che a ogni personaggio trova subito la sua gabbia. Forse il problema non è tanto se andare in tv o no, ma: cosa ci andiamo a fare? Replicare i vecchi numeri evidentemente non basta: il pubblico da casa ha gusti diversi. Se davvero l’obiettivo è ancora il 51%, Grillo & co. dovranno farci i conti.http://leonardo.blogspot.com
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Grillo, dentiere, algoritmi, cazzate

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Quante balle ha sparato Beppe Grillo ieri sera a Porta a Porta? Difficile contarle; anche perché, come ogni predicatore professionista, sa mescolare con sapienza verità sacrosante e sciocchezze allucinanti. Qui mi soffermo su due proiettili enormi che Vespa, con tutta la sua studiata diffidenza, gli ha lasciato sparare senza opporre la minima obiezione. Il primo è la tirata sulle stampanti 3d, un tormentone dell'ultima tournée a quanto pare. Come ha osservato la settimana scorsa Michele De Salvo, quando parla di stampanti 3d Grillo non sa semplicemente cosa sta dicendo: non solo dà numeri a caso e contrabbanda notizie false, ma smentisce platealmente le sue stesse premesse, passando nel giro di pochi secondi dal lamento per una "crescita che toglie posti di lavoro" all'elogio per uno strumento che, se davvero producesse dentiere e mattoni come sostiene Grillo, i posti di lavoro non li aumenterebbe senz'altro, anzi.



La seconda è una storia più vecchia: il politometro, quel fantasioso strumento che dovrebbe misurare la corruzione dei politici e consentirci di recuperare le risorse di cui si sono impadroniti - prima di rimandarli a casa. Grillo ha spiegato che il sistema è ormai operativo, che si tratta di un algoritmo o qualcosa del genere: in sostanza, ha rispolverato l'antica bufala dello Zip war aiganon, scoperta due anni fa da Francesco Lanza. Si tratta di una delle più impressionanti supercazzole mai inscenate da Grillo per il suo pubblico: come scriveva Davide De Luca un mese fa "Un “algortimo” non può svolgere la funzione indicata da Grillo. I dati che questo “algoritmo” dovrebbe “intersecare” non sono pubblici ed ottenerli è un reato. È impossibile nell’ordinamento di qualunque democrazia espropriare il denaro di qualcuno senza un processo. Altre mille cose non tornano nel video, come il fatto che quando Grillo gira lo schermo del tablet verso la telecamera per mostrare il famoso algoritmo, sul desktop non si vede assolutamente niente". In questi mesi lo Zip war aiganon è diventato in rete un esempio quasi proverbiale della spregiudicatezza con cui Grillo confeziona e vende il nulla: eppure Vespa, lasciando cadere uno spunto così promettente, ha dimostrato di non averne mai sentito parlare (continua sull'Unita.it, H1t#232)

La dentiera 3d e lo Zip war aiganon sono due casi interessanti che dimostrano, purtroppo, il contrario di quel che Grillo stesso propugna in ogni suo intervento: la vittoria del dibattito in Rete contro la propaganda in tv. Fin qui è l’esatto opposto: ogni volta che la tv ce lo mostra mentre dice una cosa falsa, la Rete prontamente accorre a smentirlo, con dovizia di documentazione. E però tutto questo dibattito rimane confinato entro una cerchia ristretta di lettori: il bacino di utenza di Grillo non ne viene minimamente scalfito, e Grillo può continuare a urlare le stesse balle al prossimo comizio, in favore di telecamera. È una lotta ancora impari – e perduta, probabilmente. Ma qui per quel che si può si combatte ancora.

PS: oggi ricorre il 570simo anniversario della morte di Bernardino da Siena, geniale predicatore quattrocentesco che per tante cose sembra anticipare Beppe Grillo. Gli auguriamo una vita ancora lunga e piena di soddisfazioni, come fu quella di Bernardino, e migliaia di altre piazze gremite da incantare. Non ce ne voglia però se nei parlamenti preferiamo mandare gente un po’ meno estrosa, un po’ più preparata.http://leonardo.blogspot.com
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Il complotto contro un uomo ridicolo

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Dopo tanto tempo ho provato a rivedere il vecchio video del vertice di Bruxelles (23 ottobre 2011), e devo dire che non ho cambiato idea: per me la Merkel e Sarkozy non stavano ridendo di Berlusconi. La giornalista, che aveva appena chiesto ai due leader se si sentivano rassicurati dalle riforme promesse dal governo italiano, non aveva rivolto la domanda a nessuno dei due in particolare. Sarkozy era già pronto a rispondere, ma voleva attendere che la collega terminasse di ascoltare la traduzione simultanea: così si voltò verso di lei e sorrise.

Quello che accadde davvero a quel punto - e che comprensibilmente Berlusconi non vuole sentirsi dire - è che risero i giornalisti. Non risero perché pilotati da un complotto ordito a Berlino o a Strasburgo. Non risero della situazione italiana, delle tre manovre promesse e rimangiate durante una psicotica estate trascorsa ad abolire province e ritoccare aliquote sui giornali del mattino, per rimangiare tutto nei talk della sera. Risero perché il re era nudo, perché Berlusconi era ridicolo. Oggettivamente, lo era: non è improbabile che a scatenare quella libera risata internazionale abbia concorso più Ruby Rubacuori che tutti i severissimi editoriali dell'Economist o del Wall Street Journal. Quel che importa è che B. ormai fosse un oggetto impossibile da gestire senza riderci su: all'estero soprattutto, fuori dal cono d'angoscia dello spread. Se anche ci fu un complotto, come racconta l'ex ministro del Tesoro USA Geithner, fu un complotto per convincere le istituzioni italiane a liberarsi di un capo del governo incapace e screditato. Dal mio antiberlusconiano punto di vista, avrei preferito un complotto più efficiente e tempestivo. Una nazione può permettersi di avere politici non all'altezza, se ha i conti in ordine; o può avere i conti nel caos, se ha leader carismatici e autorevoli. Nell'autunno 2011 stavamo precipitando con una squadra di pagliacci in cabina di comando (Continua sull'Unita.it, H1t#231).

Per capire quanto pericoloso e incompetente fosse B. l’Europa ci ha messo vent’anni e una crisi sistemica. Finché le cose non sono andate troppo male, i suoi colleghi erano pronti a tollerarlo anche mentre faceva le corna nelle foto ufficiali; al Partito Popolare Europeo i suoi voti non dispiacevano affatto. Ma verso l’autunno 2011 Berlusconi guidava a vista un governo in stato confusionale; a fine agosto Sacconi si era sbagliato a fare i conti e aveva proposto di tagliare a militari e laureati la reversibilità degli anni di studi e di leva. Poco prima Tremonti aveva deciso di abolire tutte le province piccole tranne Sondrio. Proposte deliranti che lasciavano chiaramente intuire il panico e l’insipienza di chi le dettava. Chi avrebbe comprato i nostri titoli di stato? Bruxelles non avrebbe dovuto preoccuparsi della catastrofe della quarta economia europea?
Come siano andate le cose non lo sapremo mai. Senza perdersi in dietrologie, non si può non rilevare come Geithner abbia scelto di lanciare il suo retroscena nel momento più delicato di una campagna elettorale europea. Il fatto che nel nostro piccolo orto italiano le sue rivelazioni offrano a Berlusconi il destro per gridare al golpe ci distoglie forse dal quadro generale. E il quadro generale che ci dipinge Geithner è quello di un’Europa asservita a una Germania arcigna, “tirchia”, risoluta a non riaprire il “libretto degli assegni” per aiutare le fragili e irresponsabili economie mediterranee; disposta persino a far cadere leader democraticamente eletti (benché universalmente screditati). Più che aiutare un Berlusconi “radioattivo”, Geithner sembra voler regalare argomenti a chi lamenta l’egemonia tedesca nel continente (suggerendo anche un euroleader alternativo alla Merkel: Mario Draghi). Non è un affatto un quadro irrealistico, bisogna ammetterlo. Ma come sempre è interessante il paradosso: mentre ci racconta di un Obama monroviano, assolutamente indisposto a sporcarsi del “sangue” di Berlusconi (“Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani” diceva Geithner), l’ex ministro sta facendo, nel suo piccolo, esattamente quello che Obama non avrebbe voluto fare: sta intervenendo. Ci sta suggerendo che un’Unione più solida rischia di essere asservita alla Germania; ci sta spiegando come dovrebbe funzionare la BCE; ci sta mettendo in guardia dai vertici comunitari che tramerebbero contro i leader eletti dal popolo. Le forze che si oppongono all’integrazione europea non possono che ringraziare. http://leonardo.blogspot.com
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Il Signor G invecchia

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Tra tante cose che Primo Greganti potrebbe aver fatto nell'ultimo anno - la magistratura accerterà - ce n'è una sulla quale mi posso già esprimere con una relativa sicurezza: in febbraio dovrebbe aver compiuto settant'anni. All'età in cui tutti ci auguriamo di aver tirato finalmente i remi in barca, il signor G è ancora saldamente attaccato a un telefono da cui passano affari. La sua tenuta in fondo non ci stupisce - non nel paese in cui un 77enne ex presidente del Consiglio non esclude di ricandidarsi, dopo aver estinto la sua pena in una casa di cura dove abitano ospiti anche più giovani di lui.

È forse più sorprendente rendersi conto che nel nel 1993, quando fu arrestato con l'accusa di aver intascato una tangente da un miliardo e 200 milioni di lire, Greganti non ne aveva ancora compiuti cinquanta. Un giovanotto, diremmo oggi. Un funzionario nazionale del PDS, con un ruolo delicato e responsabilità pesantissime: la sua età nel '93 era una non-notizia. A voler cercare il bicchiere mezzo pieno - arte in cui conviene allenarsi - il suo arresto significa che il passaggio generazionale è ostruito anche tra i tangentari. Ci sbagliavamo a immaginarcelo come un mondo di lupi senza scrupoli, un mondo in cui se chini la testa qualcuno è pronto a staccartela. Evidentemente per costruire il know-how di un G. o di un Bisighini servono decenni di relazioni. Eppure G. e Bisighini (e Scajola) hanno in comune di aver cominciato relativamente giovani. In seguito, evidentemente, nessuno è riuscito a scalzarli.

Ora Matteo Renzi promette una task force (continua sull'Unita.it, H1t#230)succede, in casi come questi, di promettere qualcosa in inglese. L’inglese è più succinto, consente ai giornali di usare un carattere più grosso (task force in italiano sarebbe una commissione straordinaria, non suona davvero altrettanto bene). Speriamo che sia la volta buona; sarebbe bello poter pensare che anche le mazzette siano una questione generazionale, una triste abitudine dei nati negli anni Quaranta e Cinquanta. Renzi è del 1975, forse ne siamo fuori. Io però devo confessare una cosa orribile.

Se finalmente arrestassero un tangentaro della mia età, ne sarei quasi sollevato: significherebbe che anche noi siamo in grado di delinquere. Che non siamo una generazione di marziani ancora completamente impermeabili al tessuto sociale che non ci sta assorbendo. Mentre i nostri genitori e nonni continuano a intascare buste per noi. Come se non ne fossimo capaci. E forse davvero non ne siamo capaci. Ma anche l’onestà dovrebbe essere una scelta, non il posto in cui ti rassegni a sedere perché gli altri sono già tutti occupati. http://leonardo.blogspot.com
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Carta Forbice Sasso MatteoRenzi

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Leggendo che per rimontare nei sondaggi a Berlusconi era bastato denigrare un po' i tedeschi, ho sentito in me qualcosa di assolutamente nuovo; una specie di torva soddisfazione. Non mi era mai capitato, ma per la prima volta ho scoperto di tifare un po' per l'orribile B. Non tanto: appena un po'. Non vorrei mai che vincesse le elezioni; ma preferirei che non le perdesse troppo. Cosa mi sta succedendo?

In parte è l'esito di una certa insofferenza nei confronti di chi anche stavolta lo dà per finito - e nel frattempo non si è nemmeno preoccupato di ostacolare la macchina di guerra mediatica che ogni volta, puntualmente, gli regala una rimonta. Il conflitto di interessi che regala a Berlusconi quasi metà dell'offerta televisiva generalista non sarà risolto nemmeno in questa legislatura, ci mancherebbe altro. A chi come me continua a pensare che B. debba gran parte del suo successo alla tv in fondo fa piacere notare che il problema c'è ancora (e ci sarà anche quando B. finalmente si ritirerà: volente o nolente ha degli eredi). Ma non è solo questo. Il fatto è che se Berlusconi recuperasse un po', magari riuscirebbe a levare qualche voto a Grillo. O a Renzi. E mi sorprendo a pensare che forse è meglio così.

In effetti, cosa mi posso aspettare da queste elezioni? Le riforme di Renzi non mi piacciono: le trovo dilettantesche e pasticciate. Non credo che abbia ambizioni autoritarie, ma chi le ha potrebbe in un futuro non remoto trovarsi molto avvantaggiato dalla sua pazza legge elettorale che regalerebbe il parlamento a chi si aggiudica appena il 37% dei seggi. Tutto questo è molto pericoloso e mi porta, certe sere, a invocare la forbice di Grillo. (continua sull'Unita.it, H1t#229)

E tuttavia Grillo, se vincesse davvero, sarebbe persino più pericoloso: il referendum per uscire dall’Euro, per dirne una, è una proposta semplice semplice per creare il caos tra i risparmiatori e accelerare l’apocalisse a cui lui e Casaleggio tengono molto. A quel punto non mi resta da sperare che la forbice grillina sia resa inservibile da un colpo ben assestato del sasso di Berlusconi.
Berlusconi poi non ha più un futuro che non coincida col suo personale: un suo successo non farebbe che allungare l’agonia in cui ha abbandonato l’Italia in questi vent’anni, per cui mi auguro che sia intercettato dalle carte di Renzi – per quanto dilettantesche e pasticciate.
Tra carta, forbice e sasso il gioco va avanti, e non posso dire di tifare davvero nessuno dei tre. Ma spero che perdano un altro po’ di tempo senza combinare niente di grave, in attesa che arrivi qualcosa di meglio. E qualcosa di meglio potrebbe pure arrivare. http://leonardo.blogspot.com


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Abbiamo cliccato beppegrillo per voi!

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Sarà capitato anche a voi di ritrovarvi su beppegrillo.it per un qualsiasi motivo, anche solo per contare quanti fotomontaggi di Matteo Renzi contiene in questo momento (in questo momento, per esempio, quindici: non sto scherzando, quindici). E sarà capitato anche voi di dare una rapida occhiata alla colonna destra, con quegli strilli caratteristici che non usano mezze misure per titillare la vostra curiosità (guarda cos'è successo! tizio ha distrutto caio! Non abbiamo parole! clicca!) Siccome però il clic conduce quasi sempre ad altri clic che rimandano a una delusione, ho pensato di risparmiare tempo e fatica a molti lettori inaugurando la saltuaria rubrica Abbiamo cliccato beppegrillo per voi: basta leggere qui sotto e saprete tutto quello di cui si parla in questo momento nella colonna destra di beppegrillo.it, senza bisogno di ulteriori clic. Comodo, no?



Clicchiamo e finiamo sul sito casaleggiano Tzetzé. Scopriamo così che un tizio di Termoli ha commentato su facebook un messaggio di Laura Boldrini suggerendo di essere pronto per "fare un macello". "Sono il prossimo che farà qualche pazzia...- ha scritto Felice Ferucci - Orfano da venerdì, senza lavoro da mesi (per assistere la mia mamma) una casa (fortunatamente mia, ma ancora per poco visto che non posso pagare nulla), prossimo ad andare a mangiare alla Caritas, oltretutto iscritto alle categorie protette ma un cazzo niente, in Molise per uno di 43 anni come me, anche se invalido, non c'è possibilità di lavoro..". Il commento si chiude così: "Ora dimmi tu cara Boldrini, secondo te sono prossimo a fare un macello?"

Non potendo saperlo, e non riuscendo a decifrare l'"ironia" e il "sarcasmo" del messaggio, la Boldrini avrebbe segnalato la cosa alla polizia. In realtà no: se si legge la notizia fino all'ultima riga, si scopre che "Laura Boldrini non c'entra, che non è lei e che lei nemmeno legge i commenti"; è la polizia a passare "al setaccio, con l'aiuto di un sistema computerizzato, le migliaia e migliaia di messaggi scritti sulla pagina del presidente della Camera", e a selezionare tra i tanti il messaggio di un tizio di Termoli che - particolare non secondario - ha precedenti penali.  Dunque, insomma, una notizia c'è: la polizia dà un'occhiata a chi commenta i messaggi della presidente della Camera, e magari li incrocia con il casellario giudiziale. Non dovrebbe farlo? Quanto ci costa? Non si potrebbe inserire un dispositivo che ci aiuti a riconoscere l'"ironia" e il "sarcasmo" nel messaggio di un 43enne con precedenti penali che minaccia la presidente di "fare un macello"? Potremmo aprire un dibattito. Ma prima torniamo un attimo allo strillo su beppegrillo.it, per favore. C'è scritto "Pazzesco, Laura Boldrini ha mandato la polizia a casa di un cittadino". È vero? No, se leggi fino in fondo la notizia scopri che no: non è stata la Boldrini.

Il tizio è stato denunciato? È indagato? Tzetzé non ce lo dice. Ah, ha già ripreso a commentare i messaggi della Boldrini.






Vale la pena di notare la par condicio sulle facce buffe: beppegrillo.it non fa sconti a nessuno. Puoi anche essere un eroe del Movimento Cinque Stelle, ma se finisci sulla colonna destra ci finisci con una faccia buffa. Detto questo, cos'è successo a Luigi Di Maio? Ha trovato una spilletta del Movimento Cinque Stelle appesa sopra lo specchietto retrovisore, e ha scattato la foto. Sì, stavate per perdervi questo fondamentale scoop. (Continua sull'Unita.it, H1t#228)




Il celebre attore è ovviamente Ivano Marescotti, vittima della par condicio: aveva una parte non secondaria in una fiction girata due anni fa e andata in onda per la prima volta a pasquetta. Nel frattempo Marescotti si è candidato alle europee (lista Tsipras), e quindi a norma di legge non poteva comparire in tv. Malgrado le sue proteste, la Rai ha mandato in onda una versione della fiction censurata di ogni fotogramma in cui compariva Marescotti. Non si poteva semplicemente mandare in onda la fiction in un altro periodo (chiede l’attore)? In effetti. Ma perché “i 5 stelle avevano ragione”? Perché quello che vale per Marescotti vale anche per Renzi, che voleva giocare alla Partita del Cuore in diretta Rai. Niente da obiettare. Quindi, insomma, per i 5 stelle è stato giusto tagliare le parti di Marescotti? Non è molto chiaro, e in effetti molti commentatori cinquestellati si lamentano della censura. Ma è la par condicio: esattamente la stessa regola che il MoVimento invocava contro Renzi calciatore…







Farà sicuramente molto discutere. Mentana ha annunciato in diretta tv: “Se siete interessati alla Pasquetta, guardate un altro notiziario”. Tutto qui, discutetene (no, in effetti cliccando trovate anche i preziosi commenti di “alcuni utenti su Twitter”).
Io davvero certe volte la strategia di Beppegrillo.it non la capisco. Qui ci sono rivelazioni shock! Il Partito Democratico è finito! Una notizia del genere, invece di stare in cima al sito, è relegata sotto l’annuncio di Mentana che non vuole parlare della pasquetta. Evidentemente per il lettore-tipo di Beppegrillo va tutto bene così: per trovare le rivelazioni shock bisogna prima scavare sotto un po’ di cazzate. Ma veniamo alla rivelazione shock. È una lettera aperta a Matteo Renzi datata 16 aprile – una settimana fa – in cui Francesco Ribaudo, deputato del PD critica aspramente la gestione del PD siciliano, invitando ripetutamente il segretario a non fidarsi del suo referente in Sicilia, Davide Faraone. Shock! La notizia è effettivamente interessante, anche se si trovava già da qualche parte in rete da una settimana (qui su trinacrianews).
L’accusa più circostanziata che Ribaudo rivolge a Faraone (e al presidente della regione Crocetta) è lo stravolgimento delle liste elettorali per le europee, con l’esclusione immotivata di Antonello Cracolici, che era stato votato dall’Assemblea Regionale; un brutto precedente. Questa è la rivelazione shock, e quindi adesso il PD è finito. Ok. Per Beppegrillo, quando un deputato di un partito scrive a un segretario per lamentarsi di come è stata fatta una lista elettorale, il partito finisce; scoppia, implode, evapora, muoiono tutti, roba così. Che possano esistere altre forme di dialettica interna, anche spiacevoli, non è contemplato. Se succedesse una cosa del genere nel M5S… ma non potrebbe succedere, per via che nel M5S un segretario eletto non c’è: c’è un capo politico che ha registrato il marchio e se non sei d’accordo te ne devi andare. In questo modo il partito, pardon, il MoVimento non esplode.

So che non state nella pelle, ebbene, durante la diretta di Otto e Mezza Renato Brunetta ha ricordato a Lilli Gruber di essersi dimessa in anticipo dall’europarlamento. Lilli Gruber si ricordava benissimo dell’episodio (nel 2004 aveva sconfitto Berlusconi nella sua circoscrizione), e ha ammesso senza scomporsi di essersi dimessa, udite udite, sei mesi prima della scadenza naturale del suo mandato, appena in tempo per non percepire l’europensione. Senz’altro non sarebbe stato impossibile trovare una sua foto meno paperesca, ma siamo pur sempre su beppegrillo.it.


Ho visto il filmato per voi e posso tranquillizzarvi: Travaglio non sputa in faccia né ai telespettatori (e perché avrebbe dovuto, poveri telespettatori?) né a nessuno. Travaglio afferma pacatamente che gli italiani che votano 5 stelle “sperano di avere in Parlamento un’opposizione irriducibile fatta di persone che non hanno mai fatto politica e che vanno lì a fare le pulci ai professionisti della politica”; plaude ai giovani pentastellati nei consigli comunali che filmano gli inciuci. Non saprei dire quanti inciuci siano emersi negli ultimi anni grazie ai filmati dei giovani che non hanno mai fatto politica ma che evidentemente sanno fare le pulci, in ogni caso Travaglio la pensa così e lo dice – per ora – senza sputare.

Io non so se sia per imperizia dell’addetto ai fotomontaggi o per qualche astruso calcolo, fatto sta che in questa immagine Grillo è molto più buffo di Renzi – potrebbe benissimo essere un’immagine messa in giro dai comunicatori di Renzi, anche loro non esattamente campioni di raffinatezza. Comunque cliccando si finisce su un altro articolo di Tzetzé, una breve antologia di risposte a un acuminato tweet renziano (“I comici milionari dicono che 80 euro sono una presa in giro. Se provassero a vivere con 1200 euro al mese non lo direbbero“). Il tono più o meno lo dà la prima risposta: “rendendo un salario medioalto ti sei dimenticato cosa significa vivere cn 400 euro al mese. con 80 euro nn ci fai NIENTE!” Si può essere più o meno d’accordo, tranne con chi si lamenta che con 80 euro ci paghi giusto l’idraulico che ti ripara un rubinetto. Hai detto niente. O ti si rompe un rubinetto al mese?







Oddio, povero Travaglio, che ti è successo? Era un attimo fa che eri qui a sputare ai telespettatori. No, è successo che Giuliano Amato ha fatto causa al Fatto Quotidiano: vuole 500.000 euro per “una inspiegabile campagna diffamatoria condotta a decorrere dal settembre 2013 con il pretesto della nomina a giudice della Corte Costituzionale”. E Travaglio? Travaglio, nella colonnina destra, rappresenta il Fatto. Lo incarna. Se succede qualcosa al Fatto, succede a lui.







Cos’avrà mai avuto il coraggio di fare? Luna Berlusconi ha inaugurato due club di Forza Italia in onore di Dudù. Fine della notizia. Sì, stavate per perderla, no, non c’è bisogno di ringraziare.

Agorà (Rai3) ha divulgato un sondaggio Ixé in cui il PD è al 32% e il M5S al 25%. Il Fatto invece ha pubblicato un sondaggio di Scenaripolitici.com in cui la forbice tra PD e M5S è di un punto, anzi mezzo. Tra un mese sapremo quale dei due sondaggi era più imbarazzante. Per ora, l’unica statistica di cui mi fido è quella che mostra come storicamente i sondaggi pre-elettorali in Italia non ci prendano mai. E questo è tutto. Alla prossima. http://leonardo.blogspot.com





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L'anno prossimo a Grillandia

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Buona Pasqua; chissà se arriveremo alla prossima? Nessuno può saperlo, tranne forse Beppe Grillo, che ieri scriveva così:

Tra un anno di Berlusconi rimarrà il ricordo, di Napolitano neppure quello, Renzie sarà ricordato come uno zimbello, come il dito inserito in un buco della diga prima della crepa definitiva, si apriranno finalmente processi come MPS e i nomi della trattativa Stato-mafia saranno espulsi dalle Istituzioni. Nuovi moralisti si stracceranno le vesti.

Nessuna invasione di cavallette, perlomeno fin qui. Va bene, mettiamo un segnalibro: tra un anno, più o meno verso Pasqua, verificheremo cosa sarà rimasto di Berlusconi e Napolitano; a che livello sarà la reputazione di Renzi; a che punto sarà quel processo MPS che nelle fantasie grilline doveva portare alla sbarra tutto il partito democratico e, perlomeno fin qui, non lo ha fatto. E controlleremo quanti "nomi della trattativa Stato-mafia" saranno emersi e conseguentemente espulsi dalle istituzioni.

Grillo non spiega in che modo tutto questo possa succedere; quale sarà la scossa che creerà la "crepa definitiva"? Un successo del M5S alle europee? Non cambierebbe i rapporti di forza in parlamento e non farebbe che rinsaldare l'asse Renzi-Berlusconi. L'esito naturale delle inchieste in corso? La rivoluzione sarebbe in pratica demandata alla magistratura, in cui evidentemente si conserva una fiducia incrollabile. O forse Grillo si aspetta ancora, con impazienza crescente, una catastrofe economica: d'altro canto la profezia, intitolata La frana #franatutto, comincia così: "Non la sentite la frana? Sta venendo giù tutto. Mafie, partiti, corrotti, corruttori, piduisti, lobbisti, banchieri. Sono i detriti della Seconda Repubblica, la parte più infame della Storia d'Italia. Viene giù tutto insieme come in quegli smottamenti improvvisi che travolgono in pochi secondi ponti e strade in apparenza indistruttibili..."

Ok, siamo per essere travolti. A questo punto però è interessante andarsi a leggere cosa scriveva Grillo un anno fa (continua sull'Unita.it, H1t#227)

Non è un’operazione semplicissima: l’indice dell’archivio è uno degli elementi meglio nascosti del suo blog, e magari c’è un motivo. Il 21 aprile di un anno fa Grillo scriveva “Entro alcuni mesi l’economia presenterà il conto finale e sarà amarissimo. Dopo, però, ci aspetta una nuova Italia”. Campa cavallo. A questo punto faccio anch’io la mia previsione: da qui a un anno molte cose cambieranno, ma Grillo sarà ancora in qualche piazza o qualche teatro, e sicuramente sul suo blog, ad annunciare che la fine dei tempi è vicina e un’altra Italia è alle porte. Questione di giorni, di mesi, eccetera.
Il ricorso all’apocalisse non è una novità per un predicatore come Grillo. Semmai un segno di continuità con alcuni maestri rivendicati – su tutti Savonarola. È normale che Grillo spinga su questo pedale, anche perché alla fine è l’unico pedale che ha: come puoi spiegare al tuo popolo e a te stesso che ogni tuo sforzo per creare un movimento politico alternativo si è rivelato perfettamente funzionale alla creazione di un asse stabile tra centrosinistra e centrodestra? Come puoi evadere dal ruolo di spauracchio che ha dato a Renzi e a Berlusconi la scusa migliore per sedersi allo stesso tavolo e dividersi il futuro? In tanti abbiamo sperato che Grillo, e che soprattutto i suoi uomini, riuscissero a evitare il tranello e s’inventassero qualcosa di diverso. Era una speranza sciocca, questa sì decisamente travolta tra la primavera del ’13 e questa. Ora a Grillo non resta che urlare, sempre più forte, che la fine dei tempi è vicina: che tutto sta per crollare; dovesse succedere davvero, dargliene atto sarà l’ultimo dei nostri problemi. http://leonardo.blogspot.com
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Il gioco della torre

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Ovviamente non posso sapere cosa si siano detti con esattezza Matteo Renzi e Silvio Berlusconi al telefono; mi è impossibile misurare l'imbarazzo con cui il presidente del consiglio avrà parlato di riforme costituzionali con un avversario politico condannato in via definitiva, e che senza la disponibilità dello stesso Renzi sarebbe ormai da considerare al termine della sua traiettoria politica. L'Italicum, per come se ne parla sui giornali, continua a sembrarmi un buffo paradosso: i leader delle due principali coalizioni si stanno mettendo d'accordo per escludere qualsiasi possibilità di mettersi d'accordo da qui in poi. Qualsiasi rischio di Grosse Koalition dev'essere per sempre scongiurato: dunque la maggioranza dell'unica camera eletta dal popolo dev'essere riservata alla prima forza politica che si aggiudichi il 37% dei suffragi - poco più di un terzo. Tutto questo è democratico? Se ne può discutere - secondo me no - ma l'ultima parola non spetta comunque a noi (la corte costituzionale però si è già espressa un sistema che praticava distorsioni inferiori).

Proviamo invece a vedere cosa può succedere, caso per caso. Mettiamo che una coalizione raggiunga il 37%: in questo momento l'unica che sembra avere qualche chance di farcela sembra il centrosinistra a trazione renziana. Sarebbe, nel caso, il risultato più positivo dalla nascita del PD. I sondaggi per ora non autorizzano una previsione del genere, ma se togliamo "centrosinistra" e mettiamo "Matteo Renzi", l'indice di popolarità aumenta: bisognerà anche vedere se molte promesse lanciate negli scorsi mesi si realizzeranno.

Fin qui comunque i sondaggi (che sbagliano sempre) ci raccontano di un elettorato spezzato in tre parti più o meno uguali: centrosinistra, centrodestra e m5S, per ora rispettivamente prima seconda e terzo (si dà per scontata un'alleanza tra Forza Italia e NCD che conviene terribilmente a entrambi i partiti). In questa situazione, com'è noto, l'Italicum prevede un secondo turno che assume le forme di un pazzo gioco della torre: agli elettori della terza forza (nel caso più probabile, il Movimento Cinque Stelle) verrà chiesto chi buttare giù: Renzi o Berlusconi? Molti probabilmente si asterranno; tra i restanti è difficile immaginare una prevalenza berlusconiana. Renzi quindi dovrebbe vincere: a quel punto si troverebbe la Camera ai suoi piedi... (continua sull'Unita.it, H1t#226)

Anche il nuovo inquilino del Quirinale sarebbe scelto da un’assemblea allargata ma con una decisiva maggioranza di centrosinistra. Renzi in sostanza avrebbe briglia sciolta per cinque anni, persino in materia di ulteriori riforme costituzionali. Al 65-70% degli italiani a cui non piacerà, quali spazi resteranno per esprimere il proprio dissenso? Qualche trasmissione in tv – dove peraltro si è già notata una certa sollecitudine nei confronti di Renzi e di chi spande il suo verbo. La piazza? Con molta cautela, visto che la polizia è già piuttosto cattiva adesso. I giornali? Difficilmente i fondi per l’editoria resisteranno alle future spending review. Internet, certo; se chi ci governerà sarà tanto buono da lasciarcela. Ricordiamo che in passate legislature la Camera lasciò passare più di una legge per limitare la libertà di espressione; leggi che nella maggior parte dei casi non sopravvissero un successivo vaglio del Senato, ma in futuro questo passaggio non ci sarà.
Insomma, l’Italicum è un sistema che regala il Paese a chi si aggiudica un terzo dei voti,lasciando frustrati gli altri due terzi; Renzi poi può prendersela con chi lo accusa di una deriva autoritaria, ma dovrebbe riflettere su cosa succederà dopo una sua vittoria. Nei cinque anni successivi non potrebbe che coagularsi un fronte antirenziano che, se riuscisse a esprimere un leader, si aggiudicherebbe senz’altro le elezioni successive; Renzi magari non cova ambizioni autoritarie, ma l’anti-Renzi prossimo venturo potrebbe: e l’Italicum gli conferirebbe enormi poteri.
Questo nel migliore dei casi. C’è poi la possibilità che alle prossime elezioni politiche la coalizione di centrodestra, un po’ demotivata dalle disavventure del suo anziano leader, si sgonfi ulteriormente e venga sorpassata dal M5S. A quel punto sarebbero gli elettori berlusconiani a salire sulla torre per scegliere chi buttare giù: non è affatto escluso che affossino Renzi. Grillo e i suoi collaboratori si ritroverebbero padroni d’Italia: un’eventualità che Renzi e Berlusconi dovrebbero fare il possibile per evitare, e invece il sistema che stanno regalando al Paese presenta questa non piccola falla. La terza possibilità (ballottaggio tra M5S e centrodestra) è abbastanza implausibile, ma anche in questo caso Grillo ha qualche chance di vincere; chance che in un sistema proporzionale non avrebbe mai, vista la sua allergia alle alleanze. Il fatto che molti grillini preferiscano un sistema più proporzionale non è né un caso né un paradosso: Grillo prima di vincere vuole convincere gli italiani. Berlusconi e Renzi si accontentano di un 37%. Non è banale chiedersi chi sia il più saggio – è il gioco della torre che spetta a ciascuno di noi. http://leonardo.blogspot.com
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La fabbrica delle bufale

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Qualche giorno fa un parlamentare - non ha importanza di che partito - ha esordito un discorso col memorabile sfondone Sarò breve e circonciso, reso celebre (credo) da Diego Abatantuono in Eccezziunale veramente. La gaffe è stata coperta dagli organi di stampa con molta più attenzione di quanta non meritasse, mettiamo, l'Accordo Commerciale Transatlantico. Ne riparlo soltanto perché domani è il primo aprile, e molti lo celebreranno pubblicando qualche bufala pescata in giro. È una tradizione ormai antica, e forse meno inutile di quanto sembri: un'occasione per esercitare la nostra capacità di distinguere il falso dal vero, e per identificare chi tra i nostri Amici o Contatti non ne è in grado: sono quelli che domani rilanceranno la bufala più smaccata senza accorgersene. E tuttavia.

E tuttavia proprio qualche giorno fa leggevo da qualche parte uno studio(*) che, partendo dall'impressionante mole di dati che mettiamo su internet, cercava di dimostrare da dove nascono le teorie del complotto. È una domanda interessante, anche perché chi se la pone rischia di ricadere nei confini della sua stessa ricerca (non si tratterà per caso di un complotto?)

Lo studio in questione ovviamente non commetteva quest'errore, anzi difendeva un'ipotesi affascinante: i complotti nascerebbero dai malintesi. Ogni tanto qualcuno su internet scrive una storia smaccatamente falsa, volutamente paradossale (ad esempio un popolo rettile extraterrestre ha invaso la terra secoli fa e si nasconde tra noi); qualcuno la legge, la apprezza, la segnala ai suoi contatti; la storia si propaga finché non incontra esponenti di quella minoranza statistica che non riesce a capire la differenza tra cronaca e fiction. Purtroppo sono più di quelli che crediamo, e se a loro manca il senso critico, non manca tuttavia l'energia per indignarsi e trasmettere la loro indignazione: una volta arrivata fino a loro, la storia si spoglia di tutti quei tratti che ci consentivano di identificarla immediatamente come finzionale, e viene irradiata sotto forma di storia vera, da condividere con chi non crede alla realtà ufficiale!!1!

Per intenderci: se oggi Jonathan Swift pubblicasse Una modesta proposta, tra qualche mese qualcuno su internet comincerebbe a parlare di un complotto di massoni irlandesi infanticidi e antropofagi. L'informazione arriverebbe a loro in modo talmente indiretto che sarebbero incapaci di riconoscere la fonte originaria anche se gliela mettessimo sotto il naso: costretti a leggere il testo di Swift, direbbero che beh, sì, è chiaro che Swift scherza, ma... sta soltanto coprendo qualcuno che i bambini li vuole cucinare lo stesso, ne ho sentito parlare su facebook.

Non so se le cose vadano sempre così; ma in certi casi mi è capitato di assistere a qualcosa di simile (continua sull'Unita.it, H1t#225).

C’è un gruppo cospicuo di persone, su internet, convinto che ai concessionari di slot machine sia stata “scontata” una multa di cento miliardi. Questa multa non esiste: chiunque può controllare; è vero che per una serie di infrazioni riscontrate la procura aveva quantificato un danno di 98 miliardi, ma alla fine la Corte dei Conti ha inflitto multe per 2,9 miliardi (poi ulteriormente ridotte a 600 milioni). A un certo punto qualcuno – un giornalista, probabilmente – ha iniziato a chiamare la differenza tra i 98 miliardi inizialmente richiesti della procura e i tre miliardi della sentenza uno “sconto”. È soltanto un modo di dire, che identifica un certo atteggiamento nei confronti della giustizia (l’assunzione acritica del punto di vista dell’accusa); una definizione insidiosa, perché gli “sconti di pena” esistono e sono una cosa ben diversa. È triste constatarlo, ma molti lettori non sono equipaggiati per capire la differenza. Hanno letto “sconto” e hanno capito: sconto. Da cui la legittima domanda: chi è che sconta le multe per cento miliardi? Perché già che c’è non ci sconta le cartelle equitalia? Segue l’ondata di indignazione, cavalcata con molta sapienza, tra gli altri, da Grillo e dal Fatto Quotidiano.
In questo caso nessuno si è inventato niente: è stato sufficiente distribuire una metafora a un pubblico che non sa leggere tra le righe. Purtroppo è un pubblico un po’ più folto di quanto non crediamo noi irradiatori di messaggi scritti, già frustrati dalla consapevolezza di poter comunicare soltanto col 53% dei nostri compatrioti in grado di leggere e scrivere. Stima fin troppo ottimistica, che include ancora quella percentuale che leggere sa, ma non tra le righe. Un disagio linguistico che forse non abbiamo ancora studiato abbastanza: la condizione di chi, per esempio, non è in grado di decodificare i messaggi ambigui o ironici, per limiti cognitivi o culturali. La situazione in cui negli USA, al varo di un progetto sanitario denominato Children’s Health Insurance Program (CHIP), qualche voce critica lo ha magari scherzosamente definito intrusivo come un vero e proprio “chip” da iniettare sottopelle, e qualcun altro ci ha creduto – e dopo qualche anno anche questa leggenda è sbarcata nel parlamento italiano.
Qualcosa di analogo può essere capitato allo sventurato parlamentare “breve e circonciso” – ammesso che non si tratti di un più banale lapsus. Un bel giorno, tanti anni fa, Diego Abatantuono o chi per lui inventa un gioco di parole, fondato peraltro sull’idea che il termine “circonciso” sia di uso abbastanza comune: se non sai cosa vuol dire non è divertente. Per molto tempo il gioco di parole rimane davvero divertente: milioni di fruitori lo citano alla noia. Molto presto probabilmente smette di essere divertente in quanto tale e diventa divertente in quanto citazione. Il che significa purtroppo che molti non ridono più per la battuta ma perché ridono gli altri (è la cosiddetta “soglia Ricci”, che i miei coetanei riconoscono perché divideva quelli che ridevano alla prima puntata di ogni stagione di Drive In da quelli che ridevano dalla seconda in poi; la differenza tra chi trova divertente una battuta e chi trova divertente un ritornello). Trent’anni dopo l’espressione è di uso talmente comune da potersi quasi definire una polirematica: sicché può capitare che la ripeta acriticamente anche chi non conosce il senso di “circonciso”. Questa gente vive tra noi: cerca di leggere gli stessi quotidiani e siti che leggiamo noi, ma non è un caso che si incazzi di più, o che rida più sguaiatamente alle battute, proprio come chi intuitivamente cerca di mascherare la sua incapacità di capirle.
Questa gente esiste, e oggi pubblicherà contenuti ridicoli, esponendosi al pubblico ludibrio. La questione però è molto meno divertente di quel che sembra, e forse dovrebbe stimolare un dibattito sull’atteggiamento di chi divulga notizie in rete: quanto è giusto usare l’ironia in un contesto in cui il 20% non la capisce? È chiaro che chi sta qui per far satira continuerà a farla, ma chi invece si veste di una relativa serietà fino a che punto può permettersi di usare un linguaggio figurato? Anche chi accusa Napolitano di golpe probabilmente all’inizio stava scherzando; se dopo qualche mese però si trova costretto a chiedere un procedimento di impeachment, è evidente che qualcosa sta sfuggendo di mano pure a lui. Disseminare storie false su internet è un passatempo che con gli anni mi sembra sempre meno divertente e sempre più pericoloso. È pieno di bambini, qui, e in generale di gente che si beve troppe cose. Oltre a ridere di loro, bisognerebbe preoccuparsi di fornire a loro anche qualche strumento.
(*) La cosa buffa è che non la trovo più. L’ho letta più di una settimana fa e google non mi aiuta. Possibile che me la sia inventata? Al massimo sarà la mia bufala del primo aprile.
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La repubblica basata sul dopolavoro

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Ce l'hanno fatta - o quasi. Servirà una rilettura alla Camera. Intanto Renzi e Delrio possono già festeggiare: il Senato ha votato il maxiemendamento, gli italiani non voteranno più per un solo consigliere provinciale. Siccome però le strade provinciali non spariranno improvvisamente dalle città che collegano, e le scuole provinciali continueranno ad aprire ogni mattina, è lecito domandarsi cosa abbiamo veramente abolito, mercoledì sera. Renzi va veloce e ci ha già dato una risposta: tremila indennità.

Da qui in poi le strade saranno gestite gratis, da sindaci eletti da altri sindaci, che nel tempo libero invece di fare volontariato per la Caritas lo faranno per l'Area Metropolitana o per l'Area Vasta - dovrebbero chiamarsi così. Anche la gestione delle scuole sarà affidata agli stessi nobili volontari. Anche la pianificazione territoriale (la cura dei corsi d'acqua, possibilmente in anticipo sulle inondazioni), la tutela e valorizzazione dell'ambiente, la pianificazione dei servizi di trasporto (le autocorriere) la raccolta ed elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali, la gestione dell'edilizia scolastica, il controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e la promozione delle pari opportunità. Pur lavorando pro bono, di un qualche budget dovranno disporre. Tagliare fondi alla tutela dell'ambiente o all'edilizia scolastica non sembrava una buona idea: l'unico taglio possibile era l'indennità a chi prende le decisioni, e Renzi e Delrio lo hanno fatto.

Anche Grillo può festeggiare: queste 3000 indennità non sarebbero mai cadute senza quell'incessante campagna anti-province di cui anche il M5S si è fatto promotore in questi anni, conquistando nei fatti un'egemonia culturale. Se la prossima riforma costituzionale prevede il raschiamento del termine "provincia" dal Titolo V, è grazie a lui e a tanti altri tribuni come Di Pietro, il cui partito fu il primo, qualche anno fa, a presentare la medesima proposta di revisione costituzionale. Questo è interessante, perché un'altra delle idee forti di Grillo è che i politici siano nostri dipendenti. E però si tratta di dipendenti che non meritano di essere pagati, perlomeno a livello provinciale: le scuole ce le devono gestire gratis, le strade anche. Il sistema non selezionerà i più capaci? Non è evidentemente un problema. Per ora è più forte l'immagine ideale del nuovo politico à la M5S: un tizio pieno di tanta buona volontà che magari non sa quello che vota e a volte in effetti combina tanti disastri ma... per quel che paghi cosa ti lamenti?

La stessa cosa potrebbero dirci i sindaci metropolitani o i presidenti delle future aree vaste, quando un fiume strariperà, o una strada si dimostrerà inadeguata al traffico... (continua sull'Unità, H1t#224), o l’ala di una scuola verrà giù a causa di usura: per quel che pagate di cosa vi lamentate? Non è che manchino i soldi per riparare argini o tetti, ma… non riusciamo a capire dove spenderli, non riusciamo a organizzarci: abbiamo tante cose da fare, tante riunioni… e poi diciamola tutta: se fossimo davvero bravi a gestire queste cose avremmo fatto carriera nel settore privato, quello dove se sai gestire le cose qualcuno ti paga uno stipendio vero.

Questa invece è solo politica, e la politica a livello provinciale la fanno i sindaci nel dopolavoro. Perlomeno nel Ddl Delrio c’è scritto così. L’idea portante è sostituire gli eletti dal popolo con gli eletti dai politici. E non pagarli. Come si finanzieranno? Non saranno maggiormente esposti alla tentazione di fare la cresta al budget, di lasciarsi corrompere da qualche impresa affamata di appalti?
Anche escludendo gli scenari più pessimisti, rimane un sospetto: ma che tipo di amministratore locale hanno in mente Renzi e Delrio? Un’assemblea provinciale di sindaci, un senato di sindaci, un sindaco-tipo continuamente diviso tra tavoli e riunioni, uno con un biglietto di treno in tasca tutti i giorni. Uno che ha fretta, che non si può fermare e concentrare su qualcosa. Uno, in sostanza, come Renzi e Delrio, sempre in fuga in avanti. Non li vedremo mai fermi a un tavolo, avranno sempre qualcuno che ha bisogno di loro al telefono. Magari ogni tanto gli capiterà anche di transitare in gran fretta su una strada provinciale, e di accorgersi che il manto lascia a desiderare. Speriamo. http://leonardo.blogspot.com
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Il partito amatoriale

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Sei un sostenitore, un attivista, un portavoce, un affezionato elettore o semplicemente un qualsiasi cittadino o cittadina? Sei un grafico o aspirante tale? Credi come noi nel creative commons, nella libera circolazione e nel libero uso delle idee?
Cerchiamo te.
(http://www.beppegrillo.it/movimento/parlamento/2014/03/contest-grafico-m5s-camera.html)

È possibile che la prima (o la seconda) forza politica in Italia non abbia i soldi per pagare dignitosamente un grafico? È plausibile che un movimento che mobilita migliaia di persone in tutta la penisola, e che in virtù della generosità di attivisti e simpatizzanti può permettersi di rifiutare i rimborsi elettorali, sia costretto per rinnovare la farraginosa grafica del suo sito a varare un "contest" - ovvero a farsi regalare dai concorrenti il materiale riservandosi di "avviare una eventuale collaborazione" col vincitore? ("Tutti i contributi utilizzati saranno considerati ceduti a titolo gratuito": e perché dovreste assumerci, dopo averci saccheggiato?)

Non è possibile. E infatti non è così. I soldi per rifare un sito, per la precisione il "restyling grafico di M5S Montecitorio", ci sarebbero. Se i deputati non vogliono autotassarsi, potrebbero chiederli a Grillo, che dopotutto qualche soldo col blog lo porta a casa; o alla Casaleggio Associati. Il vecchio trucco del contest, già sperimentato da centinaia di enti locali desiderosi di farsi un logo o un sito a costo zero, non è ispirato da semplice tircheria (anche se sullo stereotipo del genovese Grillo ci marcia da una carriera). Il fatto è che il M5S non cerca professionisti, ma dilettanti allo sbaraglio. Ai deputati cinque stelle non serve un bel sito con una grafica accattivante, ma una pagina web sgraziata con fotomontaggi orrendi. Il sito di Beppe è fatto così, ed è di gran lunga il blog più letto in Italia: perché cambiare?

(continua sull'Unità, H1t #223)

È vero che è molto brutto, ma pare che si tratti di una bruttezza funzionale: se fosse più gradevole non avrebbe la stessa forza. Su Rivista Studio un mese fa Roberto Marone definiva la grafica di Beppegrillo.it un “unicum nel panorama della propaganda di tutto l’occidente”:
“un uso spintissimo del fotomontaggio per irridere chiunque e qualsiasi cosa, come un ariete per veicolare qualsiasi messaggio e sminuire qualsiasi avversario. Perfetto, e potentissimo. L’uso di grafiche prodotte da chiunque, e in qualsiasi circolo della penisola, senza alcuna cura, griglia grafica, o criterio di omologazione, in una sorta di “va tutto bene”. [...] È come se tutto fosse consegnato a un’apparente amatorialità, in cui qualsiasi stilema dell’alfabeto visivo si presenta grezzo e lasciato al caso. Una sorta di aggregatore di amateur politico, sgranato ma vero, brutto ma reale. Dove quindi persino l’immagine, solitamente studiata, è dal basso e quindi pericolosamente coincidente con un del basso.
Eppure, nonostante questo, nonostante tutto, è un alfabeto perfettamente riconoscibile, graniticamente identitario, e quindi perfettamente funzionale. Genera appartenenza, visite, condivisioni, e coincide con una propaganda in cui l’a-professionismo è un diritto e il manifesto del mio pensiero è lo stesso manifesto della tua pizzeria. Perché il messaggio è che può fare comunicazione chiunque, può essere della partita chiunque e, quindi, può fare politica chiunque”.
Chiunque può fare politica: chiunque può fare comunicazione (compreso Messora o Casalino, o Nik il Nero: personaggi improbabili, e proprio per questo a loro modo irresistibili), chiunque può fare il restyling di un sito. I professionisti hanno tutto il diritto di risentirsi e protestare. Che senso ha destinare la diaria a un fondo per le piccole e medie imprese, e poi pretendere di non pagare il grafico, che nella maggior parte dei casi è piccola impresa pure lui? Ma è proprio questa contraddizione la forza del M5S: da una parte il rovesciamento del rapporto tra politici e cittadini (“i politici sono nostri dipendenti”), dall’altra la de-professionalizzazione: ai nostri dipendenti non è più richiesta nessuna esperienza o competenza, e guai a chi pensa di far carriera e metter da parte qualcosa.
Qualcuno avrà già scritto che Grillo, a modo suo, non fa che proseguire la tendenza alla precarizzazione delle figure professionali: anche i politici devono diventare CoCoPro, lavoratori a progetto. E abbiamo visto con quanta rapidità sia disposto a licenziarli se non gli servono più. In questo senso, più che lo stereotipo del ligure micragnoso, ha senso rispolverare quello del piccolo imprenditore del nord, sempre arcisicuro della potenza delle sue visioni anche se nel 2014 non capisce l’inglese e il suo sito internet ha la stessa grafica dal 1998. Se fallirà, sarà sempre a causa degli altri: le banche cattive, lo Stato vampiro, eccetera. http://leonardo.blogspot.com
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Aboliamo subito la Camera delle Autonomie

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Renzi va veloce. Riforma la legge elettorale, ci alza lo stipendio, saluta Hollande, è già dalla Merkel. Non tutto riesce al cento per cento, ma l'impressione è comunque di una notevole vitalità. Qualche cosa ovviamente finisce per sfuggire all'attenzione generale: ad esempio la settimana scorsa è stato presentato il testo della riforma costituzionale. Sui giornali se n'è parlato, ma non tantissimo; il dibattito sul Jobs Act e sulla relativa copertura ha distolto subito l'attenzione, e comprensibilmente. È comunque un peccato che sia già trascorsa una settimana: Renzi ce ne aveva offerte due per discuterne, dopodiché il testo dovrebbe arrivare in parlamento. Purtroppo, è un testo che lascia tantissimo a desiderare.

Renzi propone di sostituire il Senato con un'Assemblea delle Autonomie. Visto che si va di fretta, propongo di accelerare ulteriormente, e sono già qui per chiederne l'abolizione. Tanto - legge alla mano - quell'Assemblea non servirebbe a molto. Non voterebbe la fiducia al governo, non avrebbe la facoltà di proporre disegni di legge suoi: e allora che farebbe? Bisogna dire che il testo non è molto chiaro, e che certe frasi sembrano messe lì giusto per tenere lo spazio, in attesa che qualche emendamento chiarisca il pensiero dell'estensore: ad esempio è difficile immaginare che questa Assemblea, per quanto autorevole, partecipi "alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi dell’Unione europea" (art. 55): a Bruxelles potrebbero rimanere perplessi di un'Assemblea italiana che improvvisamente si riservi di partecipare alla formazione delle direttive UE. L'assemblea svolgerebbe poi "attività di verifica delle leggi dello Stato e di valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche sul territorio" (art. 55), ma non è ancora chiaro con che strumenti. Avrebbe facoltà di riesaminare qualsiasi disegno legge approvato dalla Camera (art. 70), dopodiché a quest'ultima spetterebbe comunque l'ultima parola: nel migliore dei casi l'Assemblea sarebbe percepita come un organo autorevole, in grado di esercitare una specie di moral suasion; nel peggiore, verrà dipinta come un organo della casta con facoltà di rallentare l'approvazione di leggi non gradite.

Anche perché - e qui sta un po' il punto - l'Assemblea delle Autonomie non sarebbe eletta direttamente dal popolo... (continua sull'Unita.it, H1t#222).

Al suo interno, solo i ventuno presidenti di Regione (più i due delle province autonome di Bolzano e Trento) sarebbero espressi dai cittadini. Gli altri membri dell’Assemblea vi entrerebbero per cooptazione. Ovviamente il testo all’art. 57  non dice così. Dice che saranno ammessi due membri di ogni consiglio regionale, eletti dal consiglio stesso; tre sindaci per regione, eletti da un’Assemblea di tutti i sindaci della regione medesima. Questo è quello che dice il testo della riforma.
Quello che molti cittadini capiranno è: in quell’Assemblea non ci vanno i politici votati da noi, ma i politici votati dai politici. A un politico detestato dai cittadini – per qualsiasi motivo, mettiamo che sia al centro di uno scandalo ambientale anche se è riuscito a scampare condanna e interdizione – basterebbe farsi eleggere in un piccolo comune per diventare poi eleggibile, grazie alla solidarietà dei colleghi, nell’Assemblea. Chi ha scritto questo testo evidentemente sottostima la scarsa fiducia degli italiani nei confronti del proprio ceto politico.
Poi c’è il problema dello squilibrio tra regioni più o meno popolate. Non è una questione da poco. Per ora l’Art. 57 prevede che tutte le regioni siano rappresentate da uno stesso numero di rappresentanti: il presidente della giunta regionale, i due membri del consiglio regionale, i tre sindaci eletti da tutti gli altri sindaci. Fanno sei per regione. Però le regioni italiane sono molto diverse tra loro. Per esempio, la Val d’Aosta fa 128.000 abitanti: all’Assemblea porterebbero un rappresentante ogni 21.000. Non male. In Lombardia ci sono quasi dieci milioni di abitanti; è giusto che siano comunque rappresentati da sei membri, uno per ogni milione e seicentomila lombardi (più di dieci Valli d’Aosta messe assieme)? D’accordo, ho accostato proprio la regione più piccola e la più popolosa; ma se guardiamo il quadro complessivo l’iniquità è comunque lampante, e complessivamente penalizza proprio le più dense regioni del nord (e comunque: perché i calabresi devono avere lo stesso numero di rappresentanti dei siciliani se sono meno della metà?)
Non so se altrove in Europa esistano assemblee democratiche così insensatamente squilibrate. L’unico esempio che mi viene in mente è oltre l’Atlantico: il Senato americano che accoglie due rappresentanti per ogni Stato, che sia desertico o completamente invaso da un tessuto urbano. Non dico che l’esempio statunitense non sia interessante; ma è il complesso risultato di un processo bicentenario che non avrebbe molto senso imitare qui da noi – se ai newyorkesi non interessa essere rappresentati trenta volte meno degli elettori del Wyoming, buon per loro; ma non credo che basterà additare il loro esempio ai veneti per convincerli a contare la metà della metà dei friulani. Siccome non possiamo tutti prendere la residenza in Molise o in Basilicata per dare più peso ai nostri voti, forse è meglio abolire semplicemente l’Assemblea delle Autonomie.
Tutto qui? No, c’è di peggio. Volendo abolire il Senato, Renzi e il suo staff hanno dovuto rassegnarsi a sopprimere anche la figura dei senatori a vita; nasce forse da qui la proposta compensativa di una quota di membri dell’Assemblea nominati direttamente dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”: non a vita, ma soltanto per un settennato. Non è una bruttissima idea, salvo che la quota-Quirinale è fissata a… ventuno. Lombardi, campani e laziali – venti milioni di abitanti, un terzo degli italiani – esprimeranno diciotto rappresentanti; il Presidente ne potrebbe scegliere fino a ventuno. E forse Renzi e i suoi collaboratori non si rendono conto del ginepraio che stanno seminando intorno al Quirinale, destinato a germinare nel momento in cui si tratterà di scegliere uno scienziato invece di un altro, un artista invece di un altro, un musicista invece di un regista – per non parlare dei letterati (sul serio, non parliamone). È pur vero che si tratterebbe di una carica onorifica e poco più, una specie di feluca dell’Accademia d’Italia. E d’altro canto ventuno voti in più o in meno potrebbero avere il loro peso in una delle non rarissime situazioni in cui l’Assemblea conterà davvero: ad esempio, l’elezione del Capo di Stato. Un Presidente che pensasse alla sua rielezione potrebbe essere tentato a usare il suo pacchetto di feluche in questo senso.
A tutte queste obiezioni, nei prossimi giorni, sentiremo rispondere che comunque l’Assemblea non ha molti poteri (il che sarebbe un buon argomento per chiuderla subito), e soprattutto che costerà poco: e quindi pazienza se vi si accede per cooptazione, e senza rispettare nessuna proporzionalità geografica. Il risparmio è un argomento forte di questi tempi, e tuttavia l’idea di presidenti e sindaci obbligati a viaggiare su e giù per l’Italia almeno una volta al mese, in Frecciarossa, senza indennità, lascia abbastanza scettici. Non hanno tutti la fretta e la buona fede di Renzi. D’altro canto non è nemmeno vero che l’Assemblea sia del tutto inutile: in pochi, determinati momenti, diventerà decisiva. Oltre a votare ogni sette anni per l’inquilino del Quirinale, i membri avranno voce in capitolo al pari dei deputati su tutte le leggi di revisione costituzionale. Il che significa che, una volta istituita l’Assemblea, sarà molto difficile abolirla. Meglio farlo subito, al volo, e non pensarci più. http://leonardo.blogspot.com
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Tre geni (pure troppi)

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Stasera volevo scrivere un pezzo sull'astuzia di Berlusconi, che appena quattro mesi fa sembrava all'angolo, un pregiudicato ormai fuori dal senato e succube dei falchi del suo partito; e oggi è lo statista che con Renzi ha scritto la legge elettorale, e si trova nella vantaggiosissima situazione di sostenere il governo senza averne l'aria. Ufficialmente è all'opposizione - e non mancherà di farlo presente ai suoi elettori alla prima misura minimamente impopolare; in realtà ha addirittura un ministro nella squadra di governo (Federica Guidi allo sviluppo economico). E la sua influenza rimane forte anche sul Nuovo Centrodestra, un partitino che sa di non avere un futuro oltre la legislatura, se non torna all'ovile del vecchio centrodestra di Arcore. Dividere il partito in due e appoggiare Renzi contro Letta sono state due mosse spregiudicate ed efficaci, che ci hanno restituito il Berlusconi dei tempi migliori; volevo scrivere un pezzo così, ma mi ha preso la tristezza.

Allora ho pensato di scrivere un pezzo sulla furbizia di Matteo Renzi, che prima si è imposto all'attenzione mostrandoci una nuova legge elettorale che sembrava già pronta (e ideale per farlo vincere); poi appena i sondaggi hanno iniziato a dare segnali non buoni, ha cambiato completamente tattica accettando improvvisamente l'offerta berlusconiana di un patto di legislatura. A questo punto la legge elettorale però smetteva di essere una priorità, anzi: tirarla per le lunghe è il sistema più sicuro per assicurarsi che Berlusconi non gli stacchi la spina, visto che probabilmente può. E però ormai la legge elettorale l'aveva promessa, ce l'aveva mostrata, e allora che ti fa? (Continua sull'Unità, H1t#221La taglia in due: la parte sulle Camere si vota subito, la parte sul Senato… con calma, magari nel frattempo si prova ad abolirlo, il Senato. A questo punto la legislatura è davvero blindata: per quanto possano andare bene o male i sondaggi, finché c’è un Senato e la legge elettorale vigente, il PD rimane l’ago della bilancia. Qualsiasi maggioranza uscisse al Senato, avrebbe bisogno del Pd (a meno che Grillo non si mettesse d’accordo con Berlusconi, ma è abbastanza inverosimile). Dividere la legge elettorale in due è una mossa bizantina ma astuta; e mentre la ammiravo, mi ha preso di nuovo la tristezza.

Mal che vada, mi son detto, posso scrivere del genio di Beppe Grillo, che invece di perdere tempo a organizzare un movimento di base, ha lasciato che la base si organizzasse da sé e ha perso una mezza giornata a brevettare il marchio. Adesso può epurare e licenziare chi vuole: la democrazia diretta è tanto bella ma comunque il marchio è suo. E siccome il suo obiettivo è monopolizzare l’opposizione, speculando un po’ sul malcontento popolare, non ha nessuna necessità di tenersi cari i suoi uomini migliori; è l’esatto contrario, può licenziarli tutti e tenersi gli invasati – finché non gli ruberanno la scena, poi licenzierà anche quelli. Nuove leve di signor-nessuno disposti a sobbarcarsi l’incarico parlamentare non gli mancheranno mai; la paga va in gran parte restituita ma il lavoro alla fine non è difficile: si tratta di inveire alla maggioranza mentre la maggioranza fa quel che deve e vuole fare. È il caso di notare che mentre Renzi e Berlusconi a ogni mossa si giocano il destino politico, Grillo può davvero fare quel che gli pare: guadagnare o perdere anche dieci punti in percentuale non gli cambierebbe la vita.
Alla fine ho scritto un pezzo in cui elogio i tre geni della politica italiana, e a questo punto mi coglie il dubbio: se sono tutti e tre tanto astuti; se tutti e tre stanno traendo vantaggio dalla situazione, chi è che invece ci sta rimettendo? Chi è il pollo che siede al loro tavolo? È un pensiero inquietante, ed è ora di coricarsi. Magari evitando di passare davanti a uno specchio. http://leonardo.blogspot.com
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Lo streaming dell'incoscienza

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Caro grillino che vieni spesso qui a commentare: non pretendo di convincerti che l'espulsione dei senatori m5s non allineati non sia stata proprio il massimo della democrazia. Anche perché, diciamolo, il problema della democrazia interna non esiste soltanto nel M5S. Ma caro grillino, prova per una volta a metterti in uno come me. Mettiamo che io sia molto scontento della direzione che sta prendendo il PD, che aveva iniziato a governare coi berlusconiani per far fronte a un'emergenza e adesso ci sta prendendo gusto e punta alla fine della legislatura. Mettiamo che Renzi mi abbia deluso coi suoi voltafaccia, anche se ad essere onesto mi piaceva poco anche prima. Mettiamo che io non condivida né i suoi obiettivi, né i suoi metodi, né le sue giacche: forse sarebbe ora che smettessi di votare il Pd. Bene. Per votare chi?

Mettiamo che una sera io avverta una tentazione all'improvviso: votare il Movimento Cinque Stelle. Perché no? Alle europee, magari, per dare un segnale. O per vedere che combinano. È vero, in passato sono stato molto critico della gestione di Beppe Grillo, ma nel frattempo il movimento è cresciuto, ora finalmente c'è una piattaforma e funziona. E si può sempre dare un'occhiata a quel che fanno, per esempio si sono le riunioni dei gruppi parlamentari in streaming... (continua sull'Unità, H1t#220)

Con questo streaming non ci arrivate, al 51%


Caro grillino, mettiti nei miei panni. Deluso dal Pd, mi connetto alla riunione dell’altra sera per vedere come discutono i parlamentari Cinque Stelle. Capito nel mezzo di una rissa tra gente che dopo un anno di lavoro parlamentare a malapena si conosce. Nessuno ha chiaro cosa abbiano fatto questi quattro per essere espulsi. La maggior parte prende parola per chiedere chiarimenti – non c’era modo di reperire le informazioni sulla piattaforma? Lo streaming ogni tanto si interrompe, e a quel punto molti oratori preferiscono interrompersi perché probabilmente temono che altrimenti nessuno li sentirà, fuori da quella sala: ammesso che qualcuno stia tenendo un verbale, chi se lo leggerà? Se non sei in streaming, non esisti. E lo streaming va e viene – e sì che i mezzi non mancano, non dovrebbero mancare: visto che si tratta della democrazia diretta, forse varrebbe la pena trattenere qualche soldo in più e garantire ai cittadini un servizio più professionale. Purtroppo la professionalità non si addice al M5S: chi fa le cose per bene rischia di sembrare più simile a un politico della ka$ta che a un dilettante eletto dal popolo.
Intanto l’assemblea va avanti. Qualcuno prende la parola e domanda di sospenderla perché è stata convocata senza rispettare il regolamento. Non si capisce perché si debba votare l’espulsione di tutti e quattro i senatori in blocco. Chi è che decide tutte queste cose? Dopo il voto ci sarà una consultazione sulla piattaforma: è prevista dal regolamento? Boh. Non si capisce niente. Che cosa hanno fatto di così terribile i quattro dissidenti, a parte esprimere riserve sul comportamento del portavoce Beppe Grillo? È pur vero che espulsioni e scissioni capitano in tutti i partiti, e non è detto che gli altri siano più democratici del M5S. Però, caro grillino, sii onesto: pensi che il brutto spettacolo di questi giorni possa aver convinto anche solo un indeciso o un deluso del Pd a votare per voi?
Poi a un certo punto si fa sentire il portavoce: e in un italiano confuso spara due o tre palle, una più grossa dell’altra. Le “svariate segnalazioni dal territorio” degli attivisti dei meetup che si sarebbero lamentati con lui perché questi quattro senatori “non si vedevano”, certo. Le accuse di aver tramato per un’alleanza con Letta (???); la misera frecciata sui ventimila euro al mese, l’annuncio di una nuova “battaglia” che dovrebbe giustificare la porcata appena commessa. Il M5S potrebbe anche avere un buon risultato, ma quale sarà l’effetto pratico? Mandare a Bruxelles qualche decina di dilettanti come quelli che si stavano scannando l’altra sera? In ogni caso, tra il 25% delle politiche e il 51% che è l’obiettivo di Grillo, c’è uno scalino enorme. Su quello scalino ci sono milioni di potenziali elettori come me, che in Renzi magari non si riconoscono – ma non basta per convincerci a votare per voi. Ci vuole qualcosa di più. Qualcosa che gli ultimi streaming, vi assicuro, non ci stanno mostrando. E finché non si arriva al 51%, il destino di un M5S anche in crescita è quello di costringere i suoi avversari ad allearsi contro di lui: l’esatto contrario di quello che vorrebbe Grillo, forse (forse invece preferisce così, può sbattere fuori chi gli pare e il risultato non cambia).
Ma anche se un giorno arrivasse al 51%, pensate che a quel punto il parlamento funzionerebbe così? Un’assemblea permanente di sconosciuti che chiedono delucidazioni su un ordine del giorno dettato da Beppe? http://leonardo.blogspot.com
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I poteri forti, avercene

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Ma quindi dietro Renzi ci sono i famosi poteri forti? L'industria, le banche? De Benedetti muove i fili? Della Valle appoggia Renzi? Non tocca davvero a me rispondere: non mi sorprenderebbe, ma non ne ho la minima idea. Do per scontato che chi ha potere e influenza in Italia si muova sempre - non solo in questo caso - per difendere i propri interessi. Ma c'è davvero tutto questo potere? C'è davvero tutta questa influenza?

Non so se qualcuno si ricorda Mario Monti: fu uno stimato professore chiamato ad amministrare quel che restava dell'Italia dopo quattro anni di allegra gestione Berlusconi-Tremonti. Io lo rammento soprattutto per una frase che disse in parlamento mentre si insediava. "Di poteri forti, lo dico con molto rispetto, in Italia non ne conosco; magari l’Italia avesse un po’ di più qualche potere forte". Più tardi la politica italiana lo avrebbe risucchiato nel suo vortice di mediocrità, ma quando diceva queste cose Monti era ancora un economista brillante, che aveva lavorato in Europa e coi veri "poteri forti" aveva avuto a che fare. Forte di questa esperienza, concludeva: avercene. La ricorrente diceria sui poteri forti è in fin dei conti rassicurante, come tante altre leggende metropolitane: sottende che là fuori ci sia comunque Qualcuno molto Forte che si preoccupa per noi. Non è un caso che spesso sia la stessa gente che aspetta gli alieni. Non c'è nulla di irrazionale, peraltro, nell'immaginare enormi concentrazioni di potere: nel vasto mondo ce ne sono senz'altro, così come probabilmente esistono altre forme di vita nell'universo.

L'irrazionale sta nell'immaginare che gli alieni si stiano dando la pena di attraversare milioni di anni luce per lenire la nostra solitudine; nel credere che i veri poteri forti si stiano davvero dando pena per quel che succede in Italia (continua sull'Unità, H1t#219).

 Quando l’evidenza quotidiana ci suggerisce l’esatto contrario: se qualcuno davvero così forte si fosse interessato a noi, non ci troveremmo in questa situazione. Se avessimo avuto poteri realmente forti, e realmente avveduti, non ci saremmo tenuti Berlusconi per così tanto tempo. E invece Berlusconi salì al potere nel 2001, dopo il primo tentativo del ’94, forte dell’appoggio di Confindustria. I poteri forti credevano in lui: pensavano che la sua strategia di attacco frontale ai sindacati avrebbe portato a un salutare rinnovamento. Si è visto poi come sono andate le cose. Eppure i poteri forti non hanno smesso di scommettere su di lui, fino al 2011. Un “potere” che si fa infinocchiare da un personaggio del genere è davvero così “forte”?

Nel frattempo alcuni rappresentanti di questi Poteri ci hanno semplicemente mollato, come si abbandona il cavallo zoppo: chi aveva una fabbrica di proprietà, ha delocalizzato la fabbrica e a questo punto ormai anche la proprietà. I padroncini si fanno sentire soltanto per avvertire i nostri figli di farla finita con la presunzione di essere ceto medio, e rassegnarsi a mansioni più umili, meccaniche. Qualcun altro appoggia Renzi; ma è davvero necessario immaginare una diabolica trama di banchieri e CIA? Non assomiglia molto di più alla puntata disperata di un giocatore che non ha più niente da perdere, e non sa più cosa inventarsi? Magari esistessero poteri un po’ più forti in Italia, un po’ più smaliziati: magari qualche mossa ogni tanto l’azzeccherebbero, e non darebbero l’impressione di puntare gli ultimi spiccioli a casaccio.http://leonardo.blogspot.com
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In che guaio ti stai cacciando, Matteo Renzi

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Tre giorni fa Matteo Renzi non voleva andare a Palazzo Chigi. "Chi me lo fa fare", diceva ai giornali. Eravamo in tanti, con lui, a non capire il senso di un'operazione che sembrava ancora il parto allucinato di qualche commentatore politico in crisi d'astinenza da retroscena. In seguito ha evidentemente cambiato idea. Non c'è niente di male nel cambiare idea; succede a tutti tranne ai cretini. Il problema è che giorno dopo giorno, dichiarazione dopo dichiarazione, Renzi si è messo da solo nella situazione in cui qualsiasi passo farà oggi sarà un passo falso. Se Letta cadrà, si ritroverà addosso i panni di D'Alema del '98: gli saranno rinfacciate quotidianamente le promesse tradite di ridar voce ai cittadini e chiudere con gli intrighi di palazzo. È una prospettiva deprimente, ma lasciare Letta al suo posto dopo averlo apertamente sfidato sarebbe una sconfitta ancora peggiore e Renzi non se la può permettere. Si è esposto troppo. In fondo fa parte del suo stile: chi lo ha scelto come segretario del Pd aveva in mente probabilmente qualcosa del genere. Un giovane all'arrembaggio del palazzo che non si fa scrupoli a dire quel che pensa, anche se in tre giorni gli può capitare di pensare cose assai diverse: Renzi è fatto così, lo abbiamo scelto così, inutile prendersela con lui.

D'Alema era diverso - e nessuno sembra avere nostalgia per i suoi tempi: nemmeno D'Alema stesso. Anche a lui capitò, nel '98, di cambiare idea; forse una maggiore esperienza gli suggerì di non strombazzare prematuramente sui giornali "chi me lo fa fare": purtroppo la Storia ci insegna che c'è sempre qualcuno che riesce a farci fare qualcosa, il Quirinale o la Nato o la crisi o la Ue. Le trattative che intavolò in quei giorni con Scalfaro, Ciampi e Cossiga, rimasero quasi del tutto riservate: D'Alema non passò per una banderuola. In compenso non poté più scrollarsi di dosso l'immagine di segreto tessitore di trame. Ecco un rischio che Renzi e Letta non corrono: tra una conferenza stampa e una riunione in streaming, abbiamo finalmente la possibilità di assistere al parto di un progetto politico in diretta. Purtroppo, come tutti i parti non è un bello spettacolo: c'è il sangue, gente che urla e maledice i propri affetti; forse era meglio restare in sala d'attesa a riflettere (continua sull'Unita.it, il sito di un quotidiano che ha compiuto 90 anni, e non li dimostra).

Forse è un po’ presto per azzardarsi a dire che si stava meglio prima: quando i lunghi coltelli si snudavano di notte, i panni sporchi si lavavano in riunioni a porte chiuse, e al mattino vincitori e vinti rilasciavano ai giornali dichiarazioni unanimi. Una delle conseguenze forse non previste dell’aver mandato giovani quarantenni al potere è questa drammatizzazione della scena politica: sempre meno simile a un salotto di anziani che confabulano mentre Vespa annuisce e aspetta il momento giusto per chiamare la pubblicità, sempre più affine a un reality di Maria De Filippi con giovani uomini e giovani donne che parlano prima di pensare, poi in esterna cambiano idea e si fanno le piazzate. Lo stesso Enrico Letta che di fronte al baratro convoca una conferenza stampa e tira fuori dal cassetto un programma di governo pieno di buoni propositi fin qui non realizzati, che figura ci fa? È inevitabile immaginarsi un ospite di C’è posta per te che promette al partner che d’ora poi si comporterà bene e non sarà più geloso e distratto mentre la busta, implacabile, si richiude su di lui. Chiudi, Maria, è finita.
Si poteva fare di meglio? Sembra proprio di sì. Forse Renzi e Letta avrebbero dovuto parlarsi di più; forse le trattative per allargare la maggioranza avrebbero dovuto restare in un primo momento riservate, quanto basta per evitare la corsa al totoministri sui quotidiani (ammesso che sia possibile fermarne la deriva retroscenista). Forse la direzione del PD dovrebbe essere un luogo dove ci si confronta, in modo anche duro, finché non si trova una sintesi; non una videoconferenza in cui tutti fanno il proprio numero e il segretario si riserva il diritto di ribattere in conferenza stampa. Forse Renzi dovrebbe riflettere un po’ di più prima di affermare qualcosa di cui si potrebbe pentire il giorno dopo, e non dare l’impressione di arrivare a Roma ogni tanto come un fulmine distruttore, dal momento che in gioco c’è anche la sua credibilità. Ma si può chiedere a Renzi di essere un po’ meno Renzi? http//leonardo.blogspot.com
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Lord Grillo ha detto stop

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C'è chi dice che siamo alla barbarie. C'è chi ribatte che ci siamo sempre stati. Una delle tendenze più interessanti del blablà mediatico-parlamentare degli ultimi giorni è il tentativo di trovare antecedenti nobili alle scemenze che diciamo o facciamo: ad esempio "Boia chi molla" dovrebbe cambiare del tutto sapore se invece di essere stata pronunciato da un qualunque fascista fosse un motto della Repubblica Partenopea del 1799 - anche se probabilmente non è vero. Il turpiloquio in parlamento diventa accettabile se si riesce a dimostrare che anche Sandro Pertini ha chiamato ai suoi tempi "carogna" e "porco" un presidente di Senato: e tuttavia la fondazione che porta il suo nome nega che sia successo... ma Vito Crimi conferma di avere trovato la citazione in un libro di parolacce parlamentari. Nel frattempo Beppe Grillo è già oltre: ieri salutava i lettori nella sua homepage con un discorso del... 20 aprile 1653. È la celebre sfuriata con cui Oliver Cromwell sciolse quel che restava del parlamento inglese. Direttamente dal sito di Beppe, un documento sempre attuale:
"È tempo per me di fare qualcosa che avrei dovuto fare molto tempo fa: mettere fine alla vostra permanenza in questo posto, che avete disonorato disprezzandone tutte le virtù e profanato con ogni vizio; siete un gruppo fazioso, nemici del buon governo, banda di miserabili mercenari; scambiereste il vostro Paese con Esaù per un piatto di lenticchie; come Giuda, tradireste il vostro Dio per pochi spiccioli. Avete conservato almeno una virtù? C'è almeno un vizio che non avete preso? Il mio cavallo crede più di voi; l'oro è il vostro Dio; chi fra voi non baratterebbe la propria coscienza in cambio di soldi? È rimasto qualcuno a cui almeno interessa il bene del Commonwealth? Voi, sporche prostitute, non avete forse profanato questo sacro luogo, trasformato il tempio del Signore in una tana di lupi con immorali principi e atti malvagi? Siete diventati intollerabilmente odiosi per un'intera nazione; il popolo vi aveva scelto per riparare le ingiustizie, siete voi ora l'ingiustizia! Basta! Portate via la vostra chincaglieria luccicante e chiudete le porte a chiave. In nome di Dio, andatevene!"
Come quasi tutti i discorsi memorabili, è una ricostruzione a posteriori: non esistono trascrizioni, e a detta dei testimoni, Cromwell parlava a braccio. Secondo alcuni storici fu persino meno diplomatico di così: definì Henry Vane il Giovane un ciarlatano ("jugler"), Henry Martin e Sir Peter Wentworth due magnaccia ("whoremasters"), Thomas Chaloner un ubriacone "drunkard". Non siamo ai livelli dello pseudo-Pertini, ma è pur sempre l'Inghilterra della rivoluzione puritana.

Peraltro a quel punto Cromwell avrebbe potuto dire o fare quel che voleva: i parlamentari stavano davvero lasciando i loro seggi, non perché colpiti al cuore dalle furenti parole del Beppegrillo del Seicento, (continua sull'Unità, H1t#217ma perché nel momento in cui Cromwell si era alzato per interrompere la seduta un plotone di moschettieri era entrato nella sala e li stava circondando. In effetti quella che può sembrare la nobile tirata di un cittadino oppresso da un parlamento corrotto e impresentabile, è viceversa il primo proclama di un dittatore militare insofferente nei confronti di un’assemblea che aveva già purgato l’assemblea di metà degli eletti, e che ancora non riusciva a controllare. Henry Vane stava per far passare una riforma elettorale che avrebbe ridisegnato in modo razionale i distretti e avrebbe reso possibile una consultazione realmente repubblicana. Cromwell non sembrava interessato (“Henry Vane, Henry Vane! Dio mi liberi da Henry Vane!”): irruppe nel parlamento coi moschettieri e invitò i rappresentanti a lasciare il posto a “uomini più onesti”.

Gli “uomini più onesti” si riunirono il quattro luglio. Non ci fu nemmeno bisogno di elezioni: ogni congregazione religiosa mandò una lista di uomini di fiducia al Consiglio di Stato, che si riservò la facoltà di sceglierli. Tra loro c’erano anche i Cinque Corone, o Quintomonarchisti, una corrente fondamentalista che riteneva l’apocalisse imminente. Gesù sarebbe tornato nel 1666, ed era necessario fargli trovare un’Inghilterra perfettamente cristiana. Cromwell, che si riteneva in contatto diretto con Dio, non era del tutto insensibile al messaggio dei quintomonarchisti (ma forse semplicemente si barcamenava tra le correnti come tutti i politici), e salutò l’alba del nuovo parlamento come il “giorno del potere di Gesù Cristo”. Tempo tre mesi e anche questo parlamento di invasati gli venne comunque a noia: tanto da fargli ammettere in privato che ai pazzi di adesso preferiva i servi di prima. Comunque riusciva a manovrarli quanto bastava perché fossero loro stessi a implorarlo di scioglierli: cosa che fece in dicembre; e il Commonwealth inglese finì lì. In italiano suona come “bene comune”; i latini la chiamavano Res Publica. Cromwell era indeciso se farsi incoronare re, e succedere a Carlo I a cui aveva fatto tagliare la testa nel 1649. Un brutto precedente. Alla fine si contentò della carica di Lord Protettore a vita. Convocò e sciolse altri tre parlamenti, e morì cinque anni più tardi: non prima di aver nominato successore il suo primogenito incapace. A quel punto, se doveva essere monarchia, tanto valeva tenersi l’originale (purché fornisse precise garanzie): nel 1660, sette anni dopo il famoso discorso, Londra salutava il ritorno del sovrano legittimo, Carlo II. Costui per vendicare il padre si contentò di alcune teste, tra le quali quella del povero Henry Vale; anche Oliver Cromwell fu decapitato post mortem. Nel 1666 Gesù Cristo non si fece vedere; in compenso a Londra ci fu la peste e il Grande Incendio.
Tutto questo non è che abbia molto a che vedere con Beppe Grillo; lui ha solo citato un brano famoso, copiato e incollato su internet milioni di volte; presente in centinaia di siti e blog diversi, in centinaia di date diverse, ma quasi sempre salutato come “straordinariamente attuale”. Il fatto che lo abbia pronunciato un dittatore feroce, l’imperialista che estese il dominio inglese su Scozia e Irlanda, è a portata di clic; e forse dovrebbe anche far parte del bagaglio culturale di ogni lettore italiano di media cultura. D’altro canto non ha veramente importanza chi fosse e perché parlasse così. Era arrabbiato; ce l’aveva con un parlamento che non si sbrigava a fare quel che voleva lui, ovvero sciogliersi: e questo è tutto quel che importa sapere. Ci vediamo nel 1666. http://leonardo.blogspot.com
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Un altro autolesionista alla guida del PD

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Ci voleva forse Matteo Renzi per farci capire che un accordo con Berlusconi sul sistema elettorale non è affatto difficile: basta dargli tutto quello che vuole. Quando presentò il suo accordo "prendere-o-lasciare" alla direzione del PD, chi si ostinava a vedere il bicchiere mezzo pieno notò che almeno non erano previste le candidature multiple - almeno quelle. Almeno non avremmo rivisto i notabili dei partiti in cima ai listini di tutti i collegi, pronti a lasciare il posto ai perfetti sconosciuti in coda. Ognuno può avere un'idea diversa su dove passi il confine tra decenza e indecenza, ma almeno c'è consenso sul fatto che le candidature multiple stiano al di sotto della linea. Meno male.

Un paio di giorni dopo il NCD - la filiale di Berlusconi presso il governo - ha presentato un emendamento che reinseriva le candidature multiple. Quando Alessandro Gilioli, giornalista dell'Espresso, ha provato a chiederne conto a Renzi su twitter, ne ha ricevuto una risposta davvero interessante. La domanda era: ti impegni a evitare le candidature multiple? La risposta eccola qui.


Insomma, sì, può darsi che lo stiano fregando: è una possibilità, lui non ci si immola; quello che può fare è garantire che lui, cmq, non li fregherà MAI. Se la coalizione di centrodestra riuscirà in questo modo a produrre liste più appetibili agli elettori, pazienza: Matteo Renzi non potrebbe mai abbassarsi a un trucchetto simile.

Questa forma malintesa di fair play, (continua sull'Unita.it, H1t#216) per cui lasci che il tuo interlocutore ti boicotti la legge elettorale e non approfitti nemmeno dei trucchi che lui si sta permettendo, è una delle cose meno nuove di Matteo Renzi: un atteggiamento che prima di lui fu di Veltroni e persino di D’Alema. L’antiberlusconismo “agonistico” di chi ritiene che per quanto disonesto, per quanto infido, per quanto pregiudicato, Silvio Berlusconi vada battuto sul campo: non importa se il campo è in discesa per lui e in salita per noi. È un atteggiamento che fin qui non ha pagato, ma Renzi ritiene di avere delle cartucce che i suoi predecessori non avevano, e magari le ha davvero. Io spero che le abbia.

Cito un vecchio pezzoEsiste un antiberlusconismo agonistico, non mi viene in mente un altro aggettivo con cui definirlo: è l’antiberlusconismo di quelli che B. lo vogliono “battere alle elezioni”: sottointeso, ad armi pari. In realtà si sottointende un’enormità, perché B. non usa armi legali: ha a disposizione un patrimonio immenso, accumulato con metodi discutibili, come per esempio la corruzione (possiamo dirlo ormai, ci sono le sentenze). Dispone di una corazzata mediatica un po’ ammaccata ma ancora senza rivali per potenza di fuoco in Italia, e lo si è visto in campagna elettorale: B. non è riuscito a vincere, ma riesce ancora ad evitare che vinca qualcun altro. Cosa significa “batterlo alle elezioni”? Con che risorse, visto che lui ne ha di enormi? Con che televisioni? Non si sa, non si è mai capito. Gli antiberlusconiani agonistici sono di solito tipi sportivi, pronti a gettare il cuore oltre all’ostacolo: prima o poi, lasciano intendere, gli italiani tiferanno per loro, ammireranno la loro sportività, il fair play del galletto che sfida la faina al giro dell’aia. Finora son tutti finiti male (Occhetto, Rutelli, Veltroni), però magari questa volta chissà.
In questi giorni Renzi ci ha spiegato che questo sistema non lo vogliono soltanto lui e Berlusconi, ma anche i due milioni di elettori delle primarie: in realtà erano un po’ meno di due milioni, e c’è anche quel milione scarso che non votò per lui, ma questi son dettagli. È difficile immaginare che gli elettori di Renzi in dicembre avessero in mente una situazione del genere, con Berlusconi in grado di tagliarsi il sistema elettorale a seconda delle sue esigenze (norme salva-Lega incluse).Molti, senz’altro, votarono Renzi perché si fidavano di lui. Molti probabilmente si fidano ancora. Tanti altri speravano in un uomo nuovo, lontano dagli atteggiamenti autolesionistici che avevano fin qui danneggiato il PD. Ecco, sull’autolesionismo la sensazione è che ci sia ancora molto da lavorare. http://leonardo.blogspot.com
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Attento con quell'asse, Matteo Renzi

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Ormai non se lo ricorda più nessuno, ma il primo programma politico condiviso on line non lo produsse il M5S, bensì lo staff di Matteo Renzi. Ancor prima delle artigianali piattaforme on line di Grillo, ci fu il "wikiprogramma" lanciato alla prima Leopolda, che nei fatti non era un wiki e non lo diventò mai - dettagli. Sono passati più di due anni, e siamo tutti in attesa di conoscere i termini della legge elettorale che Renzi e Berlusconi hanno deciso per noi. Nemmeno Enrico Letta ne sa di più; Renzi con una battuta ha detto che per sapere qualcosa dovrà chiedere a zio Gianni - insomma, per ora il grande vecchio di Forza Italia conosce più dettagli del presidente del consiglio che è compagno di partito di Renzi. Che dire: meno male che io a questa cosa della democrazia-diretta-on-line non ci ho mai voluto credere, sennò sarei parecchio deluso.

I renziani invece molto delusi non sembrano; si vede che non ci avevano creduto molto nemmeno loro. Meglio così, lasciamo questi specchietti alle allodole grilline e facciamo finta di essere uomini di mondo. È abbastanza chiaro che dovesse finire così: in una situazione di stallo a tre, vincono i primi due che si mettono d'accordo su una legge per fregare il terzo. Se avevamo nutrito qualche illusione che tra i primi due non ci fosse Berlusconi, la caparbietà con la quale Grillo ha escluso i suoi da ogni trattativa ce le stroncò nella culla in primavera. D'altro canto per quale motivo al mondo Grillo dovrebbe fare l'unica mossa che non gli conviene? Occorre sempre ricordare il suo vantaggio sui due avversari: lui non ha bisogno di vincere. Che prenda più o meno del 25%, il suo core business è l'opposizione ringhiosa: quaranta deputati più o in meno non gli cambiano più di tanto la situazione, anzi, meno sono e meglio si controllano. Alla fine dei conti il suo ruolo è perfettamente complementare a quello degli altri due. Quello tripolarismo che ci sembrava così precario in febbraio sta rivelando un insolito equilibrio, e non è detto che nuove elezioni non lo confermino. È chiaro che sia Renzi che Berlusconi vorrebbero aggiudicarsi un super-premio di maggioranza e governare da soli, ma è abbastanza possibile che si ritrovino di nuovo a convivere al governo col terzo soddisfatto che abbaia. Spero come sempre di sbagliare, ma se una cosa conviene a tutte le parti in gioco, perché non dovrebbe accadere?

Tutto ampiamente prevedibile, tranne i dettagli: l'oltraggiosa liturgia di Berlusconi nella tana del nemico... (continua sull'Unita.it, H1t#215).  Fino a qualche mese fa lo avremmo considerato l’ennesimo errore tattico di una segreteria PD. Adesso però c’è Renzi e non ha senso prendersela con lui: una sbruffonata così è perfettamente nel suo stile. A gli elettori del PD che lo hanno voluto segretario non era dato sapere, in dicembre, se avrebbe sostenuto Letta o se lo avrebbe impallinato; l’unica cosa sicura era lo stile-Renzi, dal protagonismo in similpelle alla tendenza a conferire con Berlusconi tête-à-tête; e lo stile-Renzi ha vinto su tutte le obiezioni col 73%.
Ora sappiamo che Renzi manterrà in vita il governo Letta, per un anno almeno. Dovrà difenderlo, qualsiasi cosa accada – e di cose ne stanno accadendo: alcune magari sono sciocchezze pompate dai media, ma se i media si comportano così non si capisce perché dovrebbero cambiare atteggiamento da qui a un anno. Nel frattempo dovrà difendere Berlusconi mentre riscrive diversi articoli della Costituzione con lui. Questo significa, a spanne, seppellire qualsiasi possibile intervento sul conflitto d’interessi, un argomento a cui Renzi non è mai stato appassionato. Sarà un anno molto lungo, e Renzi deve gran parte del suo successo al fatto di essere un uomo nuovo: tra un anno lo sarà molto meno. E a quel punto magari si voterà, con un sistema elettorale che Berlusconi ha potuto scegliere con comodo. Con la Mediaset tutta ancora saldamente nelle mani del presidente di Forza Italia. Ok, siamo uomini di mondo, se Renzi ha offerto tutto questo a Berlusconi, avrà senz’altro ottenuto qualcosa in cambio. Qualcosa che al momento ci sfugge: la Lega su un piatto d’argento? Briciole. La benevolenza della stampa berlusconiana? Sai che roba – e poi durerà solo finché lo vuole il padrone. La stabilità? Ma non era venuto a rottamare? E quali garanzie hai di vincere tra un anno quello che temi evidentemente di non portare a casa in maggio col Mattarellum?
Spero di sbagliarmi. Davvero. Ma c’è solo una persona in Italia che può ficcarsi in una situazione del genere e credere di spuntarla con le sue sole forze, e gli elettori del PD lo hanno voluto a guida del PD. Forse era inevitabile, ma è inutile prendersela con lui. http://leonardo.blogspot.com
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La democrazia dalle 10 alle 17.

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Oggi i senatori a 5 stelle voteranno in aula a favore dell'abrogazione del reato di clandestinità. È una scelta abbastanza coraggiosa e sorprendente (anche se l'emendamento lo avevano presentato proprio due di loro: ma Grillo non era stato molto contento). Per quel che mi riguarda, è anche la scelta giusta. E tuttavia il mio pensiero va agli iscritti del movimento a tutto il 30 giugno 2013, che ieri sera rincasando dal lavoro hanno dato un'occhiata al mondo su internet e in pochi secondi hanno scoperto che:

1. Il loro MoVimento aveva indetto una "votazione online sul reato di clandestinità", aperta anche a loro, proprio per decidere cosa far votare ai senatori m5s oggi. Chi l'aveva decisa? Grillo? Casaleggio? L'intelligenza collettiva del portale? Mistero.
2. La votazione era già conclusa. Si era potuto votare dalle dieci del mattino alle cinque della sera. Chi è arrivato tardi (il 69% degli aventi diritto) è da considerarsi astenuto.
3. Avevano vinto gli abrogazionisti, con il 31% dei voti degli aventi diritto (24.932 su 80.383). I favorevoli al mantenimento del reato di clandestinità che sono riusciti a votare entro le cinque sono appena 9.093 (l'11%).

Per ora insomma si tratta di una democrazia diretta con orari d'ufficio, (continua sull'Unita.it) che per mesi interi non ti consulta su nulla e poi nel giro di poche ore ti chiede un parere, e se in quel momento non sei connesso, ciao. Vi accederà più facilmente chi lavora davanti a un terminale connesso alla rete: più impiegati che artigiani. Questo potrebbe anche aver determinato l’esito sorprendente della consultazione. Come ricorda Carlo Gubitosa, Grillo qualche mese fa raccontava che l’80% degli elettori m5s era favorevole al mantenimento del reato, che lui e Casaleggio avevano fatto dei “sondaggi” (a che titolo? con che soldi? Non si sa). Vale la pena di ricordare che elettori e iscritti non sono proprio la stessa cosa: il rapporto è ancora di uno a cento. Otto milioni di persone hanno votato per il M5S, ottantamila hanno il diritto di esprimere il loro parere se Grillo glielo chiede sul portale. Di questi hanno votato soltanto venticinquemila: gli altri non erano interessati al quesito, o non se ne sono accorti in tempo.

In futuro magari si potrà sviluppare un’app che, quando Grillo ti chiede un parere, ti manda una scossa sul cellulare – tanto quello ormai al lavoro lo teniamo acceso tutti. Ci abitueremo prestissimo: invece di una partita a candycrush o di una foto al piatto di portata, voteremo per l’abrogazione di questo e l’introduzione di quello. Ti stai facendo la doccia, senti un bip – è Grillo che ti chiede di votare per l’inasprimento delle pene riguardanti l’abigeato. Un occhio a wikipedia, un clic veloce, fatto. La banda naturalmente la deve offrire lo Stato. http://leonardo.blogspot.com


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La faccia che abbiamo perso su facebook

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La violenza politica in Italia è ai minimi storici. Sembra incredibile, in un momento tanto difficile, in cui gli uomini politici godono di universale discredito. Eppure tutti i "muori" o i "crepate" che ci è capitato di leggere in calce agli articoli on line di alcuni quotidiani non ci devono far scordare che oggi i politici non li ammazza più nessuno. Ancora trent'anni fa non era così. Oggi, nel mezzo della crisi economica più grave dalla fine della guerra, qualche centinaia di dimostranti con forconi di cartapesta e qualche cartello trucido ci fanno sudare freddo. Quarant'anni fa in mezzo a cortei di migliaia di persone non era difficile intravedere qualche p38. Silvio Berlusconi, il più amato e detestato degli italiani, in un ventennio di bagni di folla ha rimediato appena un treppiede e un duomo in miniatura. Quindi? Quindi niente, forse tra la violenza verbale che ha trovato sfogo su internet e la violenza vera, quella che rende i politici bersagli di aggressioni o attentati, non c'è correlazione. Se ci fosse, potrebbe persino essere inversa: da quando la gente si sfoga su internet, ai politici non spara più nessuno.

Quella che si scatena su Internet, più che violenza, è maleducazione. È comunque irritante, quando non lascia semplicemente sbigottiti: il buon padre di famiglia che, tra un commento sulla partita e un autoscatto-ricordo della settimana bianca, sente la necessità di infilare qualche augurio di morte a Bersani, non sta offendendo tanto Bersani quanto sé stesso. Non dovrebbe essere difficile da capire. (continua sull'Unità, H1t#213)

 Quando mi capita di spiegarlo a scuola, perlomeno, mi sembra che il messaggio passi con facilità: non fare su Facebook nulla che non faresti davanti a un giornalista o in una caserma di carabinieri – dal momento che sia l’uno che gli altri, se vorranno cercare informazioni su di te, ti troveranno lì. Il tredicenne medio questa cosa la capisce. La mia speranza a questo punto è che la spieghi anche ai genitori: molti di loro evidentemente persuasi che i social network siano bolle di non-realtà dove è sospeso non solo il codice penale, ma anche il più elementare buon senso: quelle per cui non si mette il proprio nome e cognome e il visino sorridente accanto a un augurio di morte.
Quando qualche tempo fa diversi quotidiani on line (compresa l’Unità) decisero di trasferire i commenti dei propri articoli su Facebook, la parola d’ordine era “Metterci la faccia“.  La scelta aveva anche un senso economico, ma fu in molti casi giustificata come un modo di responsabilizzare il commentatore. Facebook è la piattaforma sociale che più di tutte ha scommesso sul desiderio dell’utente di uscire allo scoperto, rivelando nome e cognome e tanti altri dati più o meno sensibili. Quello con Facebook era una specie di patto col diavolo: si sarebbe preso i nostri dati sensibili, ma almeno ci avrebbe reso impossibile scannarci a vicenda in calce a un pezzo su un quotidiano. Chiedere ai commentatori di registrarsi su Facebook significava dare un volto a una pletora di commentatori anonimi che – si pensava – non si sarebbero più attentati a scrivere cose sciocche o volgari. Chi mai vorrebbe associare il proprio nome e il proprio volto a parole sciocche e volgari?
Ora lo sappiamo: anche una volta abolito l’anonimato, le idiozie e la volgarità restano dove sono. Facebook ci ha tolto un po’ di privacy (e magari se l’è rivenduta alla NSA o chissà a chi altri), ma non ci ha resi più gentili. Ci abbiamo messo la faccia, l’abbiamo persa. http://leonardo.blogspot.com
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Grillo e l'interprete impazzito

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"A gennaio presenteremo l'impeachment contro Napolitano, spero che come Cossiga si dimetta prima". È probabilmente l'affermazione più rivelatrice sfuggita a Grillo nel suo discorso alla nazione. Grillo, si sa, ha cominciato a fare i discorsi di fine anno ben prima che Napolitano. All'inizio (su Tele+, nel 1998) era considerato uno show di satira, poi l'abitudine gli ha un preso la mano e ora risulta più serioso e retorico del presidente vero.

Grillo sa benissimo di non avere nessun appiglio concreto per incriminare Napolitano. Lo ha anche ammesso coi suoi, l'impeachment è una "finzione politica" (Il Fatto, 30/10/13): "Non possiamo dire che ha tradito la Costituzione. Però diamo una direttiva precisa contro una persona che non rappresenta più la totalità degli italiani. Noi siamo la pancia della gente", eccetera. D'altro canto, prima o poi Napolitano si dimetterà: lui stesso ha sempre ammesso che il suo secondo mandato non arriverà alla scadenza naturale (il 2020!). Potrebbe anche essere questione di mesi, se ci si mettesse d'accordo sulla legge elettorale. In ogni caso, in qualsiasi momento accada, Grillo potrà vantare coi suoi di avere causato le dimissioni col suo impeachment. La finzione politica non ha altri scopi che non siano elettorali: Grillo deve dimostrare di aver fatto qualcosa di concreto - a parte riportare per qualche mese i berlusconiani al governo. Per inciso: se Napolitano davvero non gli fosse piaciuto, avrebbe potuto chiedere ai suoi di votare Romano Prodi il 19 aprile scorso. Ma probabilmente a questo punto starebbe chiedendo l'impeachment anche di Prodi (o di Rodotà, o della Gabanelli).

(continua sull'Unità, H1t#212).

Grillo forse chiede aiuto



Liquidato così il 2013, Grillo ha voluto cominciare il 2014 con un sussulto di follia, nominando persona dell’anno Thamsanqa Jantjie, il finto interprete che ha movimentato la cerimonia funebre di Nelson Mandela mimando tra gli altri il discorso di Obama senza conoscere né l’inglese né il linguaggio dei segni. I commentatori di Grillo sono rimasti un po’ perplessi, a riprova di quanto ormai sia diventato serio il suo blog: anche l’elezione della “persona dell’anno” ormai è una cerimonia ufficiale che serve a mettere sotto i riflettori un problema. La persona del 2012, per dire, era “il piccolo e medio imprenditore italiano”, trafitto in copertina come un San Sebastiano; nel 2011 era stato nominato Alberto Perino, “leader dei NoTav”: niente scherzi, insomma. Forse anche Grillo si sta annoiando della funzione sempre più para-istituzionale che si è ritagliato.
O forse si è riconosciuto. Catapultato in seguito a vicende complesse tra un pubblico sempre più arrabbiato e ingovernabile e un sistema politico che non capisce, Grillo da mesi sta gesticolando senza sapere nemmeno lui, esattamente, cosa vorrebbe e cosa otterrà. Come Thamsanqa Jantjie, a questo punto forse comincia ad avere allucinazioni – o forse le ha sempre avute: default, crollo dell’eurozona, locuste, cavallette. Forse eleggere uno schizofrenico incompetente a persona dell’anno è il suo modo per chiedere aiuto a tutti noi: salvatemi da me stesso. http://leonardo.blogspot.com
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Abolire le province è così sciocco

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Proviamo con un esempio, stavolta. Dalle mie parti è stato il Natale più caldo del secolo. È probabilmente un record destinato a infrangersi presto, conviene prepararsi. Temperature miti a Natale significano poca neve sull'alto appennino, precipitazioni piovose un po' dappertutto, fiumi in piena (noi ne abbiamo due abbastanza pericolosi), ponti da chiudere al traffico, e rischi di inondazioni. Per fortuna ci sono le casse di espansione, i bacini artificiali da allagare quando i fiumi arrivano a livello di guardia. E però non sono mai stati collaudati. Pare. In Regione dicono che non c'è problema, ed è sicuro che funzioneranno; anche l'Agenzia interregionale del Po è dello stesso parere, e quindi ce le teniamo così. Nel frattempo dall'altra parte dell'Appennino una procura sta indagando su tredici funzionari accusati di disastro e omicidio colposo, perché? Perché non avevano collaudato una cassa di espansione. Sembrava funzionante. Poi un giorno il Magra ha straripato e ad Aulla sono morte due persone. Più i soliti milioni di euro di danni. Collaudare la cassa d'espansione sarebbe costato meno, ma è un'operazione complessa e non del tutto priva di pericoli, che arreca disagio alla popolazione, e così alla fine non è mai la priorità di nessun funzionario o politico.

Se i politici tendono a non pensare più di tanto al territorio, non è per miopia o egoismo; semplicemente, il territorio non vota (continua sull'Unita.it, H1t#211).

Votano i cittadini, e i cittadini sono sempre più concentrati nei centri. Del dissesto territoriale si accorgono soltanto quando arriva la piena. Una possibile soluzione poteva passare per il potenziamento dell’ente provinciale, che ha le dimensioni ottimali per occuparsi dei problemi relativi al territorio e alla viabilità. I comuni sono troppo piccoli, le regioni troppo grandi. La provincia era perfetta: sicuramente qualcuna avrebbe potuto essere accorpata, ma in generale è l’entità territoriale che permette di gestire un fiume, una valle, una catena montuosa; l’unica in cui gli amministratori potrebbero trovare l’equilibrio tra le esigenze del centro urbano e quelle del territorio circostante.
Avremmo dovuto potenziarla. Invece a un certo punto qualcuno ha cominciato a dire che andava abolita, e a furia di ripeterlo ci abbiamo creduto tutti. Quella che resterà in piedi col decreto Delrio sarà una specie di dopolavoro dei sindaci, dove la bilancia penderà ancora di più dalla parte di chi rappresenta i centri urbani più popolati. Questi sindaci-volontari dovranno preoccuparsi di inezie come il dissesto idrogeologico praticamente gratis. Bisogna infatti risparmiare, tutte le forze politiche ci tengono molto a risparmiare e pare che il modo migliore sia non pagare lo stipendio ai politici che devono vigilare sul territorio. Non è ancora ben chiaro quanto risparmieremo: vedremo.
Intanto, solo per la piena del Magra, nel 2011, abbiamo buttato via centosettanta milioni – nulla che Berlusconi non potesse risolvere ritoccandoci le accise sulla benzina. Magari capiterà anche a Letta. Però vuoi mettere la soddisfazione di non votare più per i consiglieri provinciali. http://leonardo.blogspot.com
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Non te lo clicco il video, Beppe.

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Dieci giorni dopo aver esposto Maria Novella Oppo alla gogna, Grillo dimostra di non aver capito (o di aver capito benissimo, e di voler perseverare) lanciando su facebook una corsa all'insulto più sessista nei confronti di Laura Boldrini. Nulla da aggiungere a quello che ha scritto Marina Terragni; vorrei concentrarmi su un dettaglio secondario: il fatto che anche stavolta Grillo faccia saltare il tappo dicendosi "senza parole". La stessa espressione è una protesta di innocenza (Grillo è talmente indignato che non è in più grado di dire niente) e un invito al massacro (ditelo voi, commentatori inazzati! riempite il vuoto lasciato da Beppe!) E naturalmente c'è l'invito a cliccare un video. Sempre così: non ho parole, clicca il video. Sta diventando un ritornello.

Tra i motivi pre-politici della mia avversione per Grillo c'è il fatto che lui voglia farmi cliccare sui video. Anche il suo blog ha la colonnina destra morbosa, come tutti i siti che cercano di tirare due spicci. Per inciso: non è vero che Grillo faccia i milioni col blog. Se ci tenesse proprio ai milioni Grillo ricomincerebbe a farsi pagare i biglietti ai palazzetti invece di comiziare in piazza gratis: e scriverebbe più libri e inciderebbe più dvd. Coi blog, anche zeppi di inserzioni, ti rifai più o meno delle spese. Grillo non fa politica per guadagnarci, e però neanche vuole perderci troppo; ultimamente la sua colonnina si è fatta più agguerrita, con una strategia cattura-attenzione elementare quanto efficace. È tutto un 'Siamo senza parole! Clicca qui, guarda il video!' Non hanno mai parole. Hanno solo video. Adesso vado di là e copio-incollo i primi titoli che trovo, giusto per dare un'idea (continua sull'Unita.it, H1t#210)

MOVIMENTO 5 STELLE, CENSURATA PURE QUESTA NOTIZIA
Censurata anche questa notizia. Non ne parla nessuno. Abbiamo il video. Guardate cos’è successo. …
Non ho la minima idea di cosa sia, e un po’ di curiosità mi sarebbe anche venuta, però cliccando compare una pubblicità che dura 46 secondi e non si può chiudere. Anche dopo averla guardata per 46 secondi della mia vita, non si chiude lo stesso: forse pretendono che la segnali a qualcun altro via twitter o fb, c’è il logo sopra. Mboh, lascio perdere. In questo modo forse do una mano alla “censura”, ma d’altro canto immagino che se fosse una cosa davvero importante l’avrebbero messa nei titoli veri.
GIULIA INNOCENZI E IL SESSO 4 VOLTE AL MESE
Ecco cosa ha scritto Giulia Innocenzi a proposito del sesso 4 volte al mese: (Clicca…
Questa trovata è particolarmente penosa.  Di questo famoso contratto “sesso 4 volte al mese” ne hanno parlato un po’ tutti, oggi, ma solo a casa Casaleggio è venuto in mente di associarlo nel titolo al nome di una giornalista donna che è anche un volto televisivo. Ovviamente chi non ha ancora sentito la notizia assocerà la Innocenzi al “sesso 4 volte al mese” e correrà a cliccare: e ogni clic sono eurocentesimi, butta via. Immagino che dall’altra parte ci sia semplicemente un contenuto visuale o testuale in cui l’Innocenzi commenta la notizia, ma anche stavolta non sono andato oltre.
COLOSSALE FIGURA DI M…. DELLA RENZIANA!
Preparatevi perché questa è incredibile. Guardate cos’ha combinato la renziana Marianna Madia…
Ha sbagliato ufficio e ha parlato col ministro sbagliato, boh. Fossero questi i problemi della Madia. Poi per carità, è una notizia pure questa, però… “preparatevi perché questa è incredibile“. Ché io me lo immagino sempre questo lettore medio di beppegrillo che prima di ogni clic dà una controllata alla pressione per non sforzare troppo le coronarie.
MILENA GABANELLI SMASCHERA L’INGANNO
Ultim’ora direttamente da Milena Gabanelli. Governo smascherato. Ecco cosa stanno facendo: (Leggi…
Oh, per una volta si legge invece di guardare. Vado a cliccare e non finisco in una pagina di Report o comunque gestita da Milena Gabanelli, ma in un altro sito pieno zeppo di pubblicità video, dove si riporta una notizia (“la Commissione Bilancio ha stralciato quella parte della cosiddetta “web tax” che riguarda l’e-commerce”), segnalando che “lo scrive sul proprio profilo Facebook, Report, il programma di Milena Gabanelli”. C’è il link diretto? Certo che no.
TUTTO INTORNO A LEI!
Mariarosaria Rossi, assistente personale di Silvio Berlusconi. Diffusa questa imbarazzante notizia. …
Tutto così, sempre così. Incredibile, colossale, clicca. Siamo senza parole, guarda il video. Per molti questa è l’esperienza quotidiana con internet: tant’è che appena escono dal sito di Beppe cercano di riprodurla su altri siti. Ad esempio vengono qui nei commenti e si portano sempre delle verità importantissime che però ti possono comunicare soltanto attraverso i video. Guarda che ti sbagli, guarda il video.
Ora, per carità, sono sicuro di sbagliarmi tantissime volte. Ma i video non li guardo quasi mai. Niente di personale, ma mi annoio mentre si caricano. L’idea di restare fermo mentre i video mi spiegano una cosa, senza poter scorrere con lo sguardo e cercare i punti salienti (come faccio quando leggo un testo più o meno rapidamente) mi rende nervoso. Se proprio ci tieni al mio parere, fammi un riassunto. Sono abituato a leggere e a scrivere, e anche internet mi piaceva di più quando era tutta così: scrittura, lettura, di nuovo scrittura. A quel tempo lui i pc li spaccava, ricordate. Veniva dalla tv.
Poi un giorno è arrivato su interneta casa mia. E si è portato tutti questi noiosissimi video. E la sua corte di videoamatori. Perché la gente si annoia. La gente vuole vedere i video. Con tanta pubblicità intorno. Almeno Berlusconi se ne stava nell’altro scatolone, e per escluderlo bastava una pressione sul telecomando. http://leonardo.blogspot.com
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Il lapsus divino

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Il due per mille non frega il cittadino... l'otto per mille invece sì?


"Il sistema del due per mille non frega il cittadino". "Se il cittadino non opta, quindi non sceglie Stato o partiti, il contributo, il due per mille stesso, rimane allo Stato". Così ha detto Enrico Letta e senz'altro è una buona notizia: per molto tempo abbiamo temuto che anche il due per mille di chi non intendeva scegliere (il cosiddetto "inoptato") sarebbe stato distribuito ai partiti. Non è così: eravamo i soliti prevenuti, il sistema del due per mille non fregherà il cittadino.

Ma perché ci era venuto un dubbio del genere? Semplice: avevamo pensato di applicare al nuovo "due per mille" lo stesso sistema che funziona per l'otto per mille con cui si finanziano le confessioni religiose. Nel caso dell'otto per mille infatti l'inoptato viene ri-distribuito secondo un criterio proporzionale: la confessione che ha ottenuto il maggior numero di "preferenze" ottiene la fetta più grande. Se si considera che più o meno il sessanta per cento dei contribuenti non esprime nessuna preferenza, ne risulta che il 37% dei contribuenti che scelgono la Chiesa cattolica riescono a dirottare su di essa l'85%... (continua sull'Unita.it, h1t#209) (dati del Senato relativi al 2007): più del doppio. Per contro l’Assemblea di Dio e l’Unione delle chiese metodiste e valdesi hanno deciso di rinunciare alla loro quota di inoptato.

Ma a quanto pare il due per mille non funzionerà così. Mentre si affannava a spiegarcelo, Letta si è lasciato scappare un lapsus: il due per mille non frega il cittadino. Che equivale a un’ammissione: l’otto per mille invece sì. Non importa quante volte ce lo siamo detti e ripetuti negli ultimi 25 anni: sentirselo confermare da un presidente del consiglio fa comunque piacere. Specie se il presidente in questione è di area cattolica. Non sarebbe fantastico se non si trattasse di un lapsus, ma l’annuncio di una riforma della legge 222/1985 che assegni a ogni confessione soltanto l’otto per mille che i contribuenti scelgono di destinare? Lo Stato ne ricaverebbe una cifra intorno ai seicento milioni di euro, non esattamente bruscolini. La Chiesa cattolica viceversa si ritroverebbe un po’ più povera, ma papa Francesco senz’altro non se ne lamenterà – del resto chi mai vorrebbe arricchirsi fregando i cittadini? http://leonardo.blogspot.com


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Il rogo della fototessera

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Pensa che buffo se beppegrillo.it mi accusa
di avergli rubato l'immagine.
In principio ci fu quella foto, che a voi magari dice nulla, e a me è familiare come un qualsiasi oggetto domestico che incroci il mio sguardo ogni giorno; capita infatti che io e Maria Novella Oppo condividiamo la stessa colonnina dei blog dell'Unità, il che per me è un onore. A un certo punto ci fu chiesto di metterci la faccia, che per chi vorrebbe nascondersi dietro i propri contenuti è sempre un passo piuttosto imbarazzante da compiere (eppure sta diventando una cosa normalissima, da facebook in poi).

Parlo per me: poche cose mi costano fatica come riuscire a trovare una faccina da accostare alle cose che scrivo. Per prima cosa bisogna evitare di montarsi la testa, e quindi niente trucchi o parrucchi; un autoscatto deve bastare, salvo che è impossibile ottenerne uno decente. Non c'è una sola espressione che vada bene. Puntellare la testa con la mano è un trucco troppo abusato. Se fissi la webcam sembri un fanatico. Se guardi da un'altra parte si capisce che sei timido. Per carità non fingere pensieri profondi, diventi ridicolo. Dovresti invece lasciar intendere che ti diverti, ma poi la volta che dovrai commentare un disastro o un terremoto il tuo sorrisetto scemo sarà il tuo troll peggiore. Ma alla fine una faccia uno deve pure averla, anche se qualsiasi faccia ti diventa odiosa dopo una settimana.

Quando toccò a Maria Novella Oppo, secondo me non si preoccupò un decimo di quanto mi preoccupai io. Vogliono una faccia? Ecco la mia faccia. Virata in bianco e nero, non so perché, sembrava una fototessera: un corpo estraneo nell'homepage dell'unità - e dire che probabilmente la Oppo è la firma che abbiamo visto in prima pagina più spesso negli ultimi dieci anni. Al contrario di tutti noi, la Oppo non ammiccava, non forava l'inquadratura, non affettava pose asimmetriche, né si faceva esplodere il naso da un grandangolo. Il suo avatar era allo stesso tempo il più formale di tutti e il meno disciplinato ai nuovi codici non scritti della Grande Conversazione 2.0. Un volto che diceva: se volete vedermi eccomi qui, non appartengo visibilmente a questo mondo che chiamate internet, e nemmeno me ne vergogno, perché dovrei? Nulla di veramente fastidioso, se non sei Beppe Grillo (continua sull'Unità, H1t#208)

E Grillo impazzì per uno sguardo



Ho una teoria. Secondo me la Oppo avrebbe potuto scrivere cose assai più feroci sul M5S, e Grillo non l’avrebbe nemmeno notata; non sarebbe mai diventata la prima e per ora l’unica giornalista lapidata in effigie dai suoi commentatori, se non fosse stato per quella foto in bianco e nero. A parlar male del M5S siamo in tanti, sull’Unità e altrove: non sempre abbiamo i migliori argomenti, ma probabilmente non c’è uno solo di noi che non faccia incazzare Grillo e il suo staff. La Oppo non è la più cattiva, né la più metodica, né la più influente: perché partire proprio da lei? Non credo che sotto ci sia un piano. Grillo è un temperamento sanguigno che ogni tanto, di fronte a fortuite sollecitazioni, passa dall’Incazzoso Stabile all’Incazzato Esplosivo. Può essere una parola di troppo di un giornalista o di un politico; stavolta secondo me è stata una foto. Non importava realmente cosa stesse dicendo la Oppo, ma come osava dirlo con quella faccia lì? Ah, ma adesso glielo faccio vedere io, gliela faccio… Qui abbiamo visto una volta di più come Grillo sia un incredibile barometro dell’umore dei suoi lettori, che potevano reagire alla ripubblicazione della foto alzando le spalle, e invece si sono gettati a migliaia a inveire contro una persona di cui non si sono nemmeno presi la briga di leggere alcune righe. Non stavano sputando su un articolo fazioso, ma su una foto. Perché? Cosa aveva di tanto odioso questa foto?
Banalmente, si tratta di una donna. Lo abbiamo visto ieri, quando Grillo ha voluto dimostrarsi incurante delle critiche esponendo un nuovo giornalista alla gogna: stavolta Francesco Merlo, del quale curiosamente non ha trovato “foto disponibili” (perché quella della Oppo invece non è copyright dell’Unità? Strano). Anche Merlo è stato subissato da commenti feroci, ma la violenza espressa dai leoni da tastiera è stata molto inferiore a quella scatenata sulla Oppo. Forse perché stavolta non c’era un viso su cui sputare. O forse perché Merlo è un uomo e questo molti leoni lo sentono, e calano subito la criniera senza nemmeno accorgersene. Mentre la Oppo, con quella montatura d’occhiali per niente autoironica, col riflesso del flash sulla fronte, in un qualche modo deve essere sembrata il ricettacolo ideale di frustrazioni accumulate per decenni. Spero che non si offenderà, ma secondo me in quella foto hanno visto una maestra: e molti di loro hanno conti in sospeso con le ex maestre, lo si desume facilmente dalla loro ortografia.
Negli ultimi due giorni abbiamo letto parecchie critiche alla gogna montata da Grillo, anche da voci molto più vicine al M5S. Persino diversi commentatori di Grillo hanno chiesto di chiudere la rubrica, che sarebbe controproducente (ma temo che Grillo se ne intenda più di loro). Non mi pare però che nessuno abbia toccato l’argomento del sessismo. Prima che come giornalista, la Oppo è stata offerta alla mira dei commentatori in quanto donna. Contro di lei abbiamo rivisto la stessa aggressività greve e minchiona che fino a qualche mese fa si sfogava sui giornali di centrodestra nei confronti di Rosy Bindi. Contro questi frustrati che spesso non si vergognano di mettere nome e cognome, Beppe Grillo non ha detto beo, come sempre: non mi pare che nemmeno li cancelli. Li lascia dov’è e magari in seguito lo sentiremo dire che se non fosse per lui sarebbero anche più cattivi, voterebbero Alba Dorata e magari ieri sarebbero scesi in piazza coi forconi: meno male che c’è lui che li ospita nel suo blog, nel suo parco a tema antika$ta. Io credo che si sbagli: che il suo blog abbia una funzione più catalizzatrice che catartica, e che tutta la rabbia che coltiva e protegge giorno dopo giorno, un giorno più brutto degli altri potrebbe rivolgerglisi contro. Il mesto destino di un suo predecessore, il signor Bossi, dovrebbe essergli di monito. http://leonardo.blogspot.com
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Non ti do del coglione; ti propongo un referendum

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Beppe Grillo non vuole uscire dall'euro. Perlomeno, se volesse uscirne lo dichiarerebbe pubblicamente - non gli sono mancate le occasioni - e non l'ha mai fatto. Però Beppe Grillo vuole vincere le prossime elezioni; per vincere gli servono anche i voti degli euroscettici; e quindi ha approfittato di questo terzo v-day per ricordarci che vuole il referendum sull'euro. Purtroppo si tratta di una boiata pazzesca, che offende chi la propone (per finta) e chi finge di crederci o ci crede davvero. Vediamo il perché.

Non è tanto la cattiva fede di chi propone qualcosa di palesemente incostituzionale: per fare un referendum sull'Euro bisogna prima modificare la Costituzione, e Grillo lo sa benissimo (non è più un novellino). Ma andiamo oltre, come dice lui. Capita a tutti in campagna elettorale di promettere la luna, lui promette un referendum sulla luna, è già più fattibile, no? In realtà no; se uscire dall'euro non è necessariamente una cattiva idea, farci un referendum è l'idea peggiore che possa venire in mente a un politico, anche populista.

Proviamo a immaginarci la situazione: in Italia, da domani, si passa alle lire. In attesa del meraviglioso impulso all'economia, le fughe dei grossi capitali le diamo per scontate: ma guardiamo i nostri poveri stipendi, che da domani in poi saranno pagati in lire. In giro però ci sono ancora molti euro, che all'estero continueranno ad avere corso. Ci si aspetta che queste lire perdano abbastanza velocemente valore rispetto all'euro; ci si aspetta anche che certe spese (benzina, riscaldamento...) comincino a salire vertiginosamente. Calato in una situazione del genere, credo che anche l'elettore del M5S reagirebbe come reagirei io: ci precipiteremmo al primo sportello bancario e cercheremmo di farci dare più euro possibile, da ficcare nei nostri materassi o da qualche altra parte. Probabilmente qualcuno sarà stato più lesto di noi e ci avrà lasciato le briciole: tanto peggio. Nei prossimi mesi il mio salario perderà potere d'acquisto, ma gli euro che sarò riuscito a procacciarmi prima dell'esaurimento dei bancomat varranno sempre di più: saranno un bene rifugio. Anche se ufficialmente verranno vietati, è facile immaginare che i bottegai li apprezzeranno: come apprezzano i dollari i negozianti di tutto il terzo mondo. Io stesso cercherò di farmi pagare qualche lavoretto in euro, tengo famiglia. (Continua sull'Unita.it, H1t#207)

 Parte dei miei risparmi in valuta forte, del resto, li dovrò spendere per rendere la mia casa più sicura, con inferriate e magari munendomi di qualche arma da fuoco a scopo dissuasivo, visto l’importanza strategica che avrà da qui in poi il mio materasso. Insomma se vogliamo immaginarci un’Italia post-euro, dobbiamo guardare a certi turbolenti Paesi eternamente in via di sviluppo, ai margini del benessere. Forse è il nostro destino in ogni caso, ma perché accelerarlo?
Uscire dall’euro, ammesso sia possibile, è tecnicamente molto complicato. Gli economisti ne discutono; addirittura l’anno scorso è stato l’argomento del prestigioso premio Wolfson. I candidati al premio dovevano trovare il modo migliore di gestire la transizione economica di uno o più membri dell’Unione dall’euro a una valuta nazionale. Lo studio che si aggiudicò il premio di 250.000 sterline prevedeva che la decisione fosse presa a porte chiuse dai funzionari del Paese uscente: gli altri Paesi, e le organizzazioni monetarie internazionali, dovrebbero essere informati con tre soli giorni d’anticipo. A quel punto non ho capito bene come si potrebbe tenere mantenere l’informazione riservata anche solo per altre 24 ore; in ogni caso si dovrebbe arrivare a un annuncio ufficiale al venerdì, onde evitare l’assalto agli sportelli che creerebbe ovviamente il panico.  Questa a quanto pare è la proposta più realistica di “transizione” dall’euro che un economista si è azzardato a proporre: si basa sulla segretezza assoluta e sulla necessità di tenere chiuse le banche per due o più giorni. Grillo invece propone il referendum. Non è neanche sicuro che l’euro sia così male, però vuole che ne discutiamo per mesi: che litighiamo, che ci spaventiamo, che ci incazziamo, e che in mezzo a tutto questo magari cominciamo a tirar fuori dalle banche i nostri euro, e a nasconderli da qualche parte nel caso in cui il referendum si facesse davvero. Il referendum poi non si farà mai – bisogna modificare la Costituzione, hai voglia! Servono due terzi del parlamento, certo Beppe, hai un buon venti per cento, se lo triplichi ci sei quasi. Però nel frattempo è importante che ne discutiamo, che ci incazziamo, che ci spaventiamo. Così ci sentiamo vivi, come si deve sentire lui quando ne spara una di quelle grosse. http://leonardo.blogspot.com
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Capitani balbettanti

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Se posso, vorrei dire - a seguito di qualche malevolo commento - che tutto ciò che ho dato ha pagato le tasse. Poi, che altre donazioni possono aver luogo, senza passare per il notaio: Ricerca sul Cancro, Vidas, Bambini nefropatici, Shoah, San Raffaele, scusa mi fermo, sono stati i miei preferiti. Infine un chiarimento su tutta questa gazzarra. Qui dentro c’è stato un terribile schifo, una congiura... (Bernardo Caprotti, 26/11/13, Corriere della Sera)

Qualche giorno fa - Berlusconi non era ancora decaduto, sembrano secoli - sul Corriere è comparsa una letterina del presidente della catena Esselunga, Bernardo Caprotti. Trattandosi della replica a un articolo che lo riguardava, la pubblicazione era un atto dovuto; a sorprendere (ma neanche più di tanto, ormai), è la decisione di pubblicare il testo del biglietto così come è probabilmente arrivato, stile Celentano. Probabilmente in redazione avranno preferito non innervosire ulteriormente il personaggio, e così gli hanno dato spazio esattamente come in un talk show si "passa la linea" a un ospite telefonico, magari un tizio inviperito che ha chiamato perché stanno parlando male di lui.

Risultato: abbiamo assistito in diretta allo sfogo di un capitano d'industria ottantottenne, senza capire molto dei dettagli, ma afferrando la sostanza: il tizio non si può più fidare di nessuno. Gli fanno la guerra i figli; gli fa la guerra la vecchia segretaria e braccio destro; probabilmente gli hanno alzato una trincea persino in ufficio stampa, così è ridotto a scriversi i biglietti da solo. Con qualche effetto perversamente comico: Caprotti afferma di aver fatto cospicue donazioni alla "Shoah": probabilmente non allude a un inverosimile sostegno ai genocidi nazifascisti, ma alla meritoria associazione "Figli della Shoah"; aveva fretta e ha abbreviato, e al Corriere han stampato così.

Di fronte a un episodio del genere - valutate voi quanto buffo o patetico o triste - spunta la solita domanda (spunta sull'Unità, H1t#206)ma succede così anche altrove? O siamo l’unico Paese in cui i capitani d’industria non riescono a padroneggiare la propria lingua madre, né a munirsi di collaboratori che li sappiano assistere? Quando Caprotti definisce il Corriere il “Times del proprio Paese”, mette a fuoco il problema: è immaginabile un testo così involuto sul Times o su qualsiasi altra prestigiosa testata occidentale? Non è una domanda retorica, onestamente non lo so: se qualcuno ha in mente episodi paragonabili me li segnali pure qua sotto. Ma nel frattempo rimane il dubbio di ritrovarsi nel Paese con la classe dirigente e industriale meno colta d’Europa. Altrove almeno una letterina la sanno scrivere – se non lo sanno fare, sanno procurarsi qualcuno che lo faccia per loro; da noi no, non è richiesto, non è necessario.
Nell’era della comunicazione, i nostri capitani balbettano. Chi li rimprovera di non conoscere l’inglese forse non ha afferrato l’entità del problema: neanche in italiano sanno spiegarsi. Sono stupidi? Tutt’altro: intelligenza e cultura sono variabili non correlate, ed evidentemente Caprotti non ha avuto bisogno di particolari competenze linguistiche per mettere in piedi un impero nel ramo distribuzione. Forse davvero quando sei in ascesa la cultura più di tanto non serve. Ma ti assiste nei giorni difficili, quando devi imparare a mollare, e l’istinto non vuole saperne. Ha l’aria di essere la situazione di Caprotti, ed è sicuramente quella di Silvio Berlusconi, che pure può contare su un lessico un po’ più ricco, da piazzista quale è sempre stato. In qualsiasi altro Paese un Berlusconi avrebbe mollato da mesi, senza arrivare all’umiliazione del voto di mercoledì. Non glielo avrebbero consigliato soltanto i collaboratori più fidati: ci sarebbe arrivato da solo, riflettendo sugli esempi che la cultura personale gli avrebbe fornito, su Nixon, su Leone e su tanti altri. Berlusconi invece conosce solo Berlusconi, e magari la Storia gli darà ragione: dopo lo scisma del PdL e la manifestazione autocommiserativa di mercoledì i sondaggi lo vedono in risalita. Si vede che in Italia l’istinto premia ancora. http://leonardo.blogspot.com
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La bad company del (nuovo) centrodestra

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Una scissione nel centrodestra era uno scenario che fino a pochi mesi fa nessuno avrebbe osato immaginare. Eppure non è una mossa così illogica, e potrebbe persino rivelarsi vincente. È l'esito delle tensioni scatenate dalla permanenza di questo governo paradossale, sostenuto da due partiti contro la volontà dei loro stessi elettori. Sia Berlusconi sia il suo concorrente più plausibile - Renzi - si trovano nella scomoda condizione di dover preparare una campagna elettorale mentre sostengono un governo impopolare. Entrambi non hanno troppa fretta, e però più tempo passa più rischiano di perdere consensi. Che fare?

In aprile io, per esempio, senza intendermi di politica, suggerivo ai renziani di smarcarsi dal Pd e di lasciare che al governo andassero i rappresentanti del vecchio partito - una specie di bad company del consenso, che avrebbe attirato a sé tutto il malumore per l'accordo con centristi e PdL e per le politiche impopolari che avrebbe avallato. Ovviamente nessuno mi prese sul serio; però cinque mesi dopo qualcosa del genere l'ha combinata Berlusconi: Alfano e i ministri del Pdl vengono esternalizzati, più o meno forzati a costituire un partito che fungerà da bad company. Si accolleranno tutte le responsabilità di un governo che davvero fin qui non ha fatto molto per compiacere l'elettore di centrodestra; e nel frattempo Berlusconi è finalmente libero di sguazzare nell'opposizione, il ruolo che più di tutti gli è congeniale. Sganciata da ogni responsabilità, la nuova Forza Italia può ora andare in cerca di nuovi bacini di consenso: e se si gioca con abilità la carta dell'euroscetticismo, potrebbe recuperare molti astensionisti e persino qualche ex elettore pentastellato o democratico. Quanto al destino elettorale del Nuovo Centrodestra di Alfano, il precedente di Futuro e Libertà è abbastanza eloquente - a meno che lo stesso Berlusconi non decida di tenerli in vita come lista civetta per disturbare i centristi.

Certo, alla nuova Forza Italia - Abbasso Europa servirebbe un leader energico, e il Berlusconi che vediamo in questi giorni non lo è più (continua sull'Unita.it, H1t#205 L’età, la salute, le preoccupazioni giudiziarie, il protagonismo che gli ha impedito in tutti questi anni di individuare e crescere un successore all’altezza (anche in famiglia): tutte cose che cominciano visibilmente a pesare; ora come ora il principale problema della prossima campagna di Berlusconi sembra Berlusconi stesso. La distanza col personaggio che nel ’94 sprizzava ottimismo da tutti i pori è immensa. E però B. è già stato dato per spacciato tante volte: e per quanto azzardate possano sembrare le sue mosse, fin qui sembrano le migliori a sua disposizione.
Tra qualche giorno il parlamento voterà la mozione di sfiducia m5s alla Cancellieri, e Renzi – che si è pubblicamente pronunciato per le dimissioni – si troverà in una situazione imbarazzante: se la ministra otterrà la fiducia, come appare più che probabile, gli sarà rinfacciato di averne chiesto le dimissioni soltanto a parole, mentre nei fatti i parlamentari Pd della sua area continuano a sostenere fedelmente il governo Letta. E in effetti le cose stanno così: criticare la Cancellieri è una mossa elettorale, sostenere il governo è una scelta politica, e Renzi è costretto a muoversi in entrambe le scarpe. Poi succederà qualsiasi altra cosa e nel giro di qualche settimana ci saremo dimenticati anche di questa; ma a lungo andare queste situazioni non possono che indebolire l’immagine del futuro leader di centrosinistra. Non è da tutti essere di lotta e di opposizione: forse non è mai riuscito bene a nessuno. A questo punto però non è più un problema di Berlusconi: lui si è tirato fuori. Buona mossa, bisogna ammetterlo. Magari gli è capitata per caso, magari non si rende conto più di quel che gli stanno combinando attorno: ma la mossa resta buona.http://leonardo.blogspot.com
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Dal mercimonio al degrado antropologico

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Chi ha coniato l'odioso termine "Baby-squillo"? Il nome del titolista che per primo condensò uno scandalo in quattro sillabe probabilmente non lo recupereremo mai. E quando avvenne l'irreparabile battesimo? Una breve ricerca nell'archivio on line dell'Unità porta a un risultato sorprendente. Di "baby squillo" si parlava già nel 1976 - quasi quarant'anni fa. "La violenza quotidiana alleva le baby-squillo", scriveva Massimo Cavallini, e la sua prosa da sola basta a farci sentire la distanza:
"I personaggi si muovono con prevedibile scelleratezza. C'è il grande corruttore, il genio del male che trascina decine di fanciulle sulla via della perdizione, fino al mercimonio del loro giovane corpo: c'è la vecchia "maitresse", rotta ad ogni vizio, incartapecorita nella propria dissolutezza, che accuratamente educa alla professione le neofite del meretricio; ci sono i clienti ricchi ed annoiati, pronti a pagare cifre favolose per rapporti mercenari; c'è il medico corrotto, il "fabbricatore di angeli", che dietro lauti compensi stronca la vita che nasce dall'amore, anche quello a pagamento".
Il pezzo prosegue così per quattro colonne fitte, su un paginone senza foto. In mezzo a tanta retorica irrimediabilmente fuori moda, l'espressione "baby squillo" galleggia come un anacronismo. Oggi facciamo frasi più brevi, abbiamo paura di addormentare il lettore. Ma sempre retorica è; abbiamo semplicemente cambiato il modello. Oggi Marida Lombardo Pijola risponde a Silvia Gigli che sulle colonne dell'Unità le chiede "Come si è arrivati a questo?", spiegando che "negli ultimi vent’anni in Italia i costumi si sono trasformati, c’è stato un degrado sociale, politico, umano e antropologico incarnato da una persona, da un regime e da una tv che ci hanno segnati. I ragazzi sono cresciuti circondati da messaggi precisi sul sesso, lo strapotere del denaro, il disvalore del corpo delle donne. Sono stati accerchiati e martellati da queste informazioni fin da piccolissimi».

Degrado sociale, politico, umano e ovviamente antropologico, qualsiasi cosa ciò voglia dire: tutto questo incarnato da una persona e non c'è nemmeno bisogno di spiegare chi sia. Regime. Tv. Disvalore del corpo delle donne. Il tutto sarebbe una novità degli ultimi vent'anni, insomma niente baby squillo prima del 1997. Prima di allora evidentemente non c'erano "incontri sessuali nei bagni [delle scuole]", niente mamme dietro "che spingono per il successo o il denaro facile" (anche a dire il vero è stata una mamma a scoperchiare il caso, ma passi). Tutto questo non sarebbe che uno dei pesanti lasciti del berlusconismo.

Nel 1976 ovviamente Cavallini non poteva pensarla così. Nemmeno poteva incolpare il web, oggi fonte delle "prime informazioni sul sesso - distorte, parziali o amplificate dal web e senza alcuna mediazione da parte degli adulti". Poteva però già prendersela con una "civiltà fondata sul predominio del denaro", con la Torino bene, la città dove "il più grande quotidiano aveva organizzato una petizione popolare per l'abolizione della legge Merlin. È non è forse un luogo comune  affermare che la prostituzione è il più antico mestiere del mondo?"
"Antico, certo, almeno quanto l'ingiustizia, e oggi molte ingiustizie considerate ineliminabili non vengono più ritenute tali. Cresce ogni giorno il numero di coloro che le vogliono cancellare". 
Bel finale ottimista: ci si prostituisce, ci si è sempre prostituiti, ma se lottiamo insieme un giorno non sarà più così. Se devo essere onesto preferisco questo vecchio tipo di retorica al nuovo, quello che continua ad attaccarsi ai soliti obiettivi polemici (Berlusconi, la tv, e da qualche anno anche il web), senza farci intravedere uno spiraglio; e soprattutto al coro dei terapeuti che spiegano a Silvia Gigli che è colpa "nostra", il pezzo dice proprio così, che puntano il dito contro "noi genitori". "Non diamo loro mai situazioni di affettività". In che senso? I nostri genitori ce ne davano molte di più? (No: e infatti qualcuno faceva sesso nei bagni della scuola anche ai nostri tempi, a volerselo ricordare). "Nessuno si sforza di conoscere il loro alfabeto, di capire il loro linguaggio". Proprio nessuno nessuno? E dire che stanno tutti su facebook, in teoria potrebbero essere la generazione più monitorata della Storia (altrove i ragazzini stanno lasciando Facebook proprio per questo motivo). Ma soprattutto non passiamo mai abbastanza tempo con loro, i terapeuti si lamentano di questo. Abbiamo tutti questi impegni, ad esempio lavorare. Una volta non era così, le mamme avevano più tempo e infatti ci si prostituiva meno. Ci si prostituiva meno?

Nel 1977 sulla Stampa ricompare l'orrenda espressione baby-squillo. Stavolta però lo scandalo è più vasto, coinvolge "una cinquantina di donne" (continua sull'Unita.it...)

 E’ stata scoperta e arrestata l’organizzatrice del giro di «squillo» che da questa città provvedeva ai bisogni dei ricchi «uomini soli» di Milano e Torino. Si tratta di una signora della società «bene», Celestina Gùalandrìs di 45 anni, che in pochi anni ha accumulato centinaia di milioni. La specialità della Gùalandrìs era di arruolare volontarie dai «quartieri alti», cioè mogli e figlie di dirigenti e personalità, disposte a fare le «belle di giorno». [...] La questura ‘ di Torino sta svolgendo indagini supplementari, perché dai « clienti » torinesi erano richieste soprattutto «baby-squillo», ragazze minorenni ancora inesperte. Questi clienti pagavano, oltre le prestazioni, tutte le spese di viaggio e soggiorno delle giovanissime prostitute.
Anche stavolta nessun cenno alle generalità dei clienti: ricchi, soli, anonimi. Viene in mente quella straordinaria scena di Signori e Signore, in cui il direttore del quotidiano locale è costretto a cancellare un cognome per volta dal suo vibrante pezzo di denuncia, a ogni squillo imperioso di telefono.
Ma Signori e Signore non solo è del 1966 (Berlusconi stava cominciando a vendere i suoi primi condomini) ma è ispirato a fatti realmente accaduti anni prima, raccolti e rielaborati da Luciano Vincenzoni, che scrisse il soggetto con Pietro Germi. Tra le tante storie c’è appunto quella di una ragazza di campagna che arriva in città per comprare, mi pare, un tubo di gomma per l’irrigazione; una bella ragazza cresciuta senz’altro senza tv, neanche in bianco e nero, seguita dalla madre 24 ore su 24; poi arriva in città e il suo comportamento non è esattamente quello che sociologi e terapeuti si aspetterebbero. Non lo fa per una borsa, le basta un gelato e poco più; al contrario di tanti moralisti di oggi Germi non si sofferma più di tanto a giudicarla (gli interessa di più osservare i quattro rispettabili cittadini che cercano di sfangarla). Dieci anni dopo invece Carlo Lizzani gira il suo film meno visto, Storie di vita e malavitaRacket della prostituzione minorile, uno sguardo a tutto tondo su un fenomeno che già allora appariva un po’ più complesso di come lo descrivevano i giornali. Tra i vari casi messi in scena da attrici non professioniste, c’è anche la ragazza studiosa che lo fa per ribellarsi alla famiglia: oggi sottolineeremmo la sua arroganza, e allo stesso tempo accuseremmo il padre (e soprattutto la madre) di non capirla, di non sforzarsi di conoscere il suo alfabeto eccetera. Nel ’75 prevaleva un’altra chiave di lettura: la prostituzione giovanile come spia di un disagio sociale e ovviamente politico. In un lungo discorso alla basilica di Massenzio, Berlinguer accusava la classe dirigente di lasciato il Paese in balia di “spinte che disgregano ogni valore morale, ogni principio di convivenza civile: da cui sempre più preoccupanti fenomeni come quelli della delinquenza, della violenza cieca e irrazionale, della droga, della prostituzione minorile, della disperazione”.
La tv aveva due canali, ancora per qualche anno in bianco e nero. Senz’altro organizzare un racket, o anche un semplice servizio di escort, doveva essere molto più complicato, in un mondo senza internet e cellulari. Ma ci si riusciva anche allora. E ci si preoccupava anche allora. La prostituzione esiste da tantissimo tempo, affermarlo è davvero un luogo comune. Ma come scrivevano sull’Unità più di trent’anni fa, non è detto che debba esistere per sempre. Magari esiste anche un modo per ridurla progressivamente, fino a farla scomparire: non saprei proprio indicarlo, ma non posso escludere che ci sia. Non credo che abbia a che fare con internet, cellulari, tv: la prostituzione (anche minorile) è un fenomeno un po’ meno recente. Non è un’eredità di Berlusconi né dei governi centristi degli anni Settanta. Non evidentemente è un segno della decadenza dei costumi, a meno di voler concludere che i costumi decadano continuamente. Forse è un fenomeno che andrebbe studiato con lenti meno appannate da moralismi e sensi di colpa che fin qui, a quanto pare, non sono serviti a molto. http://leonardo.blogspot.com
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Il partito più e meno democratico

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Immaginate un Paese con due partiti. Veramente ce n'è anche un terzo, molto importante, ma il suo proprietario è anziano e non si rassegna a passare la mano, nemmeno ai figli. Gli altri due partiti invece si considerano entrambi a loro modo democratici, anche se questa cosiddetta democrazia non potrebbe prendere due forme più diverse.

Il primo partito è nato un po' prima dell'altro. Riconosce il diritto dei tesserati a esprimere candidature e proposte, ma nei fatti tutte le decisioni vengono prese dal comitato dei fondatori. Prima di poter prendere parte alla discussione i tesserati devono attendere molti mesi. Il secondo partito, anche per volontà di distinguersi, ha aperto le porte a tutti: chiunque può entrare, aderire e votare immediatamente. Ne risulta un certo caos. Li avete riconosciuti? (continua sull'Unita.it, H1t#203)

Il primo è quello nato nel 2005 sotto forma di Meetup Amici di Beppe Grillo, e che oggi chiamiamo Movimento Cinque Stelle. Beppe Grillo ne è presidente, coordinatore e portavoce, e soprattutto possiede il marchio: lo può ritirare a chi vuole quando vuole. Dopo tante insistenze da parte della base, finalmente il movimento si è dotato di una piattaforma digitale, pomposamente definita “sistema operativo” per condividere proposte e iniziative. Per ora però possono accedervi soltanto i tesserati al giugno 2013: una precauzione per evitare le infiltrazioni (anche quando si trattò di nominare un candidato m5s al Quirinale, la consultazione telematica fu ristretta a chi si era tesserato entro il dicembre dell’anno scorso).
Il secondo è il Pd, nato nel 2007, e che da allora non ha praticamente mai smesso di consultare una base magmatica, in perenne evoluzione. All’inizio addirittura il fondatore Veltroni voleva fare a meno di tessere – ma forse aveva in mente un modello plebiscitario, in cui la vittoria alle primarie avrebbe legittimato un leader e il suo staff a prendere qualsiasi decisione ritenesse necessaria. Il leader però era molto meno sicuro del necessario, e la sconfitta elettorale finì per indebolirlo anche agli occhi di chi lo aveva sostenuto. Da lì in poi ha ripreso forza l’idea di un partito radicato attraverso federazioni, sezioni e tesseramenti: senza che l’ideale plebiscitario tramontasse del tutto. Il risultato è il caos di questi giorni, denunciato da Cuperlo e preannunciato da CivatiI vecchi rais delle tessere rialzano la testa, e a contrastarli non esiste nemmeno più quella norma di buon senso per cui durante una campagna congressuale il tesseramento dovrebbe essere sospeso.
Il risultato è paradossale: il Pd ‘verticista’, il Pd ‘baluardo della partitocrazia’, è di fatto il movimento politico più aperto e scalabile che esista in Italia. Al confronto il M5S, con la sua selezione all’ingresso, sembra una setta esoterica. In realtà entrambi i partiti sono meno democratici di quanto li vorremmo. Il M5S non riuscirà probabilmente mai, per costituzione, a liberarsi dal suo padre-padrone; il Pd sta per nominare il suo quinto segretario in sei anni, eppure non riesce a trasformare un’occasione di democrazia in qualcosa di diverso da una guerriglia tra gruppi dirigenti, condotta sezione per sezione.http://leonardo.blogspot.com
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Contro la Ka$ta delle placche tettoniche

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Su un sito di petizioni on line è possibile da poche ore combattere una delle piaghe che affligge il nostro pianeta da miliardi di anni, la deriva dei continenti: "Ogni giorno, i continenti si allontanano tra loro. Questo rende più difficoltosa la comunicazione tra le popolazioni, e più dispendiosa l'importazione di tecnologia da Cina e Corea verso l'Italia. Dobbiamo fermare questa degenerazione che appare inarrestabile. Se firmiamo tutti questa petizione, può darsi che Dio ce la mandi buona" Ok, è solo uno scherzo. Da dilettanti. Ma mi è venuta voglia lo stesso di firmare, dopo aver letto l'annuncio del prossimo V-Day, una specie di adunata del Movimento 5 Stelle - salvo che chi lo convoca non è ovviamente il M5S, ma lo staff di Beppe Grillo.

Beppe Grillo non è un dilettante. Nel post in cui invita i suoi lettori incazzati a Genova, ci ricorda le tappe che lo hanno portato convocare la terza vaffa-convention. Ricorda per esempio come "Il secondo [VDay] si tenne a Torino il 25 aprile del 2008 per un'informazione libera senza finanziamenti pubblici e senza l'ingerenza dei partiti. Raccogliemmo 1.400.000 firme. Nessuno ritenne di ascoltare i cittadini". Si dimentica di accennare al fatto che più della metà di quelle firme furono ritenute non valide dalla Corte di Cassazione; un classico quando si pretende di raccoglierle in fretta e furia lontano dalla residenza dei firmatari (ogni firma va verificata presso l'ufficio comunale di residenza). E soprattutto tace sul dettaglio più penoso: le firme richieste da Grillo nel 2008 non avrebbe portato comunque a nessun referendum perché, per legge, non è possibile raccoglierle  nell'anno delle elezioni legislative, e il V2-Day si celebrò proprio dieci giorni dopo le elezioni. Grillo conosceva la legge (continua sull'Unita.it, H1t#202).

Grillo, facciamo qualcosa per la deriva dei continenti?


Grillo conosceva la legge: sapeva benissimo che il lavoro di centinaia di volontari nelle piazze di tutt’Italia non avrebbe portato a nessun esito concreto; sapeva benissimo che stava chiedendo agli italiani una firma inutile. Non erano le firme che gli interessavano, non era il referendum di cui adesso ha smesso di parlare. Grillo voleva soltanto fare incazzare il suo popolo un po’ di più, promettendo qualcosa che l’ordinamento repubblicano non gli poteva consentire; sapendo che tutta la responsabilità per il fallimento della raccolta firme si sarebbe potuta attribuire alle ka$te dei politici cattivi e dei giornalisti faziosi. Una mossa spregiudicata che ci avrebbe dovuto far riflettere sulla sua abilità di demagogo e politico. E invece anche in quell’occasione molti lo liquidarono come un dilettante.
Ma Grillo non è un dilettante. Per questo vorrei rivolgergli una sommessa proposta: al prossimo V-Day, oltre alla lotta contro la finanza o l’euro o gli stipendi di tutti i presentatori Rai che portano ricavi all’azienda, non si potrebbe fare davvero qualcosa di serio contro la deriva dei continenti? Non si può lasciare questa emergenza a quattro gatti on line, ci vuole il know-how di Casaleggio. “Con un unico continente tutto sarà a portata di mano, non ci vorranno né barche né aerei né ponti ma potremmo andare tutti in autostrada da un punto all’altro del mondo senza molta fatica.” Qualcosa per cui vale la pena lottare, io trovo. E che Dio ce la mandi buona… http://leonardo.blogspot.com
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Chi ha cambiato idea su Renzi? (Io, no).

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Tra qualche mese - al termine di vicende complesse ma tutto sommato prevedibili - Matteo Renzi diventerà il leader del centrosinistra italiano. Non necessariamente il segretario del PD, ma quasi sicuramente il candidato alla presidenza del Consiglio. A quel punto, se gli capitasse davanti alle telecamere di proporre come nuova lingua ufficiale lo svedese, e l'obbligo di portare la biancheria sopra i vestiti e di cambiarla ogni mezz'ora, io potrei valutare di non votarlo. Forse.

In ogni altro caso lo voterò, perché le alternative saranno ancora Grillo o Berlusconi (o peggio ancora, un grillino e un berlusconino), e io sono persuaso da sempre della necessità di scegliere il candidato meno peggiore. Purtroppo questa mia disponibilità ad accontentarmi di quello che passa il convento è uno dei tratti del mio temperamento che meno condivido con la maggioranza degli italiani: me ne accorgo tutti i giorni, e mi dispiace. Tutto mi lascia intendere che dovrò ancora difendere in logoranti conservazioni pubbliche un principio banalmente aritmetico (se non voti il meno-peggio, vince il più-peggio). Andrà come dovrà andare. Nel frattempo però vorrei salvare un principio: io sono tra quelli che quando si trattò di votare Renzi alle primarie, votò Bersani. Non solo pensavo che Bersani sarebbe stato un presidente del Consiglio migliore, ma ritenevo che avesse più chances di vincere le elezioni. Forse mi sbagliavo. Ma non ho cambiato idea.

Ritengo ancora che in febbraio Renzi non avrebbe vinto le elezioni; che gli eventuali elettori che voleva intercettare al centro non avrebbero compensato la fuga di quelli che se ne sarebbero andati da sinistra. E più in generale continuo a pensare di Renzi le stesse cose che pensavo un anno fa.

Tutto quello che ho scritto di lui - cose anche un po' cattive - mi sembra ancora più o meno valido. Trovavo il suo giovanilismo un po' irritante (e soprattutto osservavo come questa "irritanza" non fosse solo un'idiosincrasia mia, ma fosse condivisa da molte persone a sinistra). Non è che in seguito il giubbotto di Fonzie abbia modificato questa impressione (continua sull'Unità, H1t#201)

La sua proposta di abolire i finanziamenti ai partiti mi sembrava guardare a un futuro un po’ anglosassone in cui sarebbero stati gli sponsor economici a decidere quali candidati finanziare: e già un anno fa non mi facevo molti dubbi sul perché certi ambienti finanziari o industriali avrebbero avuto più interesse alla candidatura di un Renzi piuttosto che di un Bersani. Non mi piaceva il fatto che continuasse a insistere che i finanziatori della sua campagna erano reperibili “su internet”, quando non era semplicemente ancora vero.
Non mi piace il modo in cui molti politici di area cattolica, come lui, cercano di far passare uno smantellamento dello Stato sociale sotto l’etichetta “sussidiarietà”: una proposta demenziale come ilServizio Civile Obbligatorio, fatta l’anno scorso durante la campagna per le primarie, mi sembrava indicativa in tal senso. Spero che nel frattempo abbia cambiato idea sul Servizio Obbligatorio, ma non vedo perché avrebbe dovuto: il sostegno dell’associazionismo cattolico continua a essergli prezioso.
Non credo che potrà mai trattare da pari con Angela Merkel, non per una questione anagrafica, ma perché è succube della stessa visione cristiano-centrodemocratica delle cose: l’Italia deve scontare le colpe dei suoi genitori, lo pensano gli elettori della Merkel e lo pensa anche Matteo Renzi. Lui stesso ci volle rammentare che in tedesco “colpa” è un sinonimo di “debito” (Schuld). E i debiti si pagano.
Per farla breve: tra lui e Bersani continuerei a scegliere Bersani. Bersani però non c’è più, e nessun altro potrà veramente contendere a Renzi la posizione di leader della nuova generazione che si è conquistato (meritoriamente) in questi anni. Ha vinto lui, e se non farà o dirà cose davvero troppo sciocche, io lo voterò. Ma non ho cambiato idea su di lui. E neanche lui, secondo me, ha cambiato molte idee. E allora cos’è cambiato, da un anno a questa parte? Perché tanta gente, che l’anno scorso lo trovava interessante, ora cambia subito argomento? È il destino di chiunque cavalchi la novità: dopo un po’ la tua faccia non è già più così nuova. Ma non è solo questo.
È che Renzi sta scalando il PD, e questo lo può portare ogni tanto su posizioni un po’ a sinistra. Si tratta quasi sempre di un effetto ottico. In certi casi viceversa è il PD che si sta arrendendo a Renzi: ma l’ingresso nelle sue file di alcuni capibastone locali, per quanto giovani o almeno giovanili, lo rende meno digeribile a chi fino a ieri lo avrebbe votato soprattutto perché ieri MR era un corpo estraneo al PD. Tutto questo era assolutamente prevedibile, e in effetti noi lo avevamo previsto. Noi chi?
Noi che avevamo scelto Bersani. Quando ci esibivano i sondaggi in cui Renzi spostava milioni di elettori, restavamo scettici. Forse sospettavamo che la simpatia che molti elettori di centrodestra nutrivano per MR non sarebbe stata abbastanza forte da portarli davvero alle urne. Nei fatti lo staff di Renzi si aspettava un milione di elettori in più alle primarie (su un totale di tre milioni!) Ed era ancora il 2012: Berlusconi e Grillo non avevano ancora scaldato i motori della campagna elettorale. Grillo non aveva ancora promesso un referendum sull’euro. Berlusconi non aveva ancora inviato nelle case la busta per la restituzione dell’IMU. E Renzi non era ancora visto come il leader del PD. Tutti passaggi che avrebbero molto ridimensionato il suo gradimento presso quel bacino elettorale a cui voleva attingere. Questo era più o meno il ragionamento che facevamo un anno fa: non abbiamo cambiato idea. Altri l’hanno cambiata: appena Renzi è diventato il vero candidato, hanno iniziato a storcere il naso. Era prevedibile, lo prevedevamo.
Certo, prevedevamo anche che Bersani potesse vincere le elezioni - più che prevederlo io losperavo – e Bersani le elezioni le ha perse. Quindi stavolta voterò Renzi (alle elezioni, non alle primarie), e spero che vinca. Magari non passerò il tempo a spiegare tutte le cose che non mi piacciono di lui. Le ho scritte tutte qui stavolta, così per un bel po’ siamo a posto. http://leonardo.blogspot.com
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A cosa serve lasciarvi morire

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Il reato di clandestinità a qualcosa serve. Non a eliminare i clandestini (anzi li aumenta), non a risolvere la complicata situazioni delle carceri (che anzi stanno scoppiando, e che hanno attirato l'attenzione delle Corte europea dei diritti dell'uomo). Non a ridurre la microcriminalità; non a dissuadere profughi provenienti da situazioni comunque più disperate, non a evitare che i trafficanti li stivino sui barconi e li lascino alla deriva; non a salvare vite nel Mediterraneo. Il reato di clandestinità non serve a nulla di tutto questo.

Eppure a qualcosa serve: altrimenti Bossi e Fini non ci avrebbero messo la firma, e oggi Beppe Grillo non lo difenderebbe. Il reato di clandestinità serve a vincere le elezioni.  Grillo è persona abbastanza intelligente e pratica per sapere che la criminalizzazione dei profughi non ha nessun'altra utilità, e molti effetti collaterali. Ma tanto gli basta, evidentemente. Nel suo blog lo ha scritto a chiare lettere: se il M5S avesse in campagna elettorale proposto l'abolizione del reato di clandestinità, "avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico". Più in là Grillo abbozza l'idea che abolirlo equivalga a inviare un invito "a tutti gli emigranti", che come è noto prima di imbarcarsi danno sempre un'occhiata all'evoluzione della legislazione italiana in materia. È una scemenza a cui non crede lui per primo.

(continua sull'Unita.it)

L’unica vera ragione per salvare il reato di clandestinità l’ha scritta sopra: il M5S non vuole percentuali da prefisso telefonico, il M5S vuole anzi fare il pieno di voti, e non può rinunciare a quella ghiotta fetta di consenso che si ottiene cavalcando un po’ di xenofobia. Magari non è giusto, ma è quello che vuole la gente, e Grillo e Casaleggio lo sanno senza bisogno di astruse piattaforme: è il loro intuito politico l’unico “sistema operativo” del M5S, e se si butta un po’ a destra non è per capriccio né per cattiveria: è proprio che per vincere i voti si devono prendere lì. Grillo ce lo ha sempre detto, che se non ci fosse lui ci sarebbe Alba Dorata: dunque ogni tanto gli toccherà abbozzare qualche passo dell’oca; niente di personale, è solo una questione di target. Ah, nel frattempo altri profughi potrebbero annegare a pochi metri delle coste. Diciamo che la loro vita non è una priorità.
La priorità di Grillo, per esempio, è vincere le prossime elezioni, costi quel che costi. È una notizia; quando mandò a monte la trattativa col PD sembrava rassegnato a una lunga traversata nel deserto. Adesso invece ha fretta, ed è disposto a compromessi che fino a qualche tempo fa lo avrebbero fatto pubblicamente inorridire: difendere la Bossi-Fini, mantenere il sistema elettorale che ha sempre voluto modificare, ignorare la tragedia delle carceri italiane che tempo fa denunciava. Il fine giustificherà tutti questi mezzi? http://leonardo.blogspot

(Questo è il duecentesimo pezzo che scrivo per l'Unità. Niente, così, giusto per dirvelo. Il mondo non sembra molto migliorato in questi quattro anni. Magari è solo una coincidenza).
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Ehi, Grillo, la piattaforma?

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Come andò alle Quirinarie, un grande esempio di democrazia diretta (elaborazione grafica di Paolo Viglione)

Non posso che dare ragione a Claudio Messora, portavoce del M5S quando se la prende coi parlamentari transfughi del MoVimento che hanno già affermato di voler votare stamattina la fiducia al governo Letta: Non dovrebbe essere, questa, una decisione da prendere solo dopo avere ascoltato quello che ha da dire? Giusto. Purtroppo a quel punto potrei girare la stessa obiezione a Messora stesso, che sembra dare per scontato che i parlamentari M5S invece voteranno contro: non dovrebbe essere, questa, una decisione da prendere solo dopo avere ascoltato quello che ha da dire? Anche Grillo in questi giorni sembra piuttosto sicuro che si debba andare alle elezioni: non dovrebbe essere, questa, una decisione da prendere dopo aver consultato gli elettori? Mi sembrava di aver capito che il MoVimento avesse molto a cuore la questione della rappresentanza, al punto da mettere in discussione la costituzione là dove nega un vincolo di mandato per i parlamentari; a questo punto però vorrei che Messora o Grillo mi spiegassero: come fanno a essere sicuri che chi ha votato M5S in febbraio desideri una crisi di governo proprio oggi, e le urne al più presto? Con tutto quello che implica (impossibilità di intervenire su imu e iva, persistenza del porcellum...) No, sul serio, come fanno? Sondaggi? E perché non li pubblicano?

Oppure basta dare un'occhiata veloce ai commenti sul blog, anche se poi Grillo non risponde mai? Ma il migliaio di persone che ha tempo da perdere per commentare lì o su facebook non è necessariamente un buon campione statistico. E allora, davvero, io non mi stupisco che sia Grillo a dettare la linea, e Messora a ripeterla per chi si era distratto, da bravo capoclasse: ogni partito ha un minimo di struttura, di gerarchia, anche se si chiama movimento e ha un non-statuto con un non-leader. L'unica cosa che non capisco è come fa Grillo a sapere sempre qual è la volontà dei suoi elettori... (continua sull'unità.it, H1t#199)

Mi torna sempre in mente quel che successe con le quirinarie, ve le ricordate? Per decidere chi candidare, il Movimento 5 Stelle propose un sondaggio on line. Ottimo. In realtà il sistema si intasò subito e fu necessario ripetere l’operazione, ma lasciamo perdere. Ricordiamo i numeri: alle ultime elezioni hanno votato il M5S 8 milioni e quasi 700.000 elettori, su 34 milioni di italiani recatisi alle urne (gli aventi diritto erano 50 milioni e 450.000). Su questi otto milioni abbondanti, erano ammessi a votare alle Quirinarie soltanto quelli che erano iscritti al M5S più di un anno fa, quasi cinquantamila: neanche lo 0,6 per cento, sei elettori ogni mille. Forse a causa dei disguidi telematici, ci fu un’astensione piuttosto alta, e votarono appena in 28.518 (la fonte è il sito di Beppe Grillo, non vedo perché diffidare), lo 0,32 % degli elettori M5S, lo 0,08% degli elettori in generale, lo 0,05 degli aventi diritto. Vinse la Gabanelli con neanche seimila voti, ma decise di rifiutare la candidatura, e così Gino Strada. Subentrò Rodotà con 4677 voti. Grillo si arrabbia molto quando i sondaggi di Ballarò gli dicono cose che non gli piacciono, ma chiedere a trentamila persone di esprimersi su quello che pensano otto milioni di elettori, che altro è se non un sondaggio, anche un po’ maldestro?
Eppure Grillo e Casaleggio sembrano sicuri che la democrazia diretta sia dietro l’angolo, e Messora conferma:
E’ venuto il tempo di cambiare sistema, di riappropriarsi di se stessi e della propria capacità di decidere. E’ venuto il tempo di restituire il potere decisionale alle uniche intese che possano definirsi davvero larghe: quelle che coinvolgono tutti i cittadini, utilizzando processi e metodi che 65 anni fa non erano disponibili.
Quando ho letto questa cosa mi sono detto: ci siamo, sta per presentare agli attivisti M5S e al mondo la piattaforma di condivisione che finalmente ci restituirà il potere decisionale. 65 anni fa non si poteva; per la verità non si poteva neanche in aprile, ma… adesso sì. Vai, Messora, facci sognare.
Se possono mettersi d’accordo 50 persone nel chiuso di un palazzo, allora possono farlo anche 50mila persone all’aperto. I modi esistono già: consentono di informarsi attraverso la rete, delegare a chi si ritiene competente in materia, ritirare la propria delega, riassegnarla, riprenderla in mano.
Confesso che non ho capito. Dovremmo periodicamente confermare la fiducia al parlamentare che eleggiamo? “I modi esistono già”, scrive; cioè sono già stati adoperati? Quando, dove, con che risultati? Insomma, cari Messora, Grillo, Casaleggio: lo abbiamo capito, voi credete che la democrazia diretta sia possibile, o meglio che le nuove tecnologie rendano possibile una forma più diretta di democrazia. Bene. Io posso essere un po’ scettico, ma a questo punto ho solo una domanda: perché non ce la fate vedere? In altre parole: la benedetta piattaforma per la politica duepuntozero, dov’è? Chi ci sta lavorando? Quando sarà pronta? Come funzionerà? Nel frattempo, con che faccia protestate contro i sondaggi, o date lezioni di democrazia? http://leonardo.blogspot.com
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Non togliete gli spot a Rai YoYo

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Cara Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, forse a tutt'oggi non hai ancora finito di esaminare la bozza del contratto di servizio tra ministero dello Sviluppo Economico e tv pubblica per il triennio 2013-2015. Tra le varie proposte, molto interessanti, c'è quella di eliminare le interruzioni pubblicitarie durante le trasmissioni per bambini di età prescolare. Il che significa che uno dei canali rai digitale di maggior successo, Rai YoYo, tra qualche mese potrebbe andare in onda senza più pubblicità.

Cara Commissione parlamentare, benché il tuo parere non sia vincolante, ti chiedo di pensarci seriamente, e te lo chiedo da genitore di prole in età pre-scolare: sulla carta trasformare Rai YoYo nell'unico canale senza pubblicità di tutto l'etere può sembrare una cosa buona e giusta - e pazienza per quei dieci milioni d'euro all'anno che la Rai perderebbe, bruscolini. La pubblicità è fastidiosa, sobilla appetiti e capricci; e poi i bambini a quell'età sono autentiche spugne, memorizzano gli slogan e li sputano fuori al parco mentre litigano per questioni di priorità intorno all'altalena. E tuttavia sento di interpretare un sentimento diffuso quando ti imploro di non togliere la pubblicità a Rai YoYo. Non è molto evasiva; ci offre un diversivo, un'occasione per accompagnare la creatura al vasino (e magari per cambiare canale in modo non troppo violento). Ma soprattutto è praticamente l'unica cosa che rende Rai YoYo diversa da un dvd di Peppa Pig in rotazione da due anni. Almeno nella pubblicità i prodotti ogni tanto cambiano.

Le puntate di Peppa invece no, sono le stesse tutti i giorni. Da anni. A dire il vero l'estate era iniziata con un grande annuncio: sta arrivando l'ultima serie di Peppa! Sì, quella che su internet chiunque è in grado di scaricare in inglese, a settembre sarà in italiano su Rai YoYo! L'attesa era grande, soprattutto tra i genitori che al sessantesimo passaggio delle stesse puntate si esprimono ormai per citazioni di Peppa Pig. Basta frequentare un po' il parco per rendersene conto... (continua sull'Unita.it, H1t#198).

Basta frequentare un po’ il parco per rendersene conto: non saltate nelle pozzanghere di fango. Non è affatto divertente. Gr, gr, dinosauro. E via dicendo. Ma è la stessa cosa nella sala d’aspetto del pediatra, nel parcheggio dell’asilo, e in tanti altri spazi che i dialoghi di Peppa Pig stanno infestando come spettri. Un enorme esperimento sociale, questo sta diventando Peppa Pig in Italia. Al di là dei pregi del cartone, che è simpatico e ricco di humour, il fatto che Rai YoYo decida scientemente di non mandare in onda altro per ore intere avrà forse ripercussioni su un’intera generazione. Ah, due settimane fa la serie nuova è uscita davvero. Purtroppo siamo anche stati contestualmente avvisati che da lì in poi Peppa avrebbe occupato la fascia serale con una striscia di UN’ORA E TRENTACINQUE MINUTI. Considerate che gli episodi di Peppa ne durano cinque. Che una serie consta di cinquanta episodi. E insomma, due giorni dopo anche la terza serie era già alle repliche, e stiamo già cominciando a impararla a memoria. Per fortuna che ogni tanto c’è un spot di merendine.
Ma questa non è l’unica grande novità di Rai YoYo per la stagione 2013/14. L’altra è… Peppa Pig in inglese, a metà mattina, subito dopo le puntate di Peppa Pig in italiano. Non male come idea, e a questo punto mi sento di avanzare altre proposte per allungare il brodo in modo educativo. Perché non Peppa Pig in inglese ma coi sottotitoli in italiano? Seguita dalla versione italiana ma coi sottotitoli in inglese? Peppa Pig muta coi sottotitoli in italiano e poi in inglese? I sottotitoli senza Peppa, per stimolare la memoria visiva del bambino? E poi Peppa in francese, ça va sans dire, e in tedesco, ma ricordiamoci delle minoranze: Peppa in arabo, cinese, urdu, con e senza i sottotitoli, se ne potrebbero imparare di cose con Peppa Pig. Tanto più che se la Rai toglierà gli spot, avanzerà un sacco di spazio per introdurre sempre nuove versioni degli stessi episodi di Peppa Pig.
Oppure, cara commissione di Vigilanza, si potrebbe continuare ad accettare inserzioni dei gormiti e dei parchi acquatici e destinare quei dieci milioni di euro all’acquisto di qualche nuova serie per bambini. Qualcosa che prima o poi possa prendere il posto della maialina, perché il giorno in cui i cinquenni si stancheranno della milionesima replica non è forse lontano, e a quel punto l’esodo su Boing o Cartoonito o qualche altro succedaneo sarà inevitabile: e quel giorno farà ben poca differenza il fatto che quei canali siano farciti di pubblicità e YoYo no.
Un’altra volta magari sarebbe interessante discutere più a lungo del fenomeno Peppa Pig in Italia; uno dei rari casi in cui la Rai ha azzeccato l’acquisto di un prodotto, e invece di valorizzarlo ha deciso di buttarlo via programmandolo in questo modo massiccio, eventualmente chiudendo anche la porta agli inserzionisti. Ma si è fatto tardi, e qualcuno sta gridando che vuole il telecomando. Cara commissione, da un genitore un’ultima, semplice parola: pietà http://leonardo.blogspot.com
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Fateci un fischio

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Non credo di poter parlare a nome degli italiani, in fondo non ne frequento tantissimi. Tuttavia se mi volessi azzardare a riassumere in una frase il loro stato d'animo complessivo verso il 17 settembre 2013, credo che la frase sarebbe "Fateci un fischio".

Perché non è che certe questioni non c'interessino, anzi. Mi piacerebbe, sotto questo aspetto, poter rassicurare i politici che vanno in tv a dibattere, e i giornalisti che l'invitano, e che nessuno guarda più - non spaventatevi. Non è che non ci freghi più nulla della sorte del governo, o di quella di Berlusconi. O di Renzi che dice una cosa di Letta che dice una cosa di Renzi. Sono cose che ci appassionano ancora, però... fateci un fischio, ecco, non vi aspetterete mica che stiamo davanti al video impalati tutte le sere ad assistere al dibattito sul voto palese o sulla commissione. È una cosa senz'altro importante, che avrà ripercussioni sulle nostre vite: però nel frattempo dobbiamo viverle, abbiate pazienza, e fateci un fischio quando succede davvero qualcosa. Quando Berlusconi decade. O quando fissano la data del Congresso PD. O quando cade il governo. Nel frattempo non prendetela se cambiamo canale o se addirittura spegniamo e usciamo: non è niente di personale. Voi pretendete di avere qualcosa da dire tutte le sere, avete l'esigenza di sparare un titolo tutte le mattine, e forse a questo punto nemmeno vi accorgete che non sta succedendo niente, quasi niente, da una ventina di giorni: e che le vostre schermaglie in tv sono più noiose del raddrizzamento della Costa Concordia.

Ma davvero vi sorprende che tre talk show di politica non superino il 5% di share? Sul serio pensavate che mostrare la Santanchè tre volte alla settimana avrebbe funzionato? "Sarò forse malato, ma a me, il duello tra Marco Travaglio e Daniela Santanchè è piaciuto moltissimo: non riuscivo a staccarmi dal video", scrive Telese nella sua "apologia del talk show rissoso e inflazionato". Mi piacerebbe rassicurare anche lui: non è malato (continua sull'Unita.it, H1t#197).

Più probabilmente fa parte di un circuito mediatico molto ristretto, e molto autoreferenziale, che con le risse in tv ci campa, o ci vorrebbe campare. In mancanza di meglio, dal momento che i talk show politici non hanno tolto spazio ad altri programmi “più brutti”, come scrive ancora Telese: si sono fatti spazio nella seconda serata semplicemente perché costano poco, pochissimo. I politici sono una delle rare categorie che in tv ci viene gratis: butta via. Minima spesa massima resa: basta non raccontarsi che si sta facendo informazione, o addirittura una specie di servizio pubblico. Si sta semplicemente allungando il brodo, nella speranza che qualche telespettatore assonnato lo trovi comunque un po’ più saporoso di quello della concorrenza, e scelga di addormentarsi sul divano con la tua rissa in sottofondo.
Non è che la tv non aiuti a vincere o perdere le elezioni. Ma non è tramite i talk show, che storicamente hanno sempre funzionato da sfogatoi per un bacino di utenza che non è mai stato maggioritario. Si può loro riconoscere il (de)merito di avere lanciato sulla ribalta nazionale qualche personaggio, che quasi sempre però si è rivelato più bravo a discutere in tv che a combinare cose in parlamento o altrove (il classico esempio è la Polverini, da una poltrona di Ballarò alla Regione Lazio). L’inflazione di programmi del genere me ne ricorda una analoga a metà anni Novanta, quando Mediaset e TMC cominciarono a dar battaglia sul serio alla Rai in un terreno di gioco molto più ambito: il calcio parlato. Da un anno all’altro la seconda serata si popolò di processi e controprocessi, popolati da personaggi che non rifiutavano di incarnare le più trite opinioni da bar; le moviole della domenica furono rallentate per durare fino al martedì. L’irradiazione di tutte quelle ore di chiacchiere non creò in Italia un solo esperto di calcio in più: allo stesso modo, è difficile immaginare che tutti questi duelli verbali a base di Santanchè e/o Travaglio creino un qualche tipo di consapevolezza nello spettatore. Quel che c’è veramente da sapere ogni giorno si riduce a due o tre titoli accessibili da internet: tutto il resto è chiacchiera. Nessun sagace retroscenista da talk show seppe anticiparci la formazione del governo Letta; nessuno è riuscito mai a intercettare la confessione di almeno uno dei famosi 101 franchi tiratori pd che nel segreto dell’urna non votarono Prodi. I talk show non fanno che portare un po’ di bar in tv, per chi comprensibilmente è troppo stanco per uscire o non può permettersi la consumazione: dieci anni fa si parlava di sport, oggi di politica, non è che faccia tutta questa differenza. Poi ogni tanto succede qualcosa davvero: ecco, per favore, quando succederà fateci un fischio. http://leonardo.blogspot.com
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Difficilis, querulus, laudator temporis acti

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Ma siamo sicuri che sia una tragedia se calano un po' le iscrizioni ai licei classici? In realtà calano anche gli iscritti agli scientifici, ma inevitabilmente si finisce per discutere dei licei classici, e di paventarne la fine, e con essa il crollo della civiltà italiana tutta. Vedi Giorgio Israel sul Messaggero: "Se muore il liceo classico muore il paese". Può anche darsi. Per ora il classico non muore, ha soltanto registrato un calo di iscrizioni a livello nazionale intorno allo 0,6%. È grave? Lo stiamo perdendo? Vogliamo almeno aspettare giugno, e confrontare con il dato dei promossi? Forse l'anno scorso si era iscritto qualche migliaio di studenti in più che a dicembre aveva già capito di aver sbagliato scuola. O magari è la crisi economica che comincia a picchiare davvero, anche sui progetti familiari a lungo termine: se meno famiglie scelgono il liceo (classico o scientifico), è perché non sono più sicure di potersi permettere di mantenere il figlio all'università. Potrebbe trattarsi insomma di una questione economica, ma in rete e sui giornali continuo a leggere allarmi accorati sulla fine della cultura classica  assassinata dal pensiero unico, dalla barbarie tecnoscientifica del 'sapere applicato', eccetera eccetera eccetera.

Chi scrive questo genere di cose continua a difendere la vecchia idea del liceo classico che 'apre la mente', anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre uno status symbol: ci andavano i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l'università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici. Se in qualche realtà - specie in provincia - questo tipo di civiltà stesse tramontando, io non la troverei una cattiva notizia. Sono sicuro che di studenti di materie classiche abbiamo bisogno. Ma non di tantissimi. Anzi, meglio se pochi, ma bravi veramente.

Io non credo che il liceo classico 'apra la mente' più di altri indirizzi di studio (continua sull'Unita.it, H1t#196)

Non capisco in che modo lo studio della grammatica e della letteratura latine o greche riuscirebbero a sviluppare le capacità critiche degli studenti meglio di qualsiasi altra materia. E siccome il mio parere lascia il tempo che trova, scomoderò l’auctoritas del professor Alfonso Traina: “Il latino non è più “logico” di qualunque altra lingua. Tutte le lingue hanno una loro “logica”, cioè un loro sistema: formativo è lo studio contrastivo di sistemi linguistici diversi, della lingua madre, per noi l’italiano, e di una lingua seconda, che può essere il latino come il greco antico o qualunque lingua moderna. È lo studio contrastivo a stimolare la riflessione sui meccanismi del linguaggio, la consapevolezza delle relatività delle categorie grammaticali e delle “visioni del mondo” che vi si esprimono. Anzi, a tale scopo sarebbe forse più utile una lingua geneticamente diversa dall’italiano”(¹).
È vero, molti studenti con la maturità classica ottengono ottimi risultati anche nelle facoltà scientifiche, ma trovo più semplice dedurne che si tratti di alunni brillanti, che avrebbero avuto ottimi risultati in qualsiasi cosa si fossero applicati: il fatto che in Italia li si addestri per cinque anni nella traduzione di testi in lingue morte mi sembra una resistenza culturale, forse uno spreco di risorse e di potenzialità. Non penso che il liceo classico favorisca una qualche forma di eclettismo culturale: mi sembra viceversa un indirizzo di studi molto specifico, da cui in teoria si dovrebbe uscire con competenze già molto raffinate. E ho la sensazione che questo non accada più, perché tutti questi latinisti e grecisti in giro non li vedo – d’accordo, non li vedo perché il mercato del lavoro non ne ha bisogno; ma dopo cinque anni di immersione in un mondo così diverso e affascinante, dovrei almeno sentirli scambiare qualche sentenza in latino ogni tanto, quando scrivono sui blog o sui giornali o quando cercano di colpirti con un detto memorabile in tv. Di solito copiano frasi fatte dai titoli di giornale, Cicerone mai: questo è ben strano. Una volta perlomeno non era così.
Credo che per constatare la crisi irreversibile della cultura classica in Italia – molto prima che il liceo accusasse una flessione di iscrizioni – si possa semplicemente dare un’occhiata alle annate della Gazzetta dello Sport e degli altri quotidiani dello stesso settore. Fino al 1985 nei fondi troveremo latinismi a iosa, se non proprio a vanvera, citazioni omeriche a buon mercato e voli pindarici ogni volta che uno scalatore si aggiudicava la tappa. I cronisti della vecchia scuola il latino lo avevano studiato, qualche volta persino il greco, e in un qualche modo erano riusciti a rivenderlo. La generazione successiva non si è mai permessa di scomodare l’Iliade per parlare delle imprese di un centravanti. Forse erano preoccupati di non arrivare al lettore medio? Ma nel frattempo la base dei lettori si era persino ristretta. Comunque è gente che ha sopratutto bisogno di foto grosse e didascalie molto chiare. Il giornalismo sportivo campa da sempre di frasi fatte e retorica a buon mercato: fino a 25 anni fa li rubacchiava anche dalle pagine dei classici, poi ha smesso. Non ci sono più aitanti e indomiti centromediani metodisti, adesso sono tutti top player. Questo non è il motivo per cui il liceo classico è in crisi: diciamo che è un sintomo suggestivo. Può darsi che al classico il latino e il greco si continuino a studiare bene come in passato. La differenza è che non escono più da porte e finestre, verso la piazza; non investono più i lettori casuali che ancora nel 1968 imparavano a dire “Timeo Danaos et dona ferentes” perché lo avevano letto su un fumetto di Asterix(²). È un processo lungo, e oltre a stracciarsi le vesti, i nostri esperti di scuola e didattica potrebbero riflettere sulle implicazionidi aver tolto la storia antica dalla secondaria inferiore: il tredicenne che oggi deve scegliere tra un liceo o un istituto, il più delle volte non sa chi sia Giulio Cesare; pretendere che si innamori del latino così, di punto in bianco, forse è un po’ ingiusto. http://leonardo.blogspot.com
(¹) Latino perché? Latino per chi?, “Nuova Paideia”, II, 5, 1983, poi in Traina-Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, 1992. Anche se prosegue così: “Ma proprio perché il latino non è che una fase antica dell’italiano, ci aiuta a renderci conto dello strumento linguistico che usiamo. E al limite, a usarlo meglio”.
(²) Asterix il legionario, Milano 1968.
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Il Partito del Mattone colpisce ancora

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L'abolizione dell'Imu è soltanto un regalo di Letta al suo alleato capriccioso che ha minacciato la crisi tutta l'estate? Un espediente per tenersi in equilibrio ancora per qualche mese? In tanti sembrano pensarla così, forse un po' vittima del partito preso per cui qualsiasi cosa faccia il PD deve in qualche modo essere dettata dall'autolesionismo. Non dico che si tratti soltanto di un pregiudizio, ma ogni tanto si potrebbe anche provare a usare un paio di lenti diverse. Soprattutto dopo aver visto l'affettuosa accoglienza riservata al giovane Letta al meeting di Rimini: segno che qualcuno a cui piace questo governo evidentemente c'è, e non sono zone necessariamente marginali. Certi giorni, è vero, sembra che Letta stia sospeso sul nulla semplicemente perché non soffia un filo di vento; ma forse ci sbagliamo, forse sotto c'è qualcosa che non vediamo ancora bene o che ci rifiutiamo di osservare.

Proviamo a metterla così: in Italia esiste un insieme vasto di elettori - una volta si diceva "classe sociale", ma suona così retrò - accomunati non dal reddito o dall'ideologia, ma dal mattone. Possiedono case, e spesso nient'altro. Per 40 anni a questi padroncini è stato raccontato che sarebbe andato tutto bene: che la lira poteva svalutarsi a tre zeri, ma il mattone sarebbe rimasto sicuro al suo posto, la vera risorsa aurea della nazione. Per 40 anni hanno messo da parte per i figli non libretti di risparmio, non depositi-titoli, ma villette e appartamenti. Per 40 anni hanno scommesso sul cemento, incoraggiati dalle banche, benedetti dai politici. E adesso è finita. Quello che fino a cinque o sei anni fa sembrava meno plausibile dell'apocalisse Maya - la contrazione del mercato immobiliare - è davanti agli occhi di tutti, e forse il primo ad averlo capito fu Berlusconi, già nella campagna del 2006: quello era il vero centro su cui puntare, non le alchimie terziste di Casini o Rutelli; il ventre molle dei padroncini di case (continua sull'Unita.it, H1t#195)

“Abolirò l’ICI”, disse in tv, recuperando cinque punti secchi su Prodi che poi in effetti provò ad abolirla anche lui. Demagogia, senza dubbio, ma non campata in aria, bensì puntata su un obiettivo preciso: caro padroncino di casa, lo so, ti hanno fregato. Hai lavorato per tutta la vita per un terzo piano che non ti restituirà mai gli interessi del mutuo: oppure hai appena ereditato una casetta in un quartiere dove ormai accettano di vivere soltanto immigrati dal sud del mondo; sei stato fregato, evidentemente, ma non da me: io non ti lascio solo. No, non posso fare nulla per ridare valore al frutto della fatica tua o dei tuoi genitori, ma… ti tolgo la tassa. I soldi verrà comunque a prenderteli qualcun altro, magari un sindaco cattivo di qualche altro partito, non io. Io ti voglio bene. Tutto qui, però con Berlusconi funzionava.
Ma perché non dovrebbe funzionare anche con Enrico Letta? Mentre il vecchio capo prosegue la sua lenta spirale discendente, tormentato da magistrati e lacché e incapace di trovare un successore all’altezza – se li è mangiati tutti per strada – il giovane premier manda a dire ai padroncini che quel posto potrebbe benissimo ereditarlo lui. Illuminante una risposta di Franceschini, oggi, a Repubblica: “Secondo lei una famiglia con reddito basso e senza lavoro se le togli una tassa sulla casa in cui abita non dice grazie anche se è di sinistra?” Insomma l’unico proletario che interessa a Franceschini è quello magari senza lavoro, ma con almeno quattro muri di proprietà. Il Pd di Letta, sospinto suo malgrado verso il baricentro dell’offerta politica, mentre gli elettori continuano a spingere verso le estremità – Grillo da una parte, Berlusconi dall’altra – gioca la carta del partito trasversale del Mattone, e prova a rivendersi ai padroncini che magari fino a paio d’anni fa votavano Berlusconi, ma che non hanno ragioni di seguirlo nella sua lotta col fango contro i magistrati. Tutto quel che vogliono è non sborsare del loro per quel fardello di cemento che hanno al collo: che problema c’è? Via la tassa: al massimo si ritoccherà l’IVA, pagherà un po’ di più qualcun altro, e via che si va. Forse se il Pd di Bersani avesse vinto, se fosse riuscito a individuare e puntare su un blocco sociale diverso, ci saremmo almeno risparmiati almeno questa presa in giro. Ma Bersani ha perso, già. http://leonardo.blogspot.com
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L'imbarazzo dello spettatore occidentale

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Davanti alle immagini dell'Egitto, il nostro disagio di spettatori occidentali è un po' più imbarazzato del solito - anche se magari non siamo quelli così imprudenti da aver prenotato a Sharm. C'è che stavolta sentiamo che non sarà facile recitare la parte che ci piace di più, quella delle anime belle e solidali che piangono con le vittime e gridano vergogna, e poi magari per qualche mese indossano un nastro - per la Birmania era rosso, per l'Iran verde, per l'Egitto non ci sarà, perché c'è un limite persino all'ipocrisia. C'è che stavolta non ammazzano i nostri, mettiamola così. I 'nostri' hanno manifestato il mese scorso: vogliono un Egitto meno islamico e lo vogliamo sicuramente anche noi, siamo laici. Quelli che si prendono le mitragliate dagli elicotteri invece sono islamici, integralisti, magari anche terroristi, e soprattutto poveri. Se fossimo costretti a scegliere probabilmente sceglieremmo di stare dall'altra parte della mitragliatrice. Fortuna che invece ci basta cambiare canale.

Più di ogni altra cosa noi vorremmo sentirci buoni, e le immagini dal Cairo non ce lo consentono. Vorremmo stare dalla parte dei giusti, e non riusciamo bene a ritrovarla, è seccante. Qualche settimana fa avevamo deciso che stavamo con l'esercito, ma quelli (chi se lo sarebbe aspettato) hanno le armi e le usano. Di solito a questo punto parteggiamo per le vittime, ma sono un po' troppo velati e fanatici, irregimentati da un'organizzazione oscurantista che venerdì li ha adunati in piazza ben sapendo cosa poteva succedere, forse col proposito deliberato di stabilire un nuovo record di martirio di massa da esibire poi in mondovisione.

Forse adesso capiamo come devono essersi sentiti i nostri zii o padri liberali o democristiani quando Pinochet si mise a massacrare comunisti e sindacalisti in Cile: noi abbiamo delle idee, a volte le tiriamo fuori al bar, o sui blog, e per una coincidenza fastidiosa sono le stesse idee con cui si sta coprendo un generale mentre stermina i suoi compatrioti, da qualche altra parte del mondo fortunatamente abbastanza lontana per non sentire gli spari in diretta. Così va la Storia... (continua sull'Unita.it, H1t#194).

 Così va la Storia: noi occidentali la preferiremmo un po’ più pacifica – è veramente scandaloso che ci si scanni ancora per questioni del genere, eppure succede già a ridosso del nostro cortiletto europeo. Noi vorremmo che le elezioni democratiche premiassero sempre i partiti laici e progressisti, ma nei Paesi musulmani succede troppo spesso il contrario; vorremmo che la laicità fosse una bandiera del proletariato, e invece se ne appropriano gli eserciti (un secolo fa in Turchia, negli anni Novanta in Algeria, ieri e oggi in Egitto), mentre la povera gente preferisce farsi guidare dagli imam. Vorremmo che “sinistra” e “destra” avessero il senso che gli diamo in Europa da qualche decennio in qua, perché alla fine è l’unico che comprendiamo, e soprattutto è l’unico in cui riusciamo a trovare un senso morale: da una parte stanno i violenti, i cattivi, i prevaricatori, dall’altra noi. E invece anche stavolta ci ritroviamo i fanatici da una parte e gli stragisti di Stato dall’altra, non è giusto.
Gratta gratta, oltre a tutte le sovrastrutture e i paraventi, quello che ci spingeva ad autoconvocarci a piazza Tahrir (beninteso senza smuovere il sedere dalla postazione internet casalinga) era la cara vecchia solidarietà di classe. Quelli che due anni fa chiedevano più democrazia e meno Mubarak erano esponenti di un ceto medio urbano. Quelli li capivamo, indossavano le nostre stesse magliette e scarpe; gli slogan sui loro cartelloni, opportunamente tradotti, erano gli stessi che avremmo scritto noi. Questi invece che si fanno ammazzare in nome di Morsi e di Allah non li capiamo proprio, e il fatto che possano aver vinto libere elezioni democratiche è incidentale. Forse nel nedio oriente la Storia gira al contrario, o forse è un po’ in ritardo, impantanata tra Vandea e Termidoro: in quei momenti imbarazzanti in cui la borghesia tira giù la maschera, punta l’artiglieria su sanculotti e contadini, e rinnega certe idee estreme come il suffragio universale.
Nel 1976 in Argentina il generale Videla stimò che per “porre fine alla sovversione e all’opposizione politica” e “applicare il piano economico liberista” occorreva disfarsi rapidamente di almeno ottomila oppositori; non c’è che da augurarsi che i generali egiziani abbiano fatto calcoli meno drastici. Forse tra qualche anno l’Egitto sarà un Paese moderno, laico, un faro di progresso per il medio oriente: non vediamo l’ora. Fino a quel momento tocca voltare le spalle e turarsi le orecchie: tanto non è a noi che si chiede aiuto.http://leonardo.blogspot.com
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Tra il Renzi e il fare

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C'è che in agosto la voglia di leggere più in là del titolo è persino inferiore al solito, e così uno al mattino legge "Renzi: prendere voti delusi Pdl" e nemmeno ci clicca sopra. Se ne va in spiaggia e poi, non avendo niente di meglio da pensare, ci riflette: ma che vuol dire?

Apparentemente è chiarissimo: Renzi da qualche parte deve aver detto che vorrebbe prendere voti anche dai delusi del Pdl. Non è una novità, anzi ormai è una rassicurante tradizione: il Papa dice di pensare ai poveri, Berlusconi dice che è onesto, Renzi dice che vuole prendere voti anche ai delusi del Pdl. Sono ritornelli talmente familiari che ormai non ci riflettiamo più. A stento ci ricordiamo che il quadro da qualche mese è cambiato, che il PdL non è più il partito di più di un terzo degli elettori (il 38% nel 2008), ma al massimo di un quinto (il 22% nel 2013). Nel frattempo l'astensione è molto cresciuta, per cui il dato non in percentuale è ancora più impressionante: da dodici milioni di voti a sette, quasi un dimezzamento.

I "delusi del PdL", insomma, se ne sono già andati, e quasi tutti non hanno scelto il PD: M5S e astensione si sono contesi le fette più grosse. Sì, se Renzi avesse vinto le primarie forse sarebbe andato in un modo diverso; non possiamo saperlo, ma soprattutto, Renzi non ha vinto le primarie. Quasi sicuramente vincerà le prossime; ma il rischio a questo punto è quello tipico dei condottieri di eserciti votati alla sconfitta (e il PD ha l'aria di un esercito del genere, non dite di no): prepararsi sempre alla battaglia precedente. Il PdL era la spugna da spremere sei mesi fa, a questo punto è già strizzata al massimo e non può che decomprimersi: per quante possa averne fatte Berlusconi, è difficile immaginarlo sotto una soglia del 15%. E soprattutto, che bisogno c'è di andare a prendere voti fin lì, con tutti i bacini di voti più vicini e comodi da attingere? C'è l'astensione, sia al centro che a sinistra. C'è Grillo che certi elettori sembra voler fare di tutto per perderli... (continua sull'Unita.it, H1t#193)

Ci sono insomma tante opzioni più praticabili che sbilanciarsi a destra – non al centro – ormai chi era al centro se n’è andato da un pezzo: il quinto degli elettori che ha scelto Berlusconi quest’anno è serenamente a destra. Cosa dovrebbe fare Renzi per conquistarli? Qualche battuta sulla Kyenge, pure lui?  Basterà levare l’IMU? Servirà promettere qualche sgravio fiscale, magari ai danni di altre categorie che invece sono deluse dal Pd? O basterà fare qualche sorriso sotto i riflettori? magari è gente che stava con Berlusconi perché sorrideva molto; ultimamente lo fa di meno e quindi sono delusi.
Senz’altro è gente che ha votato Berlusconi fino al marzo 2013: nonostante il fallimento del suo governo, nonostante gli scandali emersi, tra i quali il caso Ruby è il più pittoresco, certo non il più grave. Ma insomma a gente che ha votato un Berlusconi evasore e protettore delle olgettine, Renzi cosa può offrire?
A un certo punto sorge il sospetto che il suo piano per conquistare i delusi del PdL consista esattamente in questo: affermare davanti ai microfoni che li vuole conquistare. Può sembrare un approccio superficiale, ma in fondo in amore e in comunicazione politica le parole sono performative, diventano azioni: non ti amo finché non ho il coraggio di dirti “ti amo”, e non ti conquisto finché davanti ai giornalisti non ammetto che ti voglio conquistare. Va bene.
Ma poi i giornali li leggo anch’io, e il titolo Renzi: prendere voti delusi Pdl dà probabilmente più fastidio a me di quanto piacere non possa dare a un elettore PdL pur sensibile al corteggiamento renziano. È il solito problema, l’antico motivo per cui tanti come me non lo votarono alle primarie: a furia di cercare voti negli altri panieri, uno rischia di perdere i propri. Lo stesso Renzi del resto ne è consapevole, e in questi giorni addirittura è stato rimproverato sul Corriere perché adesso è troppo a sinistra. Mah. Verso sera mi decido a leggere sotto il titolo e scopro che Renzi praticamente ha detto di voler prendere voti da tutti: astensione, grillini, delusi del Pdl. Non è colpa sua se soltanto questi ultimi sono finiti nel titolo. Un’evidente caso di malizia del titolista, insomma. Cosa intendeva fare quest’ultimo? Conquistare un lettore deluso dal Pdl o infastidire un elettore del Pd come me? La seconda, temo.
Un appello a Renzi: va bene, ho capito, vuoi prendere voti un po’ da tutte le parti. È il vecchio mito di Tony Blair (che in realtà vinse anche grazie a un record di astensione). Vuoi vincere conquistando tanti delusi, compresi, perché no? Quelli del PdL. A questo punto, però, forse non vale più la pena di dirlo: fallo e basta. Grazie. http://leonardo.blogspot.com
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Invecchiando assieme

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Caro berlusconiano, compagno di un lungo viaggio:

Noi due ci siamo detestati per troppo tempo per non affezionarci un po'. Tanto più che siamo sulla stessa barca, ci siamo sempre stati, anche prima che subentrasse Letta al comando; e se dovremo affondare, affonderemo assieme. Io - contrariamente a quel che credi - non ti considero uno stupido. Per esempio: secondo me non ci credevi nemmeno tu, che sarebbe scoppiata la guerra civile ai primi d'agosto. Persino nel '43 attesero settembre. Caro berlusconiano. A trenta giorni da tutto quello che succederà, non voglio sfotterti o commiserarti; alla fine sarebbe come sfottere o commiserare me stesso. Preferirei sul serio sedermi accanto a te e riaprire l'album delle foto ricordo, dei bei tempi in cui ci incazzavamo ma ci divertivamo anche parecchio. Per esempio, ti ricordi del vulcano?

Quella volta che i suoi vicini di casa a Porto Rotondo chiamarono i vigili perché sembrava divampato un incendio, e invece stava andando in scena l'eruzione di un vulcano con lapilli, lava finta e tutto quanto? Ecco. Caro berlusconiano che magari apprezzavi l'estro con cui si divertiva il miliardario: ma ci hai mai pensato che quel vulcano glielo hai offerto tu, tutte le volte che hai pagato le tasse e invece lui no? E le cene eleganti. Quante volte ti ho sentito dire che ognuno nel suo tempo libero fa quel che vuole, compreso gestire un harem se se lo può permettere, ecco; Berlusconi decisamente se lo poteva permettere, coi soldi tuoi - sì, anche coi miei, d'accordo - ma hai mai pensato ai tuoi? Quando afferma di non aver mai pagato una donna, in fin dei conti non ha tutti i torti. Gliele hai pagate tu... (continua sull'Unita.it, H1t#192).

 Magari sei pure azionista Mediaset. Ecco, ti ha fregato anche lì. Ti ha nascosto un sacco di soldi che ti spettavano di diritto; li ha nascosti a te in quanto azionista e a te in quanto contribuente. E li ha spesi in vulcani finti, feste, olgettine, e milioni di altre bellissime maniere di passare il tempo a spese mie. E tue. Tue. Berlusconi ti ha fregato, dai. Lo sai benissimo. In cuor tuo l’hai sempre saputo, e gliel’hai perdonato. Non mi è veramente chiaro il perché.
Forse perché anche tu al suo posto avresti fatto lo stesso. Sì. Posso capirlo. Però alla fine della fiera al posto giusto c’era lui, e tu eri nel posto della vacca da mungere. Ti ha spremuto i soldi e poi ti ha chiesto il voto per aiutarlo a depenalizzare il falso in bilancio. E chissà, magari rubacchi anche tu. Succede, non voglio fare il moralista. Magari non dichiari proprio tutto, non fai qualche scontrino, eccetera. Va bene. È un buon motivo per farsi fregare volentieri da un professionista per più di vent’anni? Non lo so, chiedo. Pensa a tutte le volte hai imprecato perché i servizi della tua città lasciavano a desiderare. Le scuole fatiscenti, le forze dell’ordine senza benzina eccetera. E intanto lui non sapeva più dove cacciare i soldi, letteralmente. Li infilava nei cd di Apicella che regalava alle ragazze. No, forse non ci faceva nemmeno sesso, con quelle. Non so in che modo la cosa dovrebbe consolarci.
Caro berlusconiano, ti conosco da tanto tempo, e ancora stai sulla difensiva. Hai sempre paura di essere giudicato, di passare per incolto o stupido. Io non ti considero uno stupido, davvero. Non è la stupidità che ti ha portato a pagare per vent’anni un tizio che per te ha fatto poco o nulla. Non ho mai capito cosa sia, in effetti. Giusto ieri uno psichiatra ha affermato che noi italiani siamo tutti malati di masochismo nascosto. Ecco, questa è una teoria interessante. Spiegherebbe anche il perché invecchiando stiamo diventando così simili, io e te. http://leonardo.blogspot.com
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Chi sono io per giudicarvi, depravati

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Non è che uno debba fare il bastian contrario per forza, anche se sui blog funziona. Se papa Francesco piace a tutti, probabilmente ha ragione lui. Essere simpatici non è una virtù secondaria, specie quando si dirige un'impresa che ha obiettivi universali. Se il tema della povertà funziona, se desta l'interesse del pubblico molto meglio della lotta al relativismo su cui s'impantanò Benedetto XVI, tanto di cappello a chi ha saputo annusare il vento nel momento in cui cambiava. Certo, nel frattempo la Chiesa continua a essere un'organizzazione ricchissima e opacissima, ma bisogna aver pazienza, Roma non si è costruita in un giorno e anche il Vaticano non è che si possa riordinare in pochi mesi. Nel frattempo il papa Francesco parla - che altro dovrebbe fare - e gli basta poco più di un "signori e signore buonasera" per incassare il sostegno di intellettuali e laici insospettabili. Bastava davvero così poco per farsi amico un Cacciari? Una bella faccia sorridente e il bagaglio a mano?

Un papa popolarissimo non è una novità; ne abbiamo già avuto uno per più di vent'anni, e sappiamo che lo status di superstar internazionale non ti rende necessariamente più progressista, anzi. Giovanni Paolo II ha organizzato tante adunate e concerti, e su contraccezione o divorzio o qualsiasi altro argomento non ha ceduto un'unghia. Non c'è dubbio che in giro ci sia tanta, tantissima voglia di un papa rivoluzionario, e di rivoluzione in generale. Che in un momento di crisi generale molti laici aprano un credito a un nuovo pontefice non sorprende, la speranza è merce rara. Che ci voglia credere pure qualche gay è comprensibile, non è che debbano essere tutti per forza militanti laici. Ma che abbocchino gli intellettuali, ecco, questo è triste. In fondo a cosa servono, se non a fare un po' di controcanto, a smontare la retorica che trasforma ogni gesto e parola banale in un'epifania?


Che un papa sappia girare intorno ai concetti fino a trasformare una condanna all'omosessualità in una parola buona sui gay, non sorprende (continua sull'Unità, H1t#191): è un vescovo, un prete, un professionista della comunicazione; possiamo persino ammirare il gesto tecnico, come i tifosi che applaudono quando un avversario fa un dribbling favoloso. Ma possibile che non ci sia stato un solo giornalista, un vaticanista, un filosofo, che di fronte alla domanda retorica “chi sono io per giudicare” non gli abbia risposto con l’unica risposta sensata? Chi sei tu per giudicare? Sei il papa, il vicario di Cristo, ciò che leghi resterà legato, ciò che sciogli resterà sciolto (Matteo 18,18), dietro di te c’è l’emblema del Vaticano con le chiavi del paradiso, che significano appunto che sta a te, all’organizzazione che presiedi, stabilire chi ci va e chi no; e di conseguenza chi va all’inferno e chi no. E siccome un tuo predecessore ha fatto scrivere sul Catechismo che le relazioni omosessuali sono “gravi depravazioni” (2357), “la Tradizione ha sempre dichiarato che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati», sono contrari alla legge naturale, precludono all’atto sessuale il dono della vita, non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale, in nessun caso possono essere approvati”, beh caro Francesco, non schermirti: se non li giudichi tu, allora chi?

Lo so, tecnicamente il giudizio spetta a Cristo, tu più che un giudice sei un avvocato. Però vale la pena di ricordare che la tua linea di difesa prevede che tutti i gay cattolici del mondo si dichiarino casti (2358: “Le persone omosessuali sono chiamate alla castità”). È sempre stato così, non è cambiato niente. Poteva dircelo anche Ratzinger. Ma se ce l’avesse detto il pastore tedesco, con le medesime parole, probabilmente in prima pagina ci sarebbero andati titoli diversi. È così che funziona l’economia della popolarità, ormai lo sappiamo. Magari nel nostro piccolo possiamo provare a opporci. Non per il gusto di fare i bastian contrari per forza. Ma altrimenti a cosa serviamo? http://leonardo.blogspot.com


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Il volenteroso Grillo della Merkel

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A giudicare dalla frequenza con cui appare nei terribili fotomontaggi del blog, si direbbe che Beppe Grillo ha individuato un nuovo nemico: la cancelliera Angela Merkel. Al di là della fisiologica necessità di additare al pubblico sempre nuovi membri di un complotto mondiale che impedisce ai poveri italiani di svalutare e riempirsi le tasche di provvidenziale carta straccia, Grillo e Casaleggio forse vogliono mostrare di aver capito qualcosa che fino a qualche mese non gli era chiaro: gli interessi della Germania non coincidono esattamente coi nostri. La politica del rigore è un buon affare per Berlino, uno pessimo per noi. Perché, non è sempre stato ovvio?

Forse no. Basti ricordare quello che Grillo combinò in aprile. In una delle sue abituali interviste alla stampa estera, nella quale spesso affronta argomenti che persino sul suo blog maneggia con più cautela, invocò sulle pagine del Bild Zeitung una specie di invasione tedesca. Era solo una provocazione, naturalmente. Però forse lo stesso Grillo non aveva capito cosa stava facendo. Il fatto che i giornalisti stranieri siano meno portati a deformare i suoi messaggi - per professionalità o per lontananza dall'oggetto - non significa che siano semplici veicoli neutri, e decisamente il Bild Zeitung non lo è (continua sull'Unita.it, H1t#190)

È un organo ufficioso di quella maggioranza silenziosa che guarda all’Italia e agli altri PIGS come a parenti poveri da disconoscere al più presto, e che alle prossime elezioni federali di settembre probabilmente voterà per la rigorista Merkel o per qualcosa di ancora meno europeista. Annunciare a un pubblico di questo tipo che l’Italia a settembre sarà fallita, come fece Grillo, significa dare una grossa mano alla campagna elettorale della cancelliera. Poi, certo, la si può irridere con un disegnino sul blog. Resta il fatto che, quando si è trattato di parlare all’elettorato della Merkel, l’italiano Grillo abbia scelto di dire più o meno: lasciateci perdere, noi italiani siamo inaffidabili, meriteremmo di essere invasi e comunque falliremo presto. Magari non se n’è accorto subito – Grillo non si accorge sempre subito di tutto quello che combina.
D’altro canto la sua prospettiva era chiara sin d’allora, e Casaleggio nella sua ultima intervista l’ha ribadita: l’Italia fallirà a settembre, ci saranno moti di piazza, locuste, cavallette, eccetera. Chi vende apocalissi un tanto al chilo perché non dovrebbe desiderare che la Merkel vinca le elezioni? Se invece le perdesse, se il fronte europeo del rigore cominciasse a sgretolarsi, la provvidenziale uscita dall’euro si allontanerebbe, e decisamente Grillo e Casaleggio non vogliono questo. Vogliono cantare sul caos, hanno già le cetre accordate, alla fine non c’è da stupirsi se tra una profezia di sventura e l’altra gli capita di fare un po’ di campagna elettorale pro Merkel, pro rigore, contro l’Italia. http://leonardo.blogspot.com
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(Forza)

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Venerdì qualcuno è entrato nella casa bolognese di Alberto Nerazzini, il giornalista di Report. Gli ha portato via attrezzature audio e video professionali, e i computer vecchi e nuovi: e nessun altro oggetto di valore. Sui giornali non se n'è parlato molto - è quasi comprensibile, siamo in crisi di governo, come d'altronde sempre. E poi forse c'è anche una questione di temperamento. Nerazzini è bravo a fare le inchieste, sfido chiunque a dire di no. Può darsi che non sia altrettanto bravo a trasformare sé stesso in una notizia: altri forse al suo posto avrebbero subito forato il video dichiarando cose altisonanti del tipo Non Ci Arrenderemo Mai. Nerazzini si è limitato ad ammettere di aver perso l'archivio degli ultimi anni di lavoro, e che gli ci vorrà del tempo per ricominciare: se gli volevano tagliare le gambe gliele hanno tagliate. In quest'ultimo periodo era tornato a lavorare nella Locride, stava documentando un processo per 'ndrangheta. Però in questi anni, dalla Sicilia della malasanità alla Lombardia delle cliniche d'oro, di nemici se ne dev'essere fatti parecchi (continua sull'Unità.it).

Anche se è un mio amico, non so proprio cosa potrei consigliargli. Posso solo immaginare come ci si deve sentire nel momento in cui qualcuno ti dimostra che può entrare in casa tua quando vuole, e prenderti quello che vuole. Credo che valga la pena di tenere ancora in giro la notizia: c’è un giornalista, un bravo giornalista, che è stato vittima di un gravissimo atto d’intimidazione. E chiedere a chi passa di qui: ricordate quando Annozero faceva dei reportage coi fiocchi? A volte erano cose di Nerazzini. Vi ricordate certi servizi degli ultimi anni di Report che hanno lasciato il segno? Parecchi li ha realizzati Nerazzini. Fin qui non aveva una scorta, e adesso non ha più i microfoni e le videocamere. Fate girare: più gente lo sa meglio è. Di certo nessuno è indispensabile, ma se si ferma lui ci sentiremo tutti un po’ meno informati, un po’ più poveri. Dopodiché potrebbe anche fermarsi per un po’, ne avrebbe il diritto: negli ultimi dieci anni non è stato fermo un attimo, ne ha appena festeggiato quaranta e il suo ultimo lavoro sulla ‘Ndrangheta è stato trasmesso in Ontario, Canada (i boss cominciano ad ammazzarsi anche là). Cuffaro è in prigione, Don Verzè non c’è più, hai nemici in due continenti diversi: ma hai anche tantissimi amici. Forza.
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Gli eterni messaggiatori al PD

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Io non so se facebook e tutto il resto della socialità internettiana stiano diventando "la" realtà, un posto dove riesci a sentire gli Zeitgeist meglio che al bar (ieri al bar si lamentavano della legge elettorale e all'impunità dei ciclisti urbani). Quel che posso dire è che restano un luogo strano, dove i ragionamenti prendono derive assurde e io ieri sera, dalle reazioni sulla mia bacheca, mi ero quasi convinto che ci fosse stato un golpe in Italia. Invece cos'era successo, esattamente? Tutto e niente. Da un punto di vista tecnico, quasi niente: il gruppo parlamentare PdL alla Camera ha chiesto una pausa di riflessione, che gli è stata accordata ed è durata tre ore: nulla che non si possa recuperare. La pausa ufficialmente serviva ai deputati PdL per decidere se restare nella maggioranza o no - cioè se far cadere il governo o no. Su una cosa tanto importante tre ore di riflessione non è che sembrino tante, anche se siamo tutti convinti che la "discussione" nel PdL si esaurisca nell'aspettare una chiamata del boss appena si è chiarito le idee. Ma anche in quel caso tre ore forse non sono abbastanza

Da un punto di vista mediatico è successa una cosa immensa, perché il PdL aveva domandato una sospensione di quattro giorni, un vero e proprio sciopero del parlamento a causa della tempestività con cui la Cassazione aveva fissato una seduta al boss Berlusconi. A parte la pura comicità di un gruppo parlamentare che protesta perché la giustizia sta diventando troppo veloce, la cosa non sta veramente né in cielo né in terra e soprattutto in nessun manuale di Storia di nessuna nazione: il potere legislativo che sciopera contro il potere giudiziario? Che roba è? E che effetto dovrebbe ottenere? Boh. La sospensione era una proposta irricevibile, marziana, e non è stata ottenuta: però per quattro ore comunque la Camera si è fermata e questo è stato interpretato da un sacco di osservatori - sulla mia bacheca, perlomeno - come una concessione del PD al PdL. Cioè è come se i responsabili del PD avessero detto: quattro giorni no, ma quattro ore sì. Non è andata così ma su Facebook mica si raccontano le cose come stanno: si raccontano come la gente le percepisce, e la percezione generale è stata questa: il PD si è inchinato per quattro ore. Questo ci racconta qualcosa più degli utenti Facebook che del PD: la tendenza generale a spiegare ogni evento come fallimento del PD, errore del PD, défaillance del PD, complotto del PD. E a giudicare non tanto il PD dai fatti, ma i fatti in base a quanto ci parlano male del PD. Anche quando, a veder bene, il PD potrebbe persino averne imbroccata una (continua sull'Unita.it, H1t#188).

Infatti, da un punto di vista politico, cos’è successo? Il PdL, con la sua richiesta marziana, ha dimostrato una volta di più di anteporre il destino giudiziario del boss a qualsiasi altra questione ed emergenza – e non è così che si recuperano i voti persi alle ultime elezioni. Il PD, rifiutando uno scontro diretto, ha dimostrato di non vivere nell’ossessione antiberlusconiana: tanto più che la sospensione non avrà alcun effetto sul calendario della Cassazione, la seduta del 30 luglio resta dov’è. L’atteggiamento conciliante ha anche fornito uno strapuntino in più a chi in vista del congresso ha bisogno di far rimarcare la sua diversità, ed è un bene, visto che alla fine delle larghe intese il prossimo candidato PD dovrà recuperare un po’ di voti anche a sinistra. Insomma il gioco di sponda dei renziani o di Civati ci sta. Alla fine, quando si deposita la polvere, probabilmente i sondaggi (che si sbagliano sempre, comunque) non registreranno nessun incremento di voti per il PdL, visto che storicamente Berlusconi non ha mai guadagnato un voto con la sua eterna lagna sui suoi trascorsi giudiziari. Il PD magari si fletterà un po’, ma deve ancora giocarsi l’asso delle primarie e del nuovo leader; e finché i sondaggi stanno al pareggio, il governo non dovrebbe cadere. Insomma la partita va avanti, ma la sensazione è che le carte le stia dando il PD. Questo sembra a me, da quel che leggo in giro. Tranne su facebook, blog e dintorni.
Lì c’è il golpe, la berlusconizzazione definitiva del PD, la morte del PD, il divorzio dal PD, non voterò mai più PD. Citerò Alessandro Gilioli, non perché ce l’abbia con lui – gli rinnovo la stima – ma perché è una firma autorevole ed è rappresentativa di uno stato d’animo molto condiviso sui social network (almeno sui miei profili). Orbene per Gilioli questo è “peggio dei 101 e perfino del governo di larghe intese”, il Pd è diventato “complice attivo dell’eversione berlusconiana”, “è la prima volta che con un voto formale alle Camere il Pd si schiera con Berlusconi e i suoi eversori contro la magistratura” (anche se il voto formale era su un’altra cosa, vabbe’, formalità), “Insomma, si sono santanchizzati”. In mezzo a tutto questo, la Cassazione continua ad aspettare Berlusconi il 30 luglio e il PdL continua a dare la fiducia a un governo Letta: insomma, non è successo niente. Sì, ma il “valore simbolico” è stato enorme… Boh. Chi lo decide il valore simbolico? In base a che parametri? Temo che un evento sia simbolico nella misura in cui dimostra l’assunto che il PD sbaglia tutto. Ovvero: date le premesse (il PD sbaglia sempre tutto), modifichiamo i fatti (il PD non ha acconsentito a un fantomatico sciopero parlamentare) tanto quanto basta a sentire che abbiamo ragione: il PD sbaglia sempre tutto.
Chi non condivide, ovviamente, è un minimizzatore prezzolato. Sarà forse anche il mio caso: sarà che lo choc delle elezioni mi ha desensibilizzato, per cui ormai possono fare la Santanché vicepremier e non sentirei nessun dolore. Però.
Però non ci sto a sembrare il difensore d’ufficio di questo governo, che ha fatto diverse cose che non mi piacciono. Secondo me ce ne sarebbero di cose da discutere: la vergognosa rendition della signora Ablyazov; l’opacità assoluta con la quale si manda avanti il progetto F35 (non tanto per gli aerei in sé, visto che un’aeronautica militare ce la dobbiamo avere; ma non si capisce quale sia l’indirizzo strategico). E anche nel dibattito interno al PD ci sarebbero tante cose che non mi vanno. Ma invece di parlare di tutto questo parliamo dell’enorme vergogna di uno stop tecnico di quattro ore. Mah.
Io vorrei che Berlusconi fosse condannato in via definitiva (se è realmente colpevole); vorrei che il parlamento durasse un altro po’ e cambiasse la legge elettorale; e vorrei che il PD vincesse le prossime elezioni, dando all’Italia un governo di centrosinistra stabile che in Europa facesse fronte comune con altri governi progressisti contro il rigorismo tedesco. La sospensione di ieri non ha allontanato l’eventuale sentenza definitiva; non ha compromesso la legislatura (anzi il contrario) e dal punto di vista elettorale non porta certo acqua al mulino di Berlusconi; però non ha nessuna importanza, perché i miei contatti su facebook hanno capito meglio di me che si tratta della solita mossa falsa del PD. PD che non voteranno, per dare un messaggio al PD. Il PD poi tutti questi messaggi effettivamente li riceve, e si regola di conseguenza (spostandosi sempre più al centro). E tuttavia sembra che non ci sia limite alla quantità di messaggi che bisogna mandare al PD, e all’importanza che assume mandare messaggi al PD, anche rispetto ad altre priorità meno prioritarie, come dare un governo stabile, sottrarsi alla morsa dell’austerità, studiare misure anti-crisi, ecc.. Tutto questo si potrebbe anche fare, dopo. Prima bisogna mandare messaggi al PD. http://leonardo.blogspot.com
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Il pauperismo che avanza

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E insomma i parlamentari M5S hanno restituito solennemente un milione e 570mila euro. Complimenti, grazie. Nel frattempo la maggioranza parlamentare - maggioranza che sarebbe stata ben diversa, se il M5S avesse voluto farne parte, ha deciso di proseguire col programma di ammodernamento dell'aeronautica militare che prevede l'acquisto degli F35. Costi stimati: tra i tredici e i diciotto miliardi di euro (ma dilazionati nei prossimi trent'anni); nel 2012 comunque nel progetto F35 il ministero della Difesa ne ha investiti 548,7. Milioni di euro. Quasi cinquecentocinquanta. Se sottrai il milione e mezzo che hanno restituito i parlamentari M5S (grazie!) fanno comunque cinquecentoquarantasette. Son tanti?

Possono sembrare tanti. D'altro canto costerebbe anche rinunciare agli f35 (dopo averci speso tanti soldi) e continuare a manutenere gli aerei che stiamo usando adesso - insomma, l'argomento è un po' populista. Ma il punto forse è questo. Ragioniamo pure populisticamente. Se gli eletti del M5S avessero voluto - se Grillo avesse voluto - oggi in Italia ci sarebbe una maggioranza PD + SEL + M5S. Una maggioranza di questo genere probabilmente non avrebbe più voluto spendere quei 550 milioni - non adesso, non così. Ma i parlamentari M5S non hanno voluto sporcarsi le mani - Grillo non ha voluto - e quindi ciao ciao cinquecentocinquanta milioni. A questo punto c'è bisogno di dirvi, populisticamente, cosa avreste dovuto fare con la vostra mancetta di un milione e mezzo? Dove avreste potuto destinarla, verso quali organi populisticamente designati? (Continua sull'Unita.it, H1t#187).


E allora a cosa serve restituire i soldi, risparmiare sui trasporti, mostrare gli scontrini? Non è più apparenza che sostanza? A che serve fare i francescani coi nostri soldi, mentre ai vertici si lasciano i generali e gli affarratori professionisti?
A proposito di Francescani, caro papa Francesco: è vero. Un prete su una bella macchina non manda un buon messaggio. Però quel che mi dispiace veramente è che quella macchina l’abbiate presa coi soldi dell’otto per mille di chi non voleva destinarvelo (più del cinquanta per cento dei contribuenti), e non ha barrato la vostra casella; e questo grazie a un meccanismo che fa sì che anche con meno del 40% di moduli compilati a vostro favore vi capiti di incassare l’85%. Non è una fregatura? Secondo me è una fregatura, e lo sarebbe anche se con quei soldi ci compraste tante fiat panda a metano. Certo, se andate in giro in audi la gente mormora di più. È tutto qui il problema? La gente che mormora?
Non andò forse così anche col Francesco originale? Era un periodo turbolento, molti contestavano il potere costituito e minacciavano di non pagare più la decima. In Francia i Catari avevano smesso di riconoscere l’autorità del Papa: troppo potente, troppo ricco, troppo lontano. Bisognava dare un messaggio di vicinanza ai poveri, possibilmente lasciandoli poveri come stavano e senza turbare i rapporti di potere. Così arrivò Francesco, col suo pauperismo benedetto da Stato e Chiesa. Lui si spogliava dei beni, la gente lo seguiva, e smetteva di lagnarsi del Clero esoso. Le teste calde potevano comunque andare alle Crociate – ci andò pure lui. Gran bella invenzione, il pauperismo. Mandi in giro un po’ di gente pulciosa, e la plebe si incanta, e il sacchetto della questua per incanto si rigonfia. Nel medioevo, almeno, andava così.http://leonardo.blogspot.com
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La prof, il copy e la bufala

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Drin Drin

"Pronto".
"Pronto, parlo con la professoressa Firmata?"
"Sì, ma lei chi è, scusi?"
"Sono il padre di Andrea, ha presente?"
"Andrea?"
"Andrea Dignitoso, il suo studente, quello che lavora in pizzeria..."
"Ma chi le ha dato il mio numero?"
"Mi scusi, pensavo che fosse normale in questo periodo per lei ricevere telefonate da parte dei genitori".
"No, guardi, non è normale per niente".
"Ah".
"Tanto più che suo figlio è sotto esame e io sono commissario interno, capisce".
"Ma è proprio per questo..."
"Preferirei che non insistesse".
"Ma è una cosa importante, ne va del suo futuro".
"È meglio che la chiudiamo qui, mi spiace".
"Aspetti. Aspetti un attimo. Non è come crede lei. Mi ascolti solo per dieci secondi".
"Va bene, sentiamo".
"Io vorrei che lei bocciasse mio figlio".
"Prego?"
"Non so se ha sentito il nuovo decreto del governo..."
"Vagamente, ho fatto tardi a scuola".
"I proprietari del ristorante dove Andrea lavora gli hanno assicurato che potevano finalmente assumerlo in maniera stabile grazie alla nuova legge sul lavoro in cui le agevolazioni sono però riservate unicamente a ragazzi senza diploma..."
"Senta, non credo proprio che le cose stiano come dice lei, non ha nessun senso".
"Ma anche sul sito di Beppegrillo è scritto così".
"Ah beh, allora..." (continua sull'Unita.it, H1t#186)

“Ah beh, allora. Comunque non ha nessuna importanza il perché e il percome, lei non può chiedermi questa cosa per telefono”.
“Ma è l’unica possibilità per Andrea di…”
“Di fare il pizzaiolo? Andiamo. Comunque quello che lei sta facendo non ha senso. Non sono mica io che boccio o promuovo i candidati, non è così che funziona“.
“Ah no?”
“Certo che no. C’è una commissione di sette-otto persone, e io sono una sola. Non si ricorda quando l’ha fatta lei la maturità?”
“È… è passato del tempo”.
“Anche se avessi dei numeri, delle pezze d’appoggio per chiedere la sua bocciatura – e non li ho – dovrei convincere queste persone a commettere un falso in atti d’ufficio”.
“Ma se glielo spiega per bene…”
“È uno scherzo, vero?”
“No, non è uno scherzo, è l’unica possibilità per Andrea di…”
“Di fare il pizzaiolo non in nero. Per consentire ad Andrea di realizzare il suo sogno di pizzaiolo regolare io e otto miei colleghi dovremmo commettere un reato. Sta registrando la telefonata, per caso?”
“Io pensavo che a lei stesse a cuore il futuro di Andrea”.
“Auguro ad Andrea un luminoso futuro nel reame della pummarola, però non andrò nel penale per lui. Tanto più che è assolutamente inutile. Se vuole essere bocciato, c’è un sistema molto più semplice”.
“Sì?”
“Non presentarsi all’orale”.
“Ah già, vero”.
“Non mi dica che non ci aveva pensato”.
“No”.
“Lei non è il padre di Andrea”.
“Certo che sono il padre di Andrea”.
“Dev’essere un padre molto distante, che non ha un’idea di come funzioni un esame di maturità. Ci ha parlato negli ultimi due o tre mesi?”
“È sempre molto impegnato… col suo lavoro a nero”.
“Si dice in nero. Da chi ha avuto il mio numero di telefono? Preferirei saperlo da lei piuttosto che mettermi a fare ricerche”.
“Non sto facendo niente di male”.
“Mi sta chiedendo di commettere un reato. Probabilmente sta registrando la telefonata per screditarmi e invalidare l’esame di qualcun altro. Fosse la prima volta che ci provano”.
“Senta, mi deve credere, non sto facendo nulla di tutto questo”.
“D’accordo, facciamo così. Il suo numero ce l’ho in memoria, una controllatina in questura appena ho tempo la farò, se non le spiace…”
“Va bene, va bene, le dirò la verità. Non sono il papà di Andrea. Sono un copywriter”.
“Ah, ecco!”
“Ecco cosa?”
“Ecco perché non si ricorda come è fatta una maturità!”
“Ma no, l’ho data”.
“Sì, sì”.
“Un paio di volte… da privatista… Senta, non volevo istigarla a commettere un reato. Stavo soltanto facendo uno storytelling“.
“Storytelling non è un sostantivo”.
“Eh? Guardi, è una cosa importante… ci abbiamo messo un’ora di lavoro”.
“Accidenti! Facciamo gli straordinari. E il suo “storytelling” prevede insegnanti fessi che si fanno convincere a bocciare i figli da telefonate qualsiasi?”
“Senta, ma lo ha visto il decreto legge? È così surreale che nessuno può essere certo che quanto raccontato non stia capitando o possa capitare da qualche parte in Italia”.
“Io”.
“Io cosa?”
“Io posso essere certa che nessun padre di figlio pizzaiolo, sulla base di un lancio di agenzia che riassume un decreto in poche righe, stia telefonando ai commissari interni per esortarli a commettere un reato bocciando i loro figli. Quando poi domani si scoprirà probabilmente che il decreto dice un’altra cosa, come sempre. Avete buttato via un’ora di lavoro”.
“Io non credo”.
“A chi pensate di darla una storia così? Al Vernacoliere?”
“A tutti i quotidiani, Repubblica, Stampa, Corriere, tutti”.
“Non abboccherà nessuno”.
“Stavolta l’ingenua è lei. Abboccano. È una bella storia, c’è pure la pizza, a chi non piace la pizza. Anche ai bambini”.
“Ma lo sa persino un bambino che per non essere promossi basta non presentarsi”.
“Non dico che ci cascheranno. Ma faranno finta di cascarci. E dopo due giorni ci presenteremo: siamo stati noi, volevamo far presente il problema, ecc ecc.”
“Senta, è vero che il giornalismo italiano è un po’ in disarmo. Ma a questo livello no, non cadranno”.
“Facciamo una scommessa? Hanno la loro ingenuità da coltivare“.
“Va bene, giochiamoci una pizza”.
“Alla bufala”.
“Ovviamente”.
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Piccolo Cesare bavoso

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Silvio Berlusconi è stato tante cose. Negli ultimi anni, tra le altre, un vecchietto bavoso disperatamente intento a dissimulare il proprio decadimento fisico circondandosi di fanciulle graziose e non, maggiorenni e non, disinteressate e non: più probabilmente non. Che per la loro compagnia abbia dovuto promettere e mantenere, insomma pagare, non credo sia materia di discussione: la sentenza arriva a ratificare l'ovvio. Quel che forse la maggior parte degli italiani ancora non sa, o non vuole sapere, è che i soldi per pagare queste graziose signore Silvio Berlusconi li abbia avuti da noi: un lungo drenaggio di risorse mandato avanti durante una trentennale storia di corruzione ed evasione che è materia di processi meno piccanti, ma più cruciali di quello che si è concluso ieri. Si può essere più o meno moralisti, nei confronti di un vecchietto che frequenta compulsivamente prostitute: si può ritenere che sia un suo diritto dissiparsi così, del resto anche il saggio re Salomone eccetera. Ma se lo fa coi nostri soldi, ecco, dispiace un po'... (continua sull'Unità, H1t#184)

Dispiace per i suoi figli, come sempre in questi casi. Non solo quelli legittimi e naturali, ma anche gli eredi politici: anche a loro spettava interdirlo, molto prima che il ridicolo finisse su tutti i telegiornali del mondo. Dispiace per il centrodestra italiano, il più ridicolo d’Europa, costretto ancora oggi a difendere gli sciali di una povero miliardario incapace di intendere, di volere e probabilmente di farsi carezzare gratis. Dispiace per l’Italia, per la sua cultura millenaria che forse non ci aveva ancora presentato una scenetta così patetica, e sì che di imperatori buffi e strani ne abbiamo avuti parecchi: il Berlusconi puttaniere però non ha la follia di Caligola né la grandeur di Nerone, è un povero vecchio bavoso sul quale persino Svetonio farebbe fatica a stendere un paio di pagine interessanti. Dispiace per noi, come sempre alla fine: meritavamo ben altro Cesare, chissà. http://leonardo.blogspot.com
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Sartori e i suoi negri

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A quanto pare Giovanni Sartori si è molto arrabbiato col Corriere che ha pubblicato un suo editoriale, piuttosto critico sul ministro Kyenge, a destra e non a sinistra in prima pagina. Pare che la cosa faccia una certa differenza, presso il popolo dei lettori del Corriere di carta. Sartori perlomeno ci tiene ancora molto: dice che non gli hanno fatto uno sgarbo simile in cinquant'anni. Per quanto questa arrabbiatura possa sembrare assurda, io credo che un osservatore spassionato dovrebbe sforzarsi di capire le persone che provengono da una cultura diversa, anche in via d'estinzione, come quella dei lettori del Corriere di carta. Senza questo tipo di comprensione non v'è tolleranza, e senza tolleranza si sa dove andiamo tutti a finire, per cui desidero esprimere la solidarietà a Giovanni Sartori e invitare la maestranze del Corriere di carta a non pubblicargli più gli articoli nei posti sbagliati. O al limite a non pubblicarglieli proprio, specie quando sono inferiori al suo non mediocre standard.

In effetti, era così difficile rimandare il pezzo al mittente, magari con un invito cortese a licenziare il ghostwriter, o, come lo si chiamava ai suoi tempi, il "negro"? Quell'articolo è una cosa avvilente, che offende per primo l'autore che lo firma, e che andrebbe protetto da un abuso così sconsiderato del proprio cognome. Sartori ce l'ha col ministro Kyenge, va bene; la definisce "nera" tra incomprensibili virgolette, manco fosse una brutta parola o una misteriosa citazione; a parte questo, l'estensore dell'articolo chiaramente non sa molto di Cécile Kyenge; se ha letto la sua biografia si è fermato ai titoli di studio.

"Nata in Congo, si è laureata in Italia in medicina e si è specializzata in oculistica. Cosa ne sa di «integrazione», di ius soli e correlativamente di ius sanguinis? Dubito molto che abbia letto il mio libro Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei"

Il libro in questione, aggiungo io, è di tredici anni fa e su internette lo trovate a meno di otto euro, affrettatevi. Siamo evidentemente ai limiti dell'autoparodia... (continua sull'Unità, h1t#183)

Siamo evidentemente ai limiti dell’autoparodia e Sartori non se la merita: non ha bisogno di farsi le marchette da solo ed è troppo esperto di mondo per non sapere che i titoli di studio non riassumono le esperienze di vita. Una rapidissima occhiata a wikipedia avrebbe aiutato a farsi un’idea più solida su chi sia la Kyenge e su cosa abbia fatto negli ultimi dieci anni nel campo dell’integrazione: da attivista politica, non da ‘tecnica’, una differenza che Sartori o i suoi uomini di fatica sembrano non saper cogliere – così come non sembrano aver chiaro in cosa consistano le proposte della Kyenge, che non ha mai parlato di ius soli puro. Lo ha ribadito più volte: non è favore di uno ius soli puro. Chissà, forse scrivendolo molto in grosso, per chi comincia ad avere problemi di vista e non va per questo escluso dal dibattito (ci vuole tolleranza):

Cécile Kyenge non vuole applicare lo ius soli puro.


è più chiaro adesso?


Tutto il pezzo del resto sembra scritto, più che da un ghostwriter, da un nemico del professor Sartori deciso a fargli recitare la parte del vecchietto bilioso e fuori del mondo, intento a distruggere improbabili feticci (“il terzomondialismo imperante”?) con vertici di comicità che è difficile immaginare involontaria. Sul serio il prof. Sartori può abbassarsi a scrivere “se lo Stato le dà i soldi si compri un dizionarietto”? Sul serio l’autore del fondamentale saggio Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei – € 6,27 (Prezzo di copertina € 13,94 Risparmio € 7,67) può condensare tutte le sue assorte riflessioni sull’argomento nella massima popolare “mogli e buoi dei Paesi tuoi”? Caro autore dell’articolo di Sartori, sul serio: mogli e buoi? Scrivi che l’Italia non è un Paese meticcio; se ne può discutere, ma da quand’è che non entri in una scuola, una fabbrichetta, un bar? Magari per guardare una partita della nazionale? “Quanti sono gli immigrati che battono le strade e che le rendono pericolose?” Più o meno quanti sarebbero gli italiani che le batterebbero al loro posto, visto che la microcriminalità non è particolarmente aumentata. Ostenti disprezzo per “i negozietti da quattro soldi”: è evidente che non hai mai avuto bisogno di fare una spesa rapida sotto casa in certi quartieri; però la libera impresa consiste anche in questo, in migliaia di negozi da quattro soldi con i quali migliaia di famiglie mantengono i figli, provano a far girare l’economia, eccetera. L’Italia non è un Paese sottopopolato, scrivi: magari un occhio alla piramide demografica?
E poi c’è l’India. Non è neanche la prima volta. Evidentemente c’è un collaboratore del prof. Sartori che ha particolarmente a cuore l’India, e cerca di infilarla un po’ in ogni discussione. Con esiti che non sono all’altezza del lato sinistro del Corriere, ma siamo sinceri: anche sul lato destro lasciano perplessi. Sono passati tre anni da quel memorabile fondo che definiva gli indiani «indigeni» come “buddisti e quindi paciosi, pacifici”; in seguito lo studente deve essersi preso una tirata d’orecchi e si è impegnato: ma i risultati sono ancora molto al di sotto della sufficienza. Si continua a considerare il Pakistan una “creazione” britannica: un’idea un po’ eurocentrica, ai limiti della nostalgia coloniale. Alla “signora ministra” viene impartita una mini-lezione sul sultanato di Delhi e sull’impero Moghul: “All’ingrosso, circa un millennio di importante presenza e di dominio islamico”. Prendiamola come un’ammissione: tre anni fa avevamo letto su un fondo firmato da Sartori che in India “le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500″. Ok, non è mai tardi per correggersi, ma il senso adesso qual è? Siccome un millennio di dominazione islamica in una società rurale e castale non ha (non sorprendentemente) portato all’integrazione, ne deduciamo che l’integrazione è impossibile in Italia ora? Tanto vale rinunciare alla democrazia, visto che nel medioevo non siamo riusciti ad averne una. Qui non è solo una questione di nozioni; nessuna persona con una media cultura in Italia potrebbe scrivere una sciocchezza del genere. Viene il sospetto che Sartori stia delocalizzando i suoi collaboratori un po’ troppo. http://leonardo.blogspot.com
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Il semibluff

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C'è un motivo molto semplice per cui il presidenzialismo potrebbe diventare davvero nei prossimi mesi il nuovo obiettivo del PD, chiunque lo dirigerà: un motivo che non coincide con il solito entusiasmo veltroniano, né con una supposta volontà di arrivare a un compromesso col maledettissimo alleato, Silvio Berlusconi. Il PD potrebbe diventare presidenzialista perché solo col presidenzialismo, forse, il PD potrebbe per una volta vincere. Forse. Meglio largheggiare coi forse. Ma non è una coincidenza che di presidenzialismo e doppio turno si riparli dopo il risultato sorprendente del primo turno alle amministrative: un partito che a livello nazionale sembra aver sbagliato tutto, perdendo elezioni già vinte e subendo l'umiliazione di un connubio con Berlusconi che dovrebbe alienargli la simpatia dei suoi elettori più fedeli, a livello locale continua a vincere. Cosa fa la differenza? Lo sappiamo tutti: i candidati.

Il PD ha dei candidati credibili. Non sempre, ma abbastanza spesso da trovarsi in vantaggio. Il PdL ne ha di meno: il suo fondatore non si è mai posto il problema di selezionare o formare personaggi di reale spessore (che avrebbero potuto eclissarlo). Quanto al M5S, ne fa orgogliosamente a meno e rivendica il dilettantismo dei suoi candidati, che spesso restano sconosciuti anche ai concittadini che li dovrebbero votare: e non sempre un comizio di Beppe riesce a metterci una pezza, né Beppe può continuare a comiziare dappertutto. Alla fine votare un candidato PD è in molti comuni d'Italia un gesto assai meno faticoso che votare il PD in sé, come entità astratta e ormai piuttosto astrusa, sulla scheda delle elezioni legislative. Il PD ha tanti difetti, ma può contare su facce né troppo nuove né troppo impresentabili. Se solo si potessero votare, anche a livello nazionale, le facce e non gli stemmi... Se poi ci fosse il doppio turno, il candidato PD potrebbe profittare della volatilità dell'elettorato a tendenza M5S, che se costretto con una pistola a tempia a scegliere tra un candidato PdL e uno (non troppo d'apparato) del PD, nella maggioranza dei casi sceglierebbe il secondo. O si asterrebbe, ma l'astensione non è una protesta, è una resa. (Continua sull'Unita.it).

Tutto questo porta quasi necessariamente il PD verso un’idea presidenzialista (o semipresidenzialista, non fa tutta questa differenza) che storicamente proviene da tutt’altra direzione: per molti anni la sostenne solo il Movimento Sociale di Almirante, in isolamento non troppo splendido. Poi piacque a Craxi, e Berlusconi la portò in bicamerale, contentandosi alla fine di scrivere semplicemente “Berlusconi” sullo stemma del suo partito con tanti nomi e una faccia sola. Parte dello scetticismo, a sinistra, è ancora di scuola antifascista: la nostra costituzione non sarà la più bella del mondo, ma la centralità del parlamento ha impedito che un altro uomo solo si ritrovasse al potere. Non ha impedito l’ascesa di Berlusconi, ma in un qualche modo è riuscita a contenerlo: anche per la fortunata circostanza che portò al Quirinale, nel ventennio berlusconiano, tre inquilini non berlusconiani (sarebbe potuto andare molto peggio). Se Berlusconi avesse vinto un’elezione presidenziale in quegli anni – e i numeri per vincerla li aveva – si sarebbe trovato investito di un potere assai maggiore di quello che esercitò tra il 2001 e il 2006 e tra il 2008 e il 2011. È difficile immaginare che si sarebbe dimesso da solo due anni fa, nel furibondo autunno dello spread.
Ci sono poi ovviamente presidenzialisti seri, che hanno sostenuto questa idea in tempi non sospetti, e con argomenti non banali. È vero che un parlamento ‘liberato’ dalla necessità di sostenere il premier potrebbe diventare un luogo più produttivo. Ma è difficile immaginare in Italia un cosa come la coabitazione, che anche in Francia è passata di moda da quando si è fatto coincidere il mandato presidenziale con quello parlamentare. Nei fatti un presidente già dotato di grandi poteri, e legittimato da un’elezione diretta (sebbene a doppio turno) potrebbe contare anche su un parlamento compiacente. È un’idea che può affascinare solo chi ha la sensazione di poter vincere, nel momento in cui le personalità del M5S sono ancora allo stato larvale e Berlusconi sembra un po’ spompato – ma è dieci anni che sembra spompato, ed è già sopravvissuto a tre segretari PD. È quasi un bluff: il PD le ha sbagliate quasi tutte, ma se si gioca la carta carisma, forse Renzi (o Letta) possono ribaltare il tavolo. Forse. Forse. Ma è una tattica a cortissimo termine, che nel lungo periodo rischia di lasciarci un sistema fortemente squilibrato, fin troppo adatto alle pulsioni populiste degli italiani, alla loro tormentosa ricerca dell’Uomo Forte. Se almeno fossimo bravi a trovarlo, quest’Uomo: ma da Crispi a Mussolini, da Craxi a Berlusconi a Grillo, sembriamo sempre più affascinati da personaggi che in altri Paesi avrebbero fatto carriera giusto nell’avanspettacolo.http://leonardo.blogspot.com
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Il terremoto e le palle di Grillo

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(Stasera, 29 maggio, alle 21 sono al Mattatoio di Carpi, un posto che ha rischiato di chiudere e invece è bello aperto, a leggere pezzi della Scossa, un libretto che ho scritto un anno fa per Chiarelettere).

Il 29 maggio del 2012 fu il giorno più lungo per i terremotati della bassa emiliana, molti dei quali stavano cercando di superare lo shock sperimentato una settimana prima ed erano tornati da poco sul posto di lavoro. Le interminabili scosse tra le nove e le tredici non furono un colpo micidiale soltanto per chiese e capannoni, ma anche per il morale di migliaia di persone. Quello che capimmo il 29 è che non si trattava semplicemente di un terremoto, ma di qualcosa di più lungo e perfido: uno sciame sismico, uno stillicidio di scosse e scossette che poteva rubarci il sonno e la tranquillità ancora per mesi e forse per anni. Proprio come lo sciame del 1570-1574, che aveva terrorizzato Ferrara per più di quattro anni. Quello che facemmo in molti la sera del 29 - piantare una tenda in cortile - nel 1571 lo aveva fatto il duca Alfonso nei giardini estensi. Nulla di nuovo, insomma: quello di Ferrara è uno degli eventi sismici che ci hanno lasciato una più ampia documentazione storica. I documenti, però, ogni tanto qualcuno dovrebbe fare la fatica di andarseli a leggere: sennò restano lettera morta e ci si convince - in barba alle mappe del rischio sismico - di vivere in terre misteriosamente sicure.

Il 29 maggio del 2012 Federica Salsi - consigliere comunale m5s a Bologna, non ancora caduta in disgrazia presso l'entourage di Grillo - segnalava sul suo profilo facebook il vero colpevole dei terremoti in Emilia: il fracking delle compagnie petrolifere in combutta con "Matto Morti". Fonte: un video complottista proveniente da un sito universalmente screditato. La Salsi lo aveva trovato su internet e non si era posta il problema di verificare se effettivamente ci fossero prove di un'attività invasiva come il fracking in Emilia, o in Italia, o in Europa. Fu senz'altro un'imprudenza, da parte di una persona ancora poco esperta di comunicazione. Diverso dovrebbe essere il discorso per Beppe Grillo, che inesperto non è, e che ha avuto tutto il tempo per approfondire il problema - se proprio ci tiene a parlarne. Anche perché nel frattempo è passato un anno e nessuno ancora ha capito o visto dove le compagnie petrolifere avrebbero estratto gas o altro nella bassa emiliana. Negli USA, dove il fracking si fa sul serio, di solito vengono evacuate intere contee.

Nelle dichiarazioni strappate dai giornalisti a Mirandola, e al comizio di Sestri Levante, Grillo ha giocato ancora una volta sull'equivoco tra fracking e stoccaggio di gas. Sono due cose molto diverse: la prima in effetti può provocare scosse - forse anche superiori al grado 5 magnitudo - il secondo no. In ogni caso nella bassa emiliana non risulta né l'una né l'altro (continua sull'Unita.it, H1t#181)

In ogni caso nella bassa emiliana non risulta né l’una né l’altro: è vero che a Rivara la Erg aveva cercato di creare un deposito di stoccaggio, e che il ministero aveva appena dato il via libera alla trivellazione di tre pozzi esplorativi: ma la Regione non aveva ancora dato il via libero definitivo (c’è comunque un’inchiesta in corso). Quanto al fracking, può darsi che in Italia qualche tentativo sia stato fatto: la fisica Maria Rita D’Orsogna, che Grillo citò un anno fa come fonte, ritiene di aver trovato documenti che dimostrano attività simili nelle province di Grosseto, Siena, Foggia e in Sardegna. Di Emilia non parla nemmeno lei.
Ne parlano però gli emiliani, nei bar: c’è chi sostiene persino di avere visto gli americani scappare via e lasciare un enorme accampamento incustodito. C’è chi dice che stanno scavando anche adesso: dove non si sa, ma scavano. Si raccontano tuttora storie enormi, abbiamo avuto un anno per gonfiarle: e Grillo ci ha fatto anche un po’ di campagna elettorale. Almeno ha il buon senso – o la faccia tosta – di ammettere che “non ci sono prove scientifiche”: è tutto un sentito dire, ma lui “ci gioca le palle” che è andata così. Quello che i giornalisti non vi possono dire – perché non ci sono le prove – ve lo dice lui, che di prove non ha mai bisogno. Se in Isvizzera una perforazione ha fatto il 3.6 richter, perché non può essere successo qualcosa del genere in Emilia? Grillo poi non è uno stupido, e probabilmente non gli è ignota l’enorme differenza su una scala logaritmica tra un 3.6 e il 5.9 della botta più forte di un anno fa: ma conosce anche, ahinoi, i suoi polli. Qualche anno fa ci raccontava della pallina che lavava più bianco senza detersivo; del pomodoro geneticamente modificato che secondo lui aveva ucciso 60 ragazzi; della “bufala” dell’Aids, dell’inutilità dei vaccini; di tutta l’energia che rivendeva all’Enel grazie allo strabiliante impianto fotovoltaico che si era messo in casa; tutte queste cose ci ha rivenduto un anno dopo l’altro, senza mai pagarne le conseguenze, perché dovrebbe temere ora per le sue palle o per la sua autorevolezza?
Tanto più che Grillo non fa che raccontarci qualcosa che vogliamo sentirci dire: non siamo una terra sismica. Lo siamo diventati a causa di uomini cattivi (probabilmente americani) e non lo saremo più quando la Gente vincerà le elezioni e li manderà tutti via. A quel punto non ci sarà più bisogno di fare esercitazioni serie e capannoni a regola d’arte, così come non ce n’era bisogno fino a qualche anno fa, perché noi non siamo davvero una terra sismica, è tutto un complotto. Anche i libri di Storia, i terremoti del 1570… è tutta roba vecchia, vecchia, sono tutti morti, morti. http://leonardo.blogspot.com
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Il MoVimento Irresponsabile Italiano

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"Il MoVimento 5 Stelle non è un partito, non intende diventarlo e non può essere costretto a farlo". Così Grillo sul suo blog. L'indignazione è tale che non gli consente di spiegarsi meglio: cosa significa diventare un partito? In che modo il disegno di legge Finocchiaro-Zanda lo obbligherebbe?

Se si tratta di depositare uno statuto, Grillo ci ha già pensato da qualche mese, depositandone uno a Camera e Senato, alla chetichella, lo scorso 18 dicembre. Quando l'Huffington Post ci mise le mani, in piena campagna elettorale, molti gridarono al complotto: Grillo aveva davvero intestato il Movimento a sé stesso e al nipote Enrico, senza informare i seguaci? La realtà era molto più banale: per presentare le liste è necessario depositare uno Statuto, e quindi Grillo ne butto giù uno, in fretta e furia. Non è dunque una questione di forma: uno statuto già c'è e si può benissimo modificare. Il problema non è il passaggio tra "movimento" e "partito": nessuno chiede al M5S di diventare un partito - ammesso che sia definibile la differenza. Il disegno di legge però prevede che il M5S si doti di una personalità giuridica, il che equivale a un'assunzione di responsabilità che nessuno al M5S può accollarsi. Men che meno Beppe Grillo, che non è stato eletto da nessuno: eppure lo statuto depositato lo riconosce titolare del marchio e presidente dell'"Associazione Movimento Cinque Stelle". La responsabilità di quello che l'Associazione dice o fa potrebbe essere sua, ma la responsabilità è la cosa a cui Beppe Grillo tiene meno in assoluto.

Fin qui Grillo ha sempre nascosto la mano dopo ogni sassata (continua sull'Unita.it, H1t#180).

Ha dichiarato davvero alla stampa estera che l’Italia avrebbe dovuto uscire dall’euro? Sì, ma non significa che il M5S sia contro l’Euro: decideranno gli italiani. Con un referendum, ovvio. Qual è la posizione del M5S sui diritti di cittadinanza? Non si sa, decideranno i cittadini. Nel frattempo il M5S non può considerarsi responsabile se sul blog di Beppe Grillo esce un pezzo razzista, che strumentalizza un orribile fatto di cronaca per demonizzare lo ius soli. Probabilmente neanche Grillo ne è responsabile, non lo è nessuno. Sono pezzi che si scrivono da soli, e poi se la gente li commenta non è mica colpa di Grillo o del suo movimento – in ogni caso, decide sempre il popolo. Con una consultazione, magari on line. Purtroppo a queste consultazioni partecipano in pochi, anche rispetto agli elettori m5s, ma questo accade a causa dei malvagi hacker, eccetera.
Grillo minaccia di non presentare il M5S alle prossime elezioni, se il disegno di legge passerà. Mi piacerebbe che almeno stavolta un esponente del M5S gli facesse presente che questo tipo di decisioni non dovrebbero spettare solo a lui: ci vorrebbe almeno una discussione, magari un bel referendum tra iscritti, eccetera. Altrimenti non resta che pensare che le cose stiano proprio come sono scritte nello statuto depositato pro forma il 18 dicembre: il Movimento è roba sua, il marchio è roba sua, e il fatto di presentarlo o no dipende solamente da lui. Si capisce che il ddl Finocchiaro-Zanda non gli piaccia: prevede consultazioni primarie per ogni candidatura, dal sindaco al presidente di regione. Persino il candidato m5s a un eventuale collegio uninominale dovrebbe essere espresso mediante primarie, e non digitali, non per scherzo: primarie vere. Personalmente non sono entusiasta all’idea  di imporre le primarie per legge, ma almeno non sono titolare di un marchio né di un movimento che fa il venti per cento e più. Grillo sì, e non mi stupisce che veda il ddl come fumo negli occhi. Con una regolamentazione del genere probabilmente Favia & co. l’estate scorsa gli avrebbero portato via il M5S bolognese. Tutti immaginiamo che prima o poi il M5S dovrà affrancarsi dal suo creatore, ma magari il creatore trova che sia un po’ troppo presto.
C’è un’altra possibilità: magari è veramente stanco. Magari non è un bluff, e davvero non intende ripresentare il suo marchio. Non cascherà il mondo: i delusi e gli arrabbiati che hanno votato M5S troveranno un altro marchio e un altro imbonitore. Per quel che ha fatto fin qui – salvare Berlusconi e spostare il Pd nel vecchio alveo della Democrazia Cristiana – è difficile immaginare che il prossimo sia peggio. http://leonardo.blogspot.com
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Delenda Cologno XIX

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Mentre aspettiamo una sentenza - l'ennesima - ripetendoci che non è importante, che non cambia nulla, che ci sarà sempre un grado ulteriore o un lodo o qualcos'altro, e che poi la via giudiziaria non è che ci interessi così tanto, non è coi processi che si vincono le battaglie, eccetera... mentre aspettiamo di sapere se Berlusconi farà cadere il governo o no, a questo punto senza nemmeno capire se preferiremmo di no... può essere utile ripassare cos'è l'antiberlusconismo. Perché siamo antiberlusconiani, lo siamo sempre stati, però ultimamente il concetto si è un po' aggrovigliato. La confusione è così grande che abbiamo sentito molti osservatori autorevoli accusare Bersani di aver perso le elezioni a causa del suo antiberlusconismo; e tutto questo mentre un movimento nato dall'antiberlusconismo viscerale e manettaro, un movimento che ha tra le sue parole d'ordine "psiconano" e "al Tappone" e si batte per l'ineleggibilità di B. passava dallo zero al venticinque per cento dei suffragi. E allora? E allora forse esistono tanti antiberlusconismi diversi, e non c'è dubbio che quello di Bersani non sia risultato il vincente.

Esiste un antiberlusconismo morale, anche un po' moralista, che partendo da un assunto sotto sotto reazionario (la decadenza dei costumi, non ci sono più le lucciole, ecc.) prende la figura di Berlusconi e le addossa tutte le responsabilità addossabili. Quando non c'era lui l'Italia era in bianco e nero ma meno sboccata, meno pacchiana, eccetera eccetera (qui il morale vira verso l'estetico: l'altra sera, mentre su canale 5 ci spiegavano di nuovo che Ruby è una pecorella smarrita, su Rai YoYo la fatina della Buona Notte si presentava allo special sulla Festa della Mamma in borghese con tacco 12; non è mica colpa di Berlusconi, però... però certe cose ce le ha portate lui, e adesso non sappiamo più come gestircele, straripano dappertutto, anche in quelle zone che una volta presidiava il Mago Zurlì).

Esiste un antiberlusconismo giudiziario, che in effetti nasce più dalle pagine della cronaca giudiziaria che da quelle politiche; è un fenomeno un po' manettaro, ma almeno ha il pregio di restituire contorni reali al personaggio. Berlusconi può rappresentare tante cose della storia d'Italia, ma quando va alla sbarra è un cittadino come gli altri, che ha commesso alcuni reati. Fin qui sarebbe anche semplice. Il problema è quando ci si sposta sul piano politico. Gli antiberlusconisti giudiziari vagheggiano il giorno in cui un giudice cancellerà B. dalla politica italiana, con un clac di manette o un semplice colpo di martelletto; quel giorno però non arriva mai, e questo li snerva. I più informati probabilmente a questo punto sanno benissimo che non c'è legge sull'ineleggibilità o interdizione dai pubblici uffici che tenga: nessuna legge vieterebbe a B. di continuare a finanziare il suo partito, intestandolo a prestanome o membri della famiglia. A questo punto però l'antiberlusconismo giudiziario è forse prigioniero delle sue cerimonie, dell'attesa del martelletto fatale, della manetta che prima o poi scatterà. È abbastanza improbabile che succeda (se non altro vista l'età dell'imputato), ma nel frattempo l'antiberlusconismo giudiziario continua a vendere bene, in edicola e in libreria.

Esiste un antiberlusconismo agonistico, non mi viene in mente un altro aggettivo con cui definirlo: è l'antiberlusconismo di quelli che B. lo vogliono "battere alle elezioni": sottointeso, ad armi pari. In realtà si sottointende un'enormità... (continua sull'Unita.it, H1t#179).

 In realtà si sottointende un’enormità, perché B. non usa armi legali: ha a disposizione un patrimonio immenso, accumulato con metodi discutibili, come per esempio la corruzione (possiamo dirlo ormai, ci sono le sentenze). Dispone di una corazzata mediatica un po’ ammaccata ma ancora senza rivali per potenza di fuoco in Italia, e lo si è visto in campagna elettorale: B. non è riuscito a vincere, ma riesce ancora ad evitare che vinca qualcun altro. Cosa significa “batterlo alle elezioni”? Con che risorse, visto che lui ne ha di enormi? Con che televisioni? Non si sa, non si è mai capito. Gli antiberlusconiani agonistici sono di solito tipi sportivi, pronti a gettare il cuore oltre all’ostacolo: prima o poi, lasciano intendere, gli italiani tiferanno per loro, ammireranno la loro sportività, il fair play del galletto che sfida la faina al giro dell’aia. Finora son tutti finiti male (Occhetto, Rutelli, Veltroni), però magari questa volta chissà.
Esiste un antiberlusconismo politico, ben rappresentato in parlamento ma abbastanza minoritario nel Paese. Lo professa chi è convinto che Berlusconi, al di là di questa o quella sentenza, sia un vulnus per la democrazia italiana; vulnus però in latino significa ferita: qualcosa che non si rimuove, non si asporta, ma si deve in un qualche modo rimarginare. La politica dovrebbe quindi trovare una via per la riappacificazione tra gli antiberlusconiani e i milioni di persone che in B. hanno continuato a credere per tutto questo tempo, perché poi la politica consiste in questo: nel fare la pace. Sennò è guerra.
Esiste un altro antiberlusconismo, poco conosciuto, che appunto prevede una situazione di guerra civile. I pochi ma affezionati lettori del mio blog lo conoscono con l’espressione Delenda Cologno (Bomb Cologno per gli anglofili). Esso parte da un assunto che tutto sommato condividono tutti gli antiberlusconiani, e ha l’unico torto di trarne le estreme conclusioni: siccome B. è un vulnus per la democrazia, siccome è stato il protagonista non di questo o quel caso giudiziario, ma di una violazione sistematica della nostra costituzione; siccome questa violazione non è l’opera di un singolo uomo, ma di un’azienda che in vent’anni ha caparbiamente difeso una posizione di monopolio evidentemente illegale – non resta che requisire quest’azienda, espellendone la dirigenza. Un atto politico, non giudiziario; preso da leader politici, con il consenso dei loro elettori. Un simile consenso è tutt’altro che fantascienza: basta sommare i risultati elettorali di PD, Sel e M5S per rendersi conto che un fronte antiberlusconiano, in Italia, ci sarebbe. Purtroppo Beppe Grillo ha altre priorità (è molto più ossessionato dalla Rai che da Mediaset), e anche la dirigenza del PD non sembrava entusiasta. Insomma, non dovremmo parlarne più.
Ma io ne parlo ancora. Non sono un antiberlusconiano morale, non credo che sia colpa sua se anche la fatina della buona notte sta sui trampoli con un décolleté innaturale; non sono un manettaro, mi dispiace se in alcuni casi B. ha sfruttato la prostituzione ma non credo che sia questo il vero problema; non sono un antagonista, preferirei che nessun leader gareggiasse con lui in piacioneria o in fundraising o in qualsiasi altra categoria; non credo nella pacificazione, o meglio credo che sia inevitabile, non appena B. sarà in esilio e la sua azienda smontata e rivenduta a imprenditori onesti. Non penso che la mia prospettiva sia realistica, ma ho la sensazione che sia l’unica razionale: ora e sempre, delenda Cologno.http://leonardo.blogspot.com
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Il nostro assai mediocre Belzebù

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Festeggiare la morte di un nemico è sempre di cattivo gusto; se il nemico poi muore molto anziano, nel suo letto (lo si è visto di recente con Mrs Thatcher) è soltanto un po' stupido. C'è stato un periodo in cui Andreotti era il personaggio più simile a un nemico che riuscivamo a trovare nel panorama politico. Erano tempi più tranquilli, di riflusso; ci si arrangiava un po' con quel che c'era ed è finita che ci siamo inventati un Andreotti ben più interessante di quello che probabilmente è morto ieri. Un grande vecchio, burattinaio e tessitore di trame occulte ma chiacchierate un po' ovunque, disponibile al dialogo con qualsiasi potenza demoniaca, inclusa la mafia e il terrorismo, purché non si trattasse di salvare un rivale politico. Ce lo siamo immaginati così, per mancanza di meglio e per presunzione di meritarci un nemico alla nostra altezza, che supponevamo rilevante.

Il tempo ci ha dato torto da un pezzo: Giulio Andreotti probabilmente è stato un nemico molto mediocre. Mediocre la sua azione di governo, che si può sintetizzare in un mesto tirare a campare all'ombra incerta di questo o quella maggioranza; mediocre la sua diplomazia, e il solo fatto che a volte ci si scopra a rimpiangerla dice tutto sul baratro nel quale siamo caduti; mediocre soprattutto il suo personaggio pubblico, in tutti i suoi tentativi pre-berlusconiani di apparire simpatico sui media: le sue battute modeste, le sue comparsate televisive indigeste, il suo cameo in uno di quei pesantissimi film '80 di Sordi che chissà poi se ci meritavamo sul serio. Mediocre la sua prosa, le sue noiosissime rubrichine sull'Europeo e TV Sorrisi e Canzoni (per Beniamino Placido era il peggior scrittore italiano vivente), mediocri i ghost writer che si sceglieva e a cui commissionava brutti libri uno dei quali, Onorevole stia zitto, anticipò la moda degli stupidari: era il blob di tutte le scemenze trascritte in parlamento da Giovanni Giolitti in poi. Sulla carta un'idea geniale, ma davvero troppo in anticipo sui tempi: nessuno aveva ancora pensato di portare in parlamento cappi o mortadelle. E ora vi racconterò una cosa che su wikipedia non c'è: ve lo ricordate Nick Kamen? (Continua sull'Unita.it, H1t#178)

Non c’è da vantarsene, insomma era un modello che in uno spot della Levi’s si era spogliato in mutande ed era diventato un divo musicale per mezza stagione, più in Italia che altrove. Due o tre anni dopo fu premiato dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, a Domenica In. Qualcuno alla presidenza si inventò un premio e glielo fece consegnare, questo me lo ricordo solo io che imperdonabilmente quel giorno ero a casa davanti al televisore. Cosa per cui non so darmi pace, tanto che tuttora ogni volta che penso ad Andreotti non mi viene subito in mente Totò Riina, come a tanti, ma Nick Kamen; la sola idea che un premio a Nick Kamen in fase declinante potesse avvicinare qualche tipo di elettorato a Giulio Andreotti basta e avanza per liquidare una stagione di assoluta mediocrità – ma se preferite immaginarlo al centro di oscure trame atlantiche e trattative Stato-Mafia, se la cosa vi fa sentire più importanti, liberi di farlo. Non sapremo mai come siano andate le cose: a questo punto dipende unicamente da noi scegliere se raccontare la storia di un genio del male travestito da mediocre o viceversa. Per me viceversa.
Possiamo anche cambiare argomento, come si fa ai funerali di gente che non visitavamo da parecchio. Sono passate due settimane, ormai, e ancora non si è capito chi fossero i cento grandi elettori PD che bocciarono Prodi e fecero dimettere Bersani. Forse a questo punto non lo sapremo mai; probabilmente si sommarono tendenze diverse, di gente che magari non aveva capito esattamente la posta in gioco, o puntava su Rodotà, magari in buona fede. E magari davvero c’è ancora qualcuno in parlamento che gioca ancora a dalemiani vs veltroniani, sono vizi difficili da perdere. Nel frattempo però è nato in alcuni un sospetto, cresciuto man mano che il caos iniziale lasciava intravedere una forma sempre più definita: reincarico a Napolitano e grandi intese con Enrico Letta; vuoi vedere che quei cento lo sapessero sin dall’inizio? Vuoi vedere che non si trattasse di un progetto già definito, da menti finissime e tessitori invisibili a qualsiasi retroscenista? Insomma, sta’ a vedere che Enrico Letta è il nuovo Belzebù. Per immaginare una cosa del genere non servono prove, né indizi: basta la voglia di crederci, di immaginare che dietro tutto il casino ci sia un Grande Disegno; qualcosa insomma all’altezza delle nostre pretese, che restano ancora piuttosto in quota. L’alternativa è accettare l’idea di un Paese mediocre, al termine di una fase di espansione effimera, senza guide più che mediocri, e prospettive più profonde di un tirare a campare. Meglio di no, meglio immaginarsi vittima di qualche oscura trama. Ce la meritiamo. Ci meritavamo Andreotti, ci meritiamo Enrico Letta. RIP. http://leonardo.blogspot.com
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Elaborare il PD

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La prima fase è la negazione.
Non è vero che abbiamo perso. Per esempio, alla Camera abbiamo vinto noi, guarda che premio di maggioranza che abbiamo. E comunque siamo il primo partito, nella prima coalizione. Certo, ci aspettavamo un risultato migliore, ma considerata la situazione generale, la crisi, l'antipolitica... Non si può proprio dire che abbiamo perso. Altri hanno perso più di noi.

La seconda fase è la rabbia.
Bersani vaffanculo hai sbagliato tutto. Quei giaguari e quei tacchini. Dimettiti! Ah se c'era Renzi. E poi Grillo, ma che vuole, che pretende. È un nazista! anzi peggio, coi nazisti è più facile regolarsi.

La terza fase è la contrattazione.
Aspetta, possiamo ancora metterci d'accordo. Non abbiamo perso finché possiamo metterci d'accordo. I grillini in fondo sono brava gente... (l'elaborazione continua sull'Unita.it, H1t#177).

Offriamogli un programma di massima e andiamo. Dai che si può fare. Dai che va a finire che rendiamo Berlusconi ineleggibile. Vogliono lo streaming? E diamogli lo streaming, che problema c’è.
La quarta fase è la depressione.
Ma porcaputtana, ma quelli sono veramente ipnotizzati. Danno solo retta al guru. Non li smuovi, non c’è niente da fare. Non c’è più niente da fare. Adesso si va a votare il presidente della repubblica e rimedieremo l’ennesima figura di merda. E poi? Non c’è più niente da fare. Colpa nostra? Può darsi. Anche loro. Anche di tutti. Ma non importa. Ormai non c’è più niente da fare. Governissimo e fine della sinistra.
La quinta fase è l’accettazione.
Ma quindi ci prova Letta? Beh, mica male. Cioè, per un governissimo davvero niente male, non c’è neanche la Gelmini. E niente leghisti, qualcuno sente la mancanza dei leghisti? Mi ero dimenticato quanto sapevano essere felpati i democristiani, nel fotterti, è una cosa impari ad apprezzare col tempo (ora capisco meglio mio padre). E poi ci sono tante donne, un paio non nate in Italia, la Bonino che sta bene su tutto, ma sai che alla fine mi sta simpatica anche la berlusconiana all’agricoltura? Ma sì dai, in fondo è una di famiglia.
E adesso cosa? Ma niente, l’ex Margherita si è presa il PD, Renzi darà una ritinteggiata blairiana e proverà a vincere le prossime elezioni (appena Berlusconi si stancherà o qualche giudice gli causerà problemi o avrà sondaggi abbastanza favorevoli). Nel frattempo magari qualche esponente del PD uscirà e formerà qualcosa di diverso; o confluirà in SEL che potrebbe diventare un partito un po’ più importante. Ma comunque perdente. Quindi, insomma, siamo nella merda. Ma non è la merda peggiore che poteva capitare, abbiamo Enrico Letta a palazzo Chigi. Voglio dire, siamo stati a tanto così da avere suo zio al Quirinale. O peggio.
(L’elaborazione del lutto in cinque fasi è un popolare modello teorico elaborato dalla psichiatra svizzero-americana Elisabeth Kübler-Ross. Io sono già alla quinta fase, e voi?) http://leonardo.blogspot.com
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Grillo, o dell'egemonia

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L'egemonia culturale, scriveva il direttore, ce l'ha chi riesce attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, a imporre i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione. L'egemonia culturale, oggi, nella politica italiana, ce l'ha il Movimento Cinque Stelle. Vale la pena di riconoscerglielo, anche perché è l'unica cosa che ha: non ha la maggioranza, non ha un quotidiano, ha una webradio scalcinata e un sito che si pianta appena c'è un po' di traffico, eppure ce l'ha fatta. Ce l'ha fatta nel momento in cui intorno ai palazzi di Roma è cominciato a risuonare la domanda #RodotàPerchéNo, e non c'era nessuno che riuscisse ad articolare una risposta. E sì che risposte ce n'erano, e avrebbero dovuto essere comprensibili e condivisibili: ma niente da fare, non si sono sentite. L'unica cosa che abbiamo sentito per quattro giorni è stata la domanda: perché no Rodotà? che riecheggerà ancora probabilmente stamattina nei bar, negli uffici e sulle panchine di mezza Italia. Mentre nessuno si farà la domanda, ugualmente interessante: perché Prodi no? Perché a Grillo non andava bene? L'egemonia è tutta qui: si tratta di due domande equivalenti, ma una è sulle bocca di tutti, l'altra rimane una chiacchiera per addetti ai lavori.

Il PD - ammesso esista ancora - ha tanti problemi. Quello della comunicazione non è secondario (continua sull'Unita.it)

È un partito che spende una parte rilevante delle sue risorse per comunicare, e non riesce a evadere dalle narrazioni che gli altri mettono in giro su di lui. Per aver detto in campagna elettorale una semplice cosa di buon senso (non si governa col 51%), Bersani è stato dipinto come l’inciucista alleato di Monti e non è riuscito a scrollarsi di dosso questa immagine in nessun modo. Dopo la sconfitta, mentre tutta l’Italia invocava una soluzione rapida, Bersani veniva deriso a ogni tentativo di dialogo con le controparti; irriso perché non si dimetteva, neanche ci fosse dietro di lui la fila per sedersi su una seggiola su cui  alla fine, chiunque salirà, dovrà reinventare il partito o liquidarlo. Tant’è che già si parla di non accogliere le sue dimissioni: probabilmente ne parlano anche i franchi tiratori che l’altro giorno hanno impallinato Prodi (a proposito, a questo punto ci piacerebbe che si palesassero, e ci spiegassero perché e per chi hanno agito; un minimo di chiarezza sarebbe un atto dovuto, e difficilmente potranno arrecare più danni di quanti ne hanno fatto venerdì).
Il PD – ammesso esista ancora – deve porsi il problema: perché non riesce a condividere i propri punti di vista non dico con la base, ma nemmeno con molti dei suoi dirigenti? Una scelta incomunicabile, perché francamente indigesta (ad esempio la candidatura di Marini) è una scelta ancora praticabile? E se sono gli altri a raccontare la nostra storia, cosa possiamo fare noi per reagire? Qualsiasi cosa sarebbe meglio del silenzio.
Per esempio: prendere il video in cui il Santone, nel suo camper, ci avvisava che votando il suo candidato (in quel momento era ancora la Gabanelli) chissà, forse si sarebbe potuto collaborare, ma sì, perché no. Prendere quei pochi secondi di cialtronaggine totale che nell’immaginario collettivo hanno risvegliato l’idea di un possibile governo PD-M5S, metterli davanti al naso di tutti, elettori del PD e del M5S, tutti, e chiedere: ma voi la comprereste un’auto da un tizio così? Uno che a un colloquio informale pretende di sorvegliare i suoi emissari con la webcam, e poi quando all’ultimo momento vede che ce ne andiamo abbassa il prezzo? Ma non lo vedete che vi sta tirando il pacco? E cosa credete che ci sia nel pacco? Cosa avrebbe fatto poi, un altro sondaggino per nominare i suoi ministri?
Non avremmo convinto tutti, ma era meglio del silenzio. Meglio del povero Orfini catapultato in tutti i programmi perché, per sua ammissione, “non ci voleva andare quasi nessuno”. Certo, se è per questo Grillo non ci manda nessuno, e vince. Se lo può permettere. Si chiama egemonia, purtroppo. Dovremmo saperne qualcosa. http://leonardo.blogspot.com
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Vota anke tu gli Amici di Beppe

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I dieci candidati al Quirinale del Movimento Cinque Stelle sono una notizia. Mostrano che almeno una parte del MoVimento è molto più incline alla collaborazione con il PD dei suoi rappresentanti eletti e dei suoi megafoni. Anche se per la verità ne sappiamo molto meno di quel che sembra.

Per esempio non sappiamo quanti hanno votato davvero, e quanti rivoteranno oggi: i responsabili, chiunque essi siano, non ce l'hanno voluto dire. Il blog di Beppe Grillo viceversa è stato estremamente preciso sul numero degli aventi diritto, gli iscritti al Movimento "al 31 dicembre 2012 con documenti digitalizzati". 48.282. Più o meno gli abitanti di Civitanova Marche. Vale la pena di ricordare che alle ultime elezioni hanno votato per il Movimento 8 milioni e 690mila cittadini italiani: per farci un'idea, sono gli abitanti di tutte le Marche, più tutta la Toscana e quasi tutta l'Emilia-Romagna. Di questi, soltanto uno ogni 180 era ammesso a votare. Parlare di democrazia diretta con questi numeri ha un po' l'aria di una presa in giro.

Ma quanti di questi "ammessi" hanno realmente votato? Sarebbe lecito supporre che lo abbiano fatto quasi tutti, visto che si erano preoccupati per tempo di digitalizzare i documenti. Però Grillo non ce lo vuole dire, il che non è che si presti a molte interpretazioni. O i voti sono stati più numerosi degli aventi diritto - il che invaliderebbe la consultazione, e fornirebbe l'ennesima dimostrazione dell'inettitudine informatica dei leader del M5S - o sono molti meno. Fingiamo comunque che abbiano votato "quasi in cinquantamila", come dice Grillo contraddicendosi da solo, e diamo per buoni i suoi risultati. Anche così, però, non sappiamo quasi nulla. Certo, sappiamo che c'è Prodi (ed è una notizia) accanto a Rodotà e alla Gabanelli; ma non sappiamo quanti voti hanno preso, nemmeno in percentuale. Grillo non ce lo sta dicendo, e non è un piccolo dettaglio (continua sull'Unita.it, H1t#175).


Il talent-show del MoVimento


Chiunque abbia un po’ di dimestichezza coi sondaggi – e una consultazione su un campione di 50.000 persone può essere equiparata a un sondaggio – sa che i risultati non sono mai a pari merito. È cioè altamente improbabile che i dieci vincitori abbiano ottenuto più o meno lo stesso numero di preferenze. Di solito in un sondaggio di questo tipo tre o quattro nomi si spartiscono il grosso della torta, lasciando il seguito alle briciole. Per fare un esempio possiamo guardare i numeri del sondaggio SWG di qualche giorno fa che dava la Bonino in testa (col 16%): dopo di lei veniva Gianni Letta (con la metà dei consensi, l’8%), poi Berlusconi Prodi e Rodotà a pari merito (7%); Monti (5%); Napolitano (4%); la Severino, Zagrebelsky (3%); Grasso e Pera (2%). Questi ultimi sono decimi a pari merito, e con un ottavo dei consensi che aveva la Bonino. C’è una bella differenza. Viene spontaneo immaginare che altrettanta differenza ci sia tra il primo e il decimo classificato nella consultazione M5S, ma Grillo e Casaleggio non ce lo vogliono dire. Magari Prodi ha preso un ottavo dei voti di Imposimato. Magari Grillo straccia tutti al 90%. Magari no. Non si sa. Ma perché non si sa? Chi lo ha stabilito? In che assemblea del MoVimento si è deciso di procedere in questo modo? E c’era lo streaming?
Più che un esperto di democrazia, chiunque abbia deciso di far funzionare le cose in questo modo sembra esperto di talent show: gli unici spettacoli in cui non vengono mai divulgate le percentuali del televoto, per evitare di ammazzare la competizione quando sin dalla prima puntata qualche concorrente comincia a imporsi con l’80%. Il pubblico ha già scelto, ma lo spettacolo deve continuare; e poi chissà, magari tra qualche puntata, con qualche accorgimento degli autori e della regia, il pubblico potrebbe cambiare anche idea. Le “quirinalie” del MoVimento funzionano un po’ così. Oggi si dovrebbe fare il secondo turno, dove chi ha preso magari l’1% se la gioca ancora alla pari con chi ha preso forse il 30%.
Qualcuno lo ha chiamato ballottaggio, ma quest’ultimo di solito soddisfa la banale logica binaria che prevede che il vincitore sia eletto da almeno il 50% più uno degli elettori. Dunque al secondo turno non possono essere ammessi che due contendenti. Se invece ne ammetti dieci, puoi essere ragionevolmente sicuro che nessuno otterrà il 50% più uno. Il vincitore potrebbe essere viceversa incoronato da una percentuale risibile, anche intorno al 15%: meno di settemila voti. Più o meno gli abitanti di Staranzano (Gorizia, hinterland di Monfalcone). Democrazia diretta? Ne siete sicuri? http://leonardo.blogspot.com
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Anonima parlamentari

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Ieri gli iscritti al Movimento 5 Stelle ("al 31 dicembre 2012") hanno votato on line il loro candidato alla presidenza della Repubblica. È solo il primo turno; lunedì avverrà un "ballottaggio" tra i dieci nomi più votati - il che significa che probabilmente il vincitore della competizione non avrà la maggioranza assoluta dei consensi nemmeno tra gli elettori m5s. È comunque un po' presto per fare previsioni: per ora tra i nomi più frequenti sui social network ci sono per lo più persone che hanno fatto altri mestieri (Gino Strada, Milena Gabanelli), figure che ci dicono molto dell'immaginario grillino (la centralità del videogiornalismo, l'antagonismo barricadero) ma che è difficile immaginare realmente candidati al Colle. Va da sé che qualcuno voterà direttamente Beppe Grillo: non ci è dato sapere quanti, né se a Grillo interessi o serva un trampolino del genere. Si vedrà più avanti.

Per adesso è interessante osservare il modo in cui il MoVimento punta, consapevolmente o meno, a una repubblica di fatto presidenziale, aggirando la Costituzione. Non c'è bisogno di abrogarla là dove prevede che il presidente sia nominato dal parlamento; è sufficiente trasformare il parlamento in una semplice assemblea di esecutori della volontà popolare, pronta a esprimersi in ogni momento attraverso sondaggi on line sulla piattaforma del MoVimento. Qualcosa di simile ai "grandi elettori" che vengono eletti dai cittadini americani in occasione delle elezioni presidenziali, e ai quali, salvo imprevisti, non viene chiesto che votare esattamente il candidato indicato dai cittadini. È in questo modo che assume un senso anche la boutade di Grillo sull'aspirazione del M5S a raggiungere "il 100% dei consensi": il MoVimento non è un partito - e infatti coi partiti non dialoga - il MoVimento è la piattaforma in cui in futuro i cittadini voteranno le loro leggi ed eleggeranno i loro rappresentanti, compreso il Presidente, senza passare attraverso i partiti. Anche se per ora la piattaforma non è ancora pronta, Casaleggio ci sta lavorando ma è molto impegnato; comunque adesso si prova a eleggere l'inquilino del Quirinale e vediamo come va.

È curioso notare come Grillo, che accusa gli altri partiti di aver trasformato i parlamentari in "figure di cartone", in sostanza consideri i senatori e i deputati non molto più che pigia-bottoni, dai quali non pretende nessuna competenze o professionalità: e infatti dopo due mandati li vuole fuori dai piedi. Dal suo punto di vista non ha tutti i torti, un pigia-bottoni non diventa più bravo dopo cinque anni passati a pigiare bottoni; può però abituarsi agli ozi romani e farsi fotografare alla buvette (continua sull'Unita.it, H1t#174).

In questo programma di superamento e aggiramento delle istituzioni repubblicane  il MoVimento rivela un certa continuità con il passato che pretende di distruggere, e in particolare il berlusconismo. È berlusconiano il tentativo di trasformare l’Italia in una repubblica presidenziale de facto, mutando le elezioni legislative in referendum sulla sua persona (agli italiani era chiesto di barrare o no una croce sul simbolo “Berlusconi presidente”). È sua in fondo anche la concezione del parlamentare come dipendente, da gratificare minacciare o licenziare, e perché no sostituire con qualche elemento strappato alla concorrenza. A questo modello aziendalista Grillo si è ispirato, sostituendo l’immagine del Boss con quella del popolo: i parlamentari, ci ha spiegato, sono nostri dipendenti: non di Berlusconi (e nemmeno di Bersani), ma nostri. Non ci resta che votare e fidarci di Beppe, che più che megafono in questo momento sembra incarnare la figura di un bizzoso amministratore delegato.
In fondo il grillismo è una delle conseguenze del porcellum, la legge elettorale voluta da Berlusconi e che nessun contendente è mai riuscito a cambiare. Abolendo le preferenze, attribuendo ai vertici di partito la totale responsabilità sui nomi da mettere in lista, il porcellum ha eliminato ogni residua necessità di individuare candidati credibili, radicati in un territorio. Proprio nel momento in cui la fiducia nei confronti dei partiti toccava il punto più basso, questi ultimi hanno tolto l’ultima possibilità per l’elettore di segnalare il proprio disagio nei confronti di un candidato indigesto. Il porcellum ha creato le premesse per il successo di un partito di anonimi pigia-tasto: tra i peones di Grillo e quelli di Berlusconi, abbiamo pensato tutti, magari ci sarebbe stato addirittura un salto di qualità – che finora, purtroppo non si è veduto. Ma in un certo senso il M5S è il partito che meglio di tutti incarna la filosofia del porcellum: non si votano le persone, si vota un simbolino che è proprietà di qualcuno che sceglie per te le persone. Se poi è tanto onesto e gentile da aprire consultazioni on line per comporre le liste, tanto meglio, ma non è che faccia molta differenza: in un modello del genere, il candidato ideale non ha né personalità né dubbi, è un automa autorizzato a pigiare determinati tasti durante determinate votazioni. Fa un po’ paura, ma ha un senso. Potrebbe persino funzionare.
Il partito degli anonimi ha però un punto debole: non può, per definizione, esprimere candidati credibili alle cariche più importanti. Lo si è visto al momento di individuare i presidenti delle camere, e ancor più durante le tragicomiche consultazioni in cui il M5S ha reclamato un incarico di governo senza spiegare chi, in concreto, avrebbe voluto mandare a Palazzo Chigi. Dietro all’enigma surreale c’è una banalissima ammissione di inadeguatezza: il partito di anonimi non ha nessun candidato credibile. Non li ha nemmeno per il Quirinale: Grillo in un primissimo momento aveva buttato lì Dario Fo; pretattica o semplice ingenuità? Non lo sapremo mai: c’è da sperare che i suoi iscritti siano un po’ meno confusi di lui.
Nel frattempo Bersani e Berlusconi negoziano. In discussione non può che esserci la riforma elettorale: tutto il resto potrebbe anche essere rimandato dopo nuove elezioni, ma il porcellum va cambiato, a parole sono d’accordo tutti. Personalmente – per quel che conta – avrei preferito che l’accordo lo avessero fatto Pd e M5S, ma le possibilità erano scarse fin dall’inizio. A questo punto la logica, e la pragmatica, ci suggeriscono che due grandi partiti su tre si mettano d’accordo su una legge elettorale disegnata in modo da sfavorire il terzo. E siccome il terzo è un partito di anonimi, è lecito supporre che la prossima legge rimetterà in primo piano le personalità dei candidati. Sarebbe una buona notizia, credo, persino per molti elettori M5S. http://leonardo.blogspot.com
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10.000 aborti, il Bilderberg e un pazzo scatenato

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Mara Carfagna la vorrebbe al Quirinale. Micaela Biancofiore è d'accordo. Ma la vera notizia è che un terzo degli italiani, secondo un sondaggio IPR Marketing, vorrebbe Emma Bonino presidente della Repubblica. Quattordici anni dopo la campagna "Bonino for president", che portò una lista radicale alle elezioni europee oltre l'otto per cento (record assoluto), la Bonino gode ancora di una capitale di fiducia e di stima che nessun politico di primo piano oggi in Italia potrebbe vantare. Peccato che al Colle non si salga coi sondaggi: ben pochi degli inquilini precedenti avrebbero vinto una simile gara di popolarità. Le possibilità che Emma Bonino non sia anche stavolta un nome da bruciare in fase di pre-tattica sono abbastanza esigue. Ed è un peccato.

Anche chi non nutre particolare simpatia per il personaggio non può negare che la Bonino abbia tutte le carte in regola per aspirare alla prima carica della Repubblica: ha le competenze, un alto senso delle istituzioni maturato in decenni di esperienza in Italia e soprattutto all'estero; ha combattuto battaglie radicali ma conosce l'arte del compromesso; e ha sempre preferito tenersi ai margini del teatrino mediatico della politica italiana: il che potrebbe essere poi il vero motivo per cui molti italiani la preferiscono ad altri politici e politiche che conoscono meglio. Ciononostante è davvero difficile che questo parlamento la nomini presidente, per almeno tre motivi talmente ovvi che molti osservatori non si preoccupano nemmeno di metterli nero su bianco. Facciamolo qui. Se tra un mese scopriremo di esserci sbagliati, saremo i primi a esserne contenti (continua sull'Unita.it, H1t#173)


Bonino al Colle? Tre motivi per cui sarà difficile


1. L’annosa polemica sull’aborto
Nel 1975, molto prima che l’aborto diventasse legale, la Bonino si autodenunciò per aver eseguito, presso il Centro di sterilizzazione e di informazione sull’aborto da lei fondato, qualcosa come diecimila interruzioni di gravidanza. È un dato molto facile da recuperare in rete, che in un qualche modo sembra rimosso dal dibattito, nel momento in cui per esempio viene celebrato in una chiesa il rito funebre per Mariangela Melato e molti si stupiscono che all’amica Emma Bonino un sacerdote cattolico impedisca di parlare. Ci si sarebbe dovuto stupire del contrario, considerando che per un cattolico praticante l’aborto rimane un omicidio. Certo, ormai neppure gli esponenti parlamentari più integralisti si fanno sfuggire cenni a una possibile modifica della legge 104; in compenso si parla con sempre più insistenza di “valori non negoziabili”, anche tra i cattolici del PD che sono ben rappresentati in parlamento (rispetto all’elettorato di riferimento; questa almeno è l’impressione). Secondo questi valori, Emma Bonino era e resta una stragista; non una mera esecutrice di ordini, ma una teorica dello stragismo di Stato. C’è da chiedersi se il Papa le stringerebbe la mano, e il Papa per altro è nuovo di zecca, per adesso lo amano tutti (ne parlano bene perfino su beppegrillo.it). Peraltro i cattolici hanno la sensazione che il Quirinale stavolta tocchi a loro: Berlusconi certo esagera quando dice che gli ultimi due presidenti sono stati di sinistra; ma Ciampi e Napolitano sono stati presidenti laici di un paese in cui la Chiesa cattolica continua a considerarsi una comunità maggioritaria. È davvero molto difficile che dopo di loro i cattolici del parlamento si rassegnino a votare l’abortista Emma Bonino. Niente di personale – probabilmente la stimano più di tanti confratelli esponenti di partiti avversari – ma la prospettiva di un settennato ancora più laico dei precedenti non deve esaltarli.
2. Il Bilderberg club
Nel novembre 2011, mentre Monti muoveva i primi passi da Presidente del Consiglio incaricato, in un clima di generale benevolenza, il blog di Beppe Grillo fu uno dei pochi a esprimere subito dei dubbi: 
Mario Monti sarà anche bravo, sarà un economista di valore, sarà tutto quello che vuoi. E’ certificata, però, la sua appartenenza a certe associazioni sulle quali non mi esprimo. Cito il Bilderberg Group, ad esempio. Ecco, sapete chi fa parte del Bilderberg oltre a Monti? Tale Emma Bonino. E sapete quale è stata la prima senatrice ad abbracciare Monti oggi in Senato? Emma Bonino.
La partecipazione di Emma Bonino a qualche dibattito del Bilderberg Group potrebbe essere considerata una semplice curiosità, se il club in questione non fosse un incubo ricorrente di tutti i complottisti nostrani, molti dei quali hanno nidificato nel Movimento Cinque Stelle. Chi sostiene che la Bonino possa essere un nome meno indigesto degli altri per i parlamentari m5s, in quanto “meno partitocratico”, forse dovrebbe dare un’occhiata più attenta a quello che si dice e si scrive nell’entourage grillino: il Bilderberg club è la Casta delle Caste, l’affiliazione equivale più o meno al marchio della bestia.
Sicuramente non tutti gli eletti m5s la pensano così, ma finora quel che pensano gli individui è stato ahinoi piuttosto irrilevante. Grillo ha già il suo daffare a conciliare pretese di trasparenza assoluta e controllo totale dei suoi parlamentari; nel frattempo deve difendere sul blog una strategia che al grido di “tutti a casa” per ora ha ottenuto soltanto la sopravvivenza del dimissionario Monti; l’elezione di uno dei pochissimi bilderberg italiani al Quirinale sarebbe un altro boccone amaro da far inghiottire a una base un po’ disorientata. Insomma, se servissero voti m5s, la Bonino non sembra il nome più adatto. Sarei anche in questo caso felice di sbagliarmi.
3. Marco Pannella
Emma Bonino è l’unica personalità che è riuscita in un qualche modo a brillare di vita propria all’interno di una “galassia” radicale che negli ultimi vent’anni è stata cannibalizzata dal suo demiurgo. Ma nel momento in cui salisse al Quirinale, Marco Pannella potrebbe costituire una fonte inesauribile di imbarazzi per la Presidente. Non si tratta semplicemente di tener conto delle mattane di un personaggio ormai incontrollabile (ieri pare che abbia scassato uno studio radiofonico). Sotto i riflettori finirebbe tutta la storia di un partito che a un certo punto si è trasformato in una lista personale, continuando a percepire rimborsi dallo Stato (a cui vanno poi aggiunti i finanziamenti per la radio). Qualche magagna è già saltata fuori (una segretaria assunta in nero per dodici anni); se ne emergessero delle altre, Emma Bonino si troverebbe in una situazione difficile. Dopo aver pubblicamente chiesto scusa all’ex presidente Leone per aver cavalcato la campagna per le sue dimissioni, la Bonino potrebbe sperimentare un beffardo contrappasso. Lei stessa probabilmente ne è consapevole, il che potrebbe spiegare l’apparente indifferenza nei confronti della campagna che anche stavolta Pannella cerca – sempre più faticosamente – di montare in suo favore.
Questi sono solo tre degli ostacoli che si frappongono tra il Colle ed Emma Bonino. Ripeto, sarei contentissimo di scoprire che sono soltanto immaginari. Sarebbe la dimostrazione che l’Italia è un paese laico che ha ormai assorbito la lunga controversia sull’aborto; che il M5S non è in balia di una cerchia di paranoici convinti di essere vittima di un complotto dei poteri forti mondiali; e che Pannella non è più in grado di fare danni. Tre buone notizie in una, insomma. E poi sì, avremmo un presidente donna, il che dopo 60 anni di uomini certamente non guasta. http://leonardo.blogspot.com
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Revolution will be video-made

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Se fosse confermata, la scelta di Grillo e di Casaleggio di portare "Nik il Nero" a Palazzo Madama confermerebbe la centralità all'interno del M5S di una figura 'professionale' che fin qui abbiamo tutti colpevolmente snobbato: no, non il camionista (anche se Nik è famoso per autoriprendersi mentre guida), ma il videomaker. Insomma il tizio che si fa i video in casa e poi li mette sul suo canale Youtube.

Così raccontava Nik qualche mese fa a Linkiesta: "Ho da sempre una grande passione per la telecamera, e quindi ho pensato di rendermi utile con qualche video. Avrei voluto fare il videomaker di professione. Ci ho anche provato per cinque o sei mesi, ma non tiravo su abbastanza soldi, e così sono dovuto tornare a fare il camionista. Il primo video che girammo col gruppo fu sul detersivo alla spina. Poi ne abbiamo fatti tantissimi di denuncia; direi ormai circa 350. Il 60% sono finiti dal mio canale YouTube direttamente sul blog di Beppe Grillo, che li apprezza molto". Nik - se la notizia è vera - dovrebbe arrivare al Senato come consulente di un portavoce del capogruppo, o qualcosa del genere, ma in sostanza per fare i video; con la stessa professionalità con cui ha curato in questi anni il suo canale Youtube. Prima di lui c'era Daniele Martinelli (continua sull'Unita.it, H1t#172).

Prima di lui c’era Daniele Martinelli (che forse è stato sollevato forse no, intorno a Grillo c’è la stessa trasparenza del Cremlino ai tempi di Andropov), e che parlava di sé stesso in questi termini: “sono un professionista della comunicazione nato sulle macchine da scrivere, passato attraverso le redazioni radiofoniche e televisive in cui si doveva saper fare tutto: scrivere testi, condurre, cimentarsi in regia, usare la telecamera, sistemare le luci, l’audio, montare i servizi con metodo lineare, non lineare e poi digitale… Tutti questi lavori messi insieme hanno creato la recente (non per me) figura del videomaker. Che nell’accezione più moderna del termine significa esercitare attività di video-giornalista INDIPENDENTE”.
La stessa attività di “video-giornalista indipendente” esercita – con qualche successo in più – il consulente del portavoce del capogruppo alla Camera, Claudio Messora. La nomina dall’alto di Messora e Martinelli (e poi di Nik) è stata interpretata da molti anche all’interno del Movimento come un tentativo di assistere ‘dall’alto’ ai gruppi parlamentari abbandonati un po’ a sé stessi: la famosa “cinghia di trasmissione”. Qualcuno li ha persino chiamati commissari politici: è un po’ presto per capire se svolgano davvero una funzione del genere. Per ora è più interessante notare da dove Grillo e Casaleggio peschino i loro cosiddetti fedelissimi: dalla Rete, naturalmente, ma nello specifico da Youtube. Messora, Martinelli e Nik hanno biografie diversissime (e affascinanti) che convergono soltanto nel momento in cui vengono attirati nell’orbita di Beppegrillo.it in qualità di “videomaker indipendenti”, produttori di migliaia di ore di materiale video che qualcuno ha pur visto e molti avranno semplicemente linkato e, avrebbe detto Petrolini, “piacciato”. Il modello a cui tutti e tre guardano è ovviamente il video-giornalismo d’inchiesta di Report o quello dei reportage della factory di Santoro: i risultati poi sono davanti a tutti, se qualcuno ha voglia o tempo per andarseli a vedere.
Ma l’importanza di questi videogiornalisti fai-da-te non andrebbe sottovalutata: si è detto a lungo che Grillo ha vinto rinunciando alla tv e lavorando sulla Rete. Possiamo aggiungere che Grillo ha portato in rete un linguaggio televisivo, scimmiottato alla benemeglio da volontari generosi ma non professionisti. Il suo blog non avrebbe avuto il successo che ha avuto senza i materiali video di cui ha sempre fatto un larghissimo uso. Basti pensare che  fino a qualche anno fa la rubrica più seguita era la predica settimanale di Travaglio, davanti a una camera fissa: per un vecchio utente di internet uno spreco di tempo e memoria, dal momento che ci si mette molto meno tempo a leggere un testo a video: ma l’utente-tipo di Beppegrillo preferisce guardarsi la clip, anche se tutto quel che c’è da vedere è la faccia di Travaglio che legge. In fondo succede la stessa cosa ogni giovedì da Santoro, dev’essere un format rassicurante. Quando si arriva a Nik il discorso è diverso: lui mica legge, e probabilmente i discorsi che fa davanti alla sua webcam non riuscirebbe a metterli giù su un foglio (non in modo altrettanto incisivo). Il video a un certo punto diventa una scorciatoia per spiegarsi e capirsi meglio. È il caso di Nik, ma anche dei portavoce grillini alla Camera e al Senato. Non solo si spiegano attraverso video, ma sono convinti che tutti dovrebbero fare così, che sarebbe tutto più chiaro se tutti facessero così: niente verbali scritti che sono noiosi, tutto in streaming, ore di streaming. Il grillismo non è solo una sfida alla democrazia. È anche una sfida alla civiltà della scrittura.http://leonardo.blogspot.com
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Le cinghie di Grillo

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"Personalmente ritengo che se devo dibattere, dibatto sui fatti, possibilmente in spazi dove non ci siano più di 3-4 persone con le quali valga la pena discutere. Pd e Pdl, francamente, se ne vadano a fanculo." Così scriveva Daniele Martinelli una settimana fa, dopo aver abbandonato una diretta tv. Ieri è diventato il portavoce ufficiale dei deputati M5S. Lo hanno scelto Grillo e Casaleggio per le sue doti di comunicatore - cioè, lui è uno di quelli che nell'entourage di Grillo ha doti di comunicatore ("se devo dibattere, dibatto sui fatti, possibilmente in spazi dove non ci siano più di 3-4 persone"). Figurati gli altri.

"Da domani, non parlerò più con nessuno. Non prendetevela con me." Così scrive sul suo blog (Byoblu) Claudio Messora, dopo una prima faticosissima giornata da portavoce ufficiale dei senatori M5S, esasperato dal modo in cui le sue parole sono state distorte dalla stampa. Anche lui è stato scelto da Grillo e Casaleggio per le sue doti di comunicatore - è uno dei pochi esponenti m5S ad avere familiarità con video e microfono. Purtroppo queste doti le ha usate spesso per comunicare complotti mondiali a base di massoneria e commissione Bilderberg: tesi care a molti lettori affezionati di Byoblu o Beppegrillo.it, ma che al di fuori della cerchia dei fedeli possono anche suscitare imbarazzo e ilarità. E poi c'è quella cosa dei vecchi post (poi cancellati) in cui si scusava di aver votato Berlusconi, vecchie beghe con Anonymous, e tante altre cose che pian piano spuntano fuori, in una piccola macchina del fango o, come la chiama lui, con un'espressione di rara icasticità, "l'esercito degli spalamerda": è da questi particolari che giudichi un comunicatore.

Martinelli e Messora dovevano essere "la cinghia di trasmissione tra un capo che si trova al di fuori del parlamento e i cittadini portavoce" (continua sull'Unita.it, H1t#171).

Così nelle parole del professore Paolo Becchi, ormai accreditato come l’ideologo di beppegrillo.it. Per Becchi l’episodio increscioso della spaccatura sulla nomina del presidente del Senato fu un segno “di immaturità politica, ma, non dimentichiamolo, sono i primi passi di un bambino che procede ancora a tentoni”. Forse è per quello che Grillo e Becchi hanno tanto insistito per avere lo streaming: sono come quei genitori ansiosi che appendono la webcam alle sbarre del lettino. Quello di Becchi può sembrare un paragone irriguardoso – l’avesse fatto un blogger dell’Unità, apriti cielo – ma finché i parlamentari continuano a lamentarsi perché sono stanchi, hanno fame, non sanno ancora bene dove dormire, devono prendere decisioni troppo difficili, i compagni gli fanno gli scherzi telefonici e non voglionostringere la mano alla zia - viene il sospetto che Becchi non abbia tutti i torti: c’è come una fase orale collettiva che ci auguriamo finisca presto, per il bene della nazione e anche un po’ del MoVimento. Nel frattempo il “capo” ha imposto la webcam e la sua cinghia, coi suoi uomini. Lo ha fatto di imperio, senza consultare la base, del resto è un’emergenza. Quando sarà pronta la piattaforma liquida in grado di gestire la democrazia diretta, tutte queste decisioni verranno senz’altro prese dalla base. Però la piattaforma non è ancora pronta, Casaleggio ha un sacco di impegni, insomma per adesso decidono loro. E sia.
Ma almeno decidono bene? Al netto delle idee, Martinelli e Messora sono le persone giuste per comunicare tra cittadini, Grillo e gruppi parlamentari m5s? Uno dopo una giornata di lavoro ha già fatto sapere che non parlerà più. L’altro, fosse per lui, eviterebbe i dibattiti con più di quattro persone. Finora, più che mostrare la loro competenza, hanno preferito farci sapere che non costeranno un solo euro al contribuente: bene, ma non è un modo per mettere le mani avanti? I servizi gratuiti sono quelli che tolgono all’utente la facoltà di lamentarsi. Io se fossi un elettore m5s credo che sarei disposto a pagare qualcosa per evitare che i miei eletti continuino a fare brutte figure. Dopotutto sono miei dipendenti, li ho scelti perché facciano un lavoro all’altezza, e invece adesso salta fuori che sono dilettanti e che non mi posso neanche lamentare perché comunque costano poco e in più la cinghia è gratis. Sempre ammesso che costino davvero poco, e che qualche loro prossimo infortunio non ci costi invece tantissimo.http://leonardo.blogspot.com
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È tutto On Line, diceva

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Egregio Matteo Renzi,

l'altra sera l'ho sentita chiedere a Bersani di inserire tra gli otto punti l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, cioè in pratica la fine del PD come lo conosciamo (e non è detto che sia un male); l'ho sentita affermare che non sarebbe un atto di demagogia, ma "di serietà". E va bene. Caro Matteo Renzi,

questo tipo di richieste, non sarebbe stato più serio farle dopo avere pubblicato la lista dei finanziatori della sua campagna? Aveva promesso che in 90 giorni sarebbe stato tutto on line; i 90 giorni sono passati, come ha notato Eleonora Franchini sul Fatto, sul suo sito ci sono ancora le briciole, le donazioni sotto i cento euro. I nomi di chi spese, per esempio, più di mille euro per una cena ancora non ci sono, on line; e il tesoriere della Fondazione BigBang ha più o meno ammesso che alcuni non ci andranno mai, on line; perché non hanno dato il loro consenso eccetera eccetera. Quindi, insomma, quando lei diceva che tutto sarebbe andato on line, un po' si sbagliava. Do per scontata la sua buona fede.

Caro Renzi, chi le scrive non è stato molto tenero con lei durante le primarie. Eppure, nel mio piccolo, sono tra quelli che si sono molto ricreduti nei suoi confronti in queste ultime settimane. Dopo le elezioni abbiamo visto ricomparire un partito trasversale di osservatori che ritengono che non ci sia emergenza democratica in Italia che non si possa risolvere con l'ennesima sessione di autocritica del vertice del PD: non erano ancora finiti gli spogli che già chiedevano la pelle di Bersani; sono passate due settimane e non si sono ancora presi una pausa. Nel frattempo Grillo lancia anatemi, Berlusconi si dà malato e manda i peones all'assalto dei tribunali, ma per costoro sono tutti dettagli: l'unica cosa che conta è che Bersani se ne vada. Il fatto che lei, l'unico ad avere sfidato apertamente l'apparato del PD in una consultazione democratica (e ad avere perso), non si sia unito al coro, è una cosa che le fa onore; lei sa - altri fingono di non sapere - che la posta in gioco stavolta non è semplicemente la leadership di un partito; se Bersani non riesce a formare un governo, la sorte del PD sarà l'ultimo dei nostri problemi.

Cerchiamo di restare seri, allora (continua sull'Unita.it, H1t#170).

Lei ritiene che la politica in Italia si possa fare, oggi, seriamente, senza una forma di finanziamento pubblico? Lo dimostri. Quel che può pubblicare lo pubblichi subito, non faccia come Grillo e Casaleggio che si riempiono la bocca di democrazia dal basso e poi quando si tratta di installare una piattaforma per la consultazione democratica non trovano mai il tempo. Peraltro, se lasciassimo per una volta perdere le chiacchiere sulla democrazia diretta, forse ci accorgeremmo che la vera sostanza del modello proposto da beppegrillo.it sta nel fundraising: credo sia il primo caso in Italia di un movimento politico che raccoglie centinaia di migliaia di euro grazie a un sito Internet.
Chi ha seguito davvero le campagne di Obama già prima del 2008 sa che questo è il vero peso di Internet: non le scemenze sugli influencer che sposterebbero voti appendendosi alle discussioni su facebook. Negli USA Internet è diventato lo strumento attraverso il quale i candidati incontrano elettori disposti a sostenerli anche digitando le cifre delle carte di credito. Onestamente non credevo che in Italia non ci saremmo arrivati mai: il caso del M5S mi dice che sbagliavo. E allo stesso tempo il pianto greco degli eletti pentastellati che non vogliono essere finanziati ma si lamentano di dover chiedere l’aspettativa mi fa pensare che no, internet non basta, le donazioni spontanee dei sostenitori non saranno sufficienti ancora per un bel pezzo. Specie se la crisi economica va avanti, e andrà avanti. E allora? Dall’altra parte, è persino scontato notarlo, c’è un miliardario che dall’abolizione del finanziamento pubblico ha soltanto da guadagnare.
Insomma caro Renzi, io non credo, come lei, che sia serio chiedere l’abolizione dei finanziamenti pubblici. Credo che questo renderebbe tutti i partiti ancora più succubi di lobby e altri poteri opachi. Mi sbaglio? Lo dimostri, non chiedo di meglio. http://leonardo.blogspot.com
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Il profeta del default

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"L'Italia è già fallita. Fra un anno non avremo i soldi per pagare le pensioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici. C'è poco da salvare". Quella di Grillo a "Focus" è la tipica profezia che si auto-avvera: l'Italia non è già fallita, ma ci è andata vicino nell'autunno del 2011, quando Berlusconi rassegnò le dimissioni; e potrebbe ritrovarsi nella stessa situazione tra poche settimane, se i mercati cominciassero a scommettere sull'ingovernabilità. Per evitare di bruciare tutti i sacrifici fatti in quest'anno e mezzo servirebbe appunto la collaborazione di Grillo, e ancor di più degli eletti del MoVimento. Degli eletti non sappiamo ancora niente: si sono appena presentati, hanno già commessa qualche fisiologica gaffe, ma è un po' presto per farsi un'idea. Nel frattempo il Megafono un'idea chiara ce l'ha: l'Italia è già in bancarotta o, come si dice oggi per non spaventarci troppo, default. Forse Grillo non tifa per il default, ma comunque lo ritiene inevitabile e, nei fatti, fa quel che può per procurarcelo.

La vera ragione per cui un accordo parlamentare tra M5S e PD appare molto più difficile di quanto tanti elettori hanno da subito auspicato è tutta qui. Il default che per il PD è la catastrofe da evitare a tutti i costi (compreso quell'anno e mezzo di sostegno al governo Monti che il PD ha scontato con il flop elettorale) per Grillo è un mero incidente di percorso, se non una tappa prevista verso la realizzazione di quel programma che a occhio ci sembrava così utopico. In effetti, basta rinunciare a uno dei postulati così strenuamente difesi dal partito di Bersani (non c'è Italia fuori dall'Euro) e persino le trovate più utopiche a cinque stelle diventano realizzabili: e abbiamo finalmente le risposte alle domande che ci siamo fatti per tutta la campagna elettorale. Dove troverete i soldi per i redditi di cittadinanza? e per il wifi gratis? Non basta ridurre o cancellare rimborsi ai partiti e sovvenzioni ai quotidiani; quindi non resta che stampare altro denaro. Ma per farlo bisogna uscire dall'euro; per uscire dall'euro però occorre che la crisi si aggravi ulteriormente, e l'Italia vada in default. Dopodiché si può fare qualsiasi cosa, decrescere più o meno felicemente e rilanciare l'economia distribuendo ai disoccupati redditi di carta straccia: il Default del predicatore Grillo è l'Armageddon, l'ultima battaglia da combattere, affinché Babilonia-Eurolandia cada.

Il rifiuto di qualsiasi ipotesi di sostegno a un governo non è l'irrigidimento di un capo-popolo capriccioso, ma una strategia coerente e perseguita alla luce del sole (continua sull'Unita, H1t#169):al di là dei superficiali punti di contatto che i Bersani e i suoi si stanno ingegnando a trovare, PD e M5S non possono collaborare perché hanno progetti radicalmente diversi. Il PD, e i partiti di centrosinistra che lo hanno preceduto, hanno fatto di tutto per portarci nell’Euro e per non farci più uscire: Grillo non crede nell’euro, lo ha scritto almeno una volta. In seguito si è nascosto dietro il referendum, ma tra le ragioni dello straordinario successo elettorale del M5S c’è anche l’euroscetticismo: qualcosa che a parte qualche sparata occasionale di Berlusconi e i folkloristici mugugni di leghisti e postfascisti, in Italia non si era mai visto.

Se oggi l’euroscetticismo rischia di diventare maggioritario, la responsabilità non è tutta di Beppe Grillo. Bersani e il suo partito non sono riusciti a spiegare agli italiani per cosa stavano lottando, cosa c’era in ballo: l’appoggio all’esecutivo di emergenza guidato da Monti è stato visto come un tradimento e una rinuncia a “vincere subito”. Una sua parte di responsabilità ce l’ha anche l’Europa, e in particolare la Germania di Angela Merkel, la cui intransigenza sul fronte del rigore ha ottenuto il risultato di alienare le simpatie di uno dei popoli da sempre più entusiasti del progetto di unificazione europea. Più che di attribuire le varie percentuali di responsabilità, però, ora si tratta di capire chi pagherà per tutti: probabilmente il popolo italiano, che dal default e dall’eventuale crisi dell’euro ha moltissimo da perdere e ben poco da guadagnare. Di questo si rendono conto anche alcuni sostenitori di Grillo, tra cui l’economista Mauro Gallegati, che ha contribuito a scrivere il programma pentastellato e adesso avverte: il default sarebbe un disastro, l’uscita dall’euro “un’ipotesi disgraziata”, “la decrescita in sé è insostenibile, altro che felice”. Però Gallegati ha già ricevuto una mezza scomunica via beppegrillo.it: Leggo e ascolto con stupore presunti “esperti” discutere di economia, di finanza o di lavoro a nome del M5S. Queste persone sono ovviamente libere di farlo, ma solo a titolo personale. Solo il megafono ha il diritto di parlare per tutti, questo ormai si è capito. Vedremo cosa faranno i parlamentari, quando avranno finito di presentarsi: la speranza è che abbiano chiara l’entità del rischio che tutti gli italiani stanno correndo.
C’è anche un’altra speranza (in un momento come questo conviene alimentarne più d’una): proprio il successo dell’euroscettico Grillo potrebbe paradossalmente essere determinante nel condurre i vertici europei verso più miti consigli, a un allentamento del rigore: è quanto scommette per esempio il presidente di Goldman Sachs, e forse un calcolo simile è quello che porta alcuni imprenditori italiani ad appoggiare il Movimento (quelli che non sono semplicemente saliti sul carro del momento). Se andasse a finire così, toccherebbe poi riconoscere che Grillo ha salvato l’Italia e l’euro. E pazienza, abbiamo tutti i padri della patria che ci meritiamo. http://leonardo.blogspot.com.


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Perché Grillo non fa ridere?

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Buona domanda, forse l'unica che ha senso farsi fino a stasera (invece di perdersi dietro a numeri che balleranno per tutto il giorno). Perché i grillini ci cascano sempre, perché qualsiasi bufala li investe in pieno? Perché se il loro "comico" allude scherzosamente all'antica abitudine di umettare la matita copiativa, invece di ridacchiarci su, corrono a difendere il diritto costituzionale a contrarre mononucleosi e altre malattie suggendo nel contempo un materiale cancerogeno? Cosa non ha funzionato?

Te la do io l'Italia

Potremmo chiederci più in generale se Grillo sia mai stato un "comico" - ma forse dovremmo metterci prima d'accordo sulla definizione di comico e questo potrebbe prendere anni - proviamo allora a pensare quando e come ci ha fatto ridere. Qual è stata la sua battuta più divertente? Hmm. La più famosa? Quella la so. I socialisti rubano.

MARTELLI: "Ma quindi è vero che qui in Cina sono tutti socialisti!"
CRAXI: "Certo".
MARTELLI: "Ma allora... a chi rubano?"

Dove la comicità non sta nella battuta in sé (ne abbiamo sentite di migliori) ma dall'effetto "vestito nuovo dell'imperatore": dico qualcosa che tutti sanno ma che nessuno ha il coraggio di dire - in diretta tv. È tanto liberatorio. Forse Grillo ha sempre fatto questo, e per fare questo non serviva un grande senso dell'umorismo. Magari del coraggio, una certa faccia tosta (la mimica facciale necessaria a sottolineare il paradosso), tutte cose che Grillo possiede in abbondanza. Ma nessuna delle altre doti che istintivamente associamo ai comici. L'ironia, per esempio: Grillo non la usa molto. L'ironia in effetti è la figura che sostituisce un significato col suo contrario: Grillo non avrebbe mai chiamato Craxi un "benefattore", a rischio che qualcuno dal pubblico lo prendesse sul serio.

L'ironia è un po' il discrimine tra il mondo degli adulti e quello dei bambini - me ne accorgo tutti i giorni in classi di preadolescenti: se fai dell'ironia, anche alla buona, non puoi sempre dare scontato che tutti la capiscano. Grillo in generale non ne fa, il suo utente rimane "un undicenne neanche troppo intelligente". Grillo, non lo si osserva mai abbastanza, ha condiviso un bel tratto di carriera con Antonio Ricci (Drive In - Striscia la Notizia): un'altra persona molto intelligente che però non si è mai data troppa pena di testare o stimolare l'intelligenza del suo pubblico. Ricci ha optato ben presto per un metodo pavloviano: fai ripetere un tormentone e fai scattare una risata finta. Dopo due o tre volte i bambini ridono. Dopo cinque o sei ripetono a memoria il tormentone. Ogni sei mesi cambi i tormentoni. Fine. A un certo punto si è pure stancato di inventare i tormentoni, è da dieci anni che monta le risate finte su qualsiasi cosa, anche le inchieste sull'amianto. La gente guarda, magari qualcuno ride pure.

Grillo veri tormentoni non ne ha mai avuti, neanche nelle prime stagioni, tranne forse "te lo do io" e "ma non è possibile ragazzi" (continua sull'Unita.it, H1t#168)

Però sin dai tempi di Te lo do io l’America il procedimento era abbastanza definito: si prendono gli aspetti più paradossali di una società diversa dalla nostra e li si critica dal punto di vista dell’everyman italiano, che alla fine è un bambino che non fa che dire: “ma questi credono di essere chissachi e invece sono tutti nudi! cioè ma non è possibile ragazzi”. Poi in trent’anni Grillo ha fatto molto altro, ma in fondo non si è mai spostato da questo approccio: cioè ragazzi ma Sanremo, ma vi rendete conto, ma non è possibile, la Parmalat, ma sono tutti nudi, la crisi dei bond, ma vi rendete conto? Sveglia.
Io non voglio dire che durante questo percorso il bambino non abbia incrociato imperatori realmente nudi: personalmente ho un ricordo glorioso di quando in diretta tv disse qualcosa del tipo lo sapete qual è il vero nemico? e mostrò un cartello con la cifra 144. Era il periodo in cui lo Stato lucrava sui numeri a pagamento con quel prefisso. Grillo arrivò prima dei giornali a denunciare la cosa. Si aprì un dibattito, nel giro di pochi mesi i prefissi 144 furono disabilitati su molte utenze telefoniche (e prontamente sostituiti dagli 166, ma almeno il consumatore medio italiano aveva annusato la fregatura). In quel caso Grillo stava facendo già politica: e la stava già facendo in modo brutale, indicando agli italiani in diretta un “nemico” da abbattere. Non è molto cambiato, forse siamo cambiati un po’ tutti noi. Non era un comico nel senso tradizionale del termine (ma qual è, poi, questo senso tradizionale?) Faceva indignare, non faceva ridere – no, anche questo non è del tutto vero. Faceva ridere: gli imperatori nudi fanno ridere. Era molto divertente l’attimo del disvelamento, che Grillo sottolineava e sottolinea tuttora con un’occhiata, un timbro e un’intonazione vocale che sono diventati marchi di fabbrica. Continuano a farmi ridere anche se li sento oggi.
Però alla fine la comicità di Grillo consiste in questo: apri gli occhi, anzi, svegliaaaaaAAAAA! Perfettamente intonata ai messia da forum, quelli che devono svelarci la verità sui complotti plutogiudomassonici o sulle scie chimiche. Grillo ha però anche qualcosa che i troll vagamente antropomorfi della Rete non avranno mai: un robusto tono da everyman, da Italiano Medio, anzi da Settentrionale Medio, che sa che le cose dovrebbero andare in un altro modo perché cioè, ragazzi, ma siamo matti, ma andate a vedere in America se lasciano che i cinesi gli vendano l’acciaio. Almeno, in una delle ultime *interviste* l’ho sentito dire una cosa del genere, ma non è tanto il significato ad aver importanza. Ha importanza quel tono di quarantenne al bar, che le cose le sa perché ha tanto lavorato e ha esperienza di come va il mondo. Con quel tono si può dire qualsiasi cazzata, e per ogni cazzata che dici un leghista smette di votare Maroni e corre ad abbracciarti, papà!
Nel frattempo Grillo ha parlato di latte al pesce (bufala), di biowashball (bufala), di signoraggio; nei commenti del suo blog si diffuse anche la grande baggianata dell’olio di colza; di uscire dall’euro, ovviamente, di prevedere i terremoti come i temporali, scusate se torno sull’episodio ma è stato il momento in cui si è giocato l’ultimo barlume di rispetto che avevo per lui. Tutti argomenti lanciati e poi scartati, Grillo non approfondisce, qualcun altro dovrà farlo, Grillo grida che l’imperatore è nudo, fine. È liberatorio, a patto di credere in lui, perché tu l’imperatore mica lo vedi. Se vuoi ridere… ma adesso non vende più risate, vende speranze… se vuoi sperare, devi credere in lui, che l’imperatore l’ha visto e poi è uno che il mondo lo ha girato e sa come vanno le cose.
Ogni tanto qualcuno lo paragona a Savonarola. È un parallelo molto meno banale di quanto sembri – peraltro è autorizzato dallo stesso Casaleggio, che nel famigerato filmato apocalittico considera Savonarola uno degli antenati di Internet, con la sua rete messaggistica quattrocentesca, “the open letters”. E vabbe’. Però forse la risposta alla domanda iniziale è tutta qui: Grillo non si è creato un pubblico dotato di particolare senso dell’umorismo perché Grillo, più che è un Comico, è un Predicatore. Ne approfitto per citarmi (parlavo di Bernardino da Siena, ma il senso è lo stesso).
forse Grillo non è affatto un uomo nuovo, forse è l’incarnazione di un archetipo dell’inconscio collettivo che noi italiani ci portiamo dentro da secoli: il Grande Predicatore. Grillo è tutto lì, un meraviglioso affabulatore, uno spacciatore di apocalissi da coniugare secondo necessità. In un altro secolo si sarebbe messo un saio addosso e avrebbe detto più o meno le stesse cose: guai a voi banchieri usurai affamatori del popolo, guai a voi politici corrotti, le cose stanno per cambiare, eccetera.
Nel frattempo i concittadini di Siena gli offrono la cattedra di vescovo. “A me mi pare che voi siate vescovo e papa e ‘mperadore”, gli dicono, ma Bernardino non vuole veramente essere nessuno dei tre. Si capisce che comandare non gli interessa. L’unica cosa che lo appassiona è predicare. La predica è tutto[...]: è poesia, la predica è preghiera, la predica è il mondo e la sua volontà di rappresentazione. La predica, in una parola, è teatro: quella forma informale di teatro in cui i comici italiani eccellono, da Petrolini a Gaber a Grillo: il monologo senza interruzioni.
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Chi Elio, chi Ingroia

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Oggi mi sarei quasi rimesso a scrivere del masochismo un certo tipo di elettore di sinistra che voterà Ingroia anche se sa di ottenere il risultato contrario, ma stavo per annoiarmi da solo. Allora ho pensato che è la stessa cosa se parlo di Sanremo e della giuria di qualità, che si è intestardita a votare Elio col risultato – prevedibile – di far vincere Mengoni. Magari c’erano canzoni più valide, magari si poteva far caso al talento di Annalisa Scarrone, però… però era roba da reality e la giuria di qualità non li guarda, i reality, roba da ragazzini. Si sono impuntati su Elio, che prima dell’arrivo della giuria era ottavo.

Ora lo possiamo dire: Elio, l’incommensurabile Elio, e i suoi meravigliosi compari, non avevano nessuna possibilità di vincere Sanremo. Non avevano i numeri e forse non ne avevano neanche voglia, un Sanremo dopotutto l’hanno vinto già – anche se lo hanno consegnato a Ron. Volevano intrattenere un pubblico più vasto del loro solito da professionisti e artisti di varietà quali sono diventati da parecchi anni; lo hanno fatto alla grande, con quel sovrappiù di perfezionismo che rasenta il grottesco e che non è esattamente per tutti. Su quel palcoscenico dove qualche anno fa si presentò mummificato, cantò un’aria del Barbiere che Bocelli se la sogna, e approfittò monellescamente per urlare “f**a” in mondovisione, Elio è riuscito a stupirci ancora una volta, anzi tre o quattro volte, quasi sempre su una nota sola. Ha fatto il nano, l’obeso, si è divertito con Rocco Siffredi, mentre i musicisti tiravano fuori assoli furiosi da strumenti giocattolo. È stato bravissimo, sono stati bravissimi; ma non avevano nessuna possibilità di vincere il primo premio, e infatti non l’hanno vinto.

Portare una canzone mononota al teatro Ariston era già, in sé, una performance d’arte d’avanguardia. È un po’ la differenza tra guardare un Burri in un museo e appenderselo in camera: abbiamo tutti applaudito l’esperimento, ma alla mattina, mentre aspettiamo l’autobus, difficilmente vorremmo ascoltare la mononota nelle cuffiette. E Sanremo è il festival delle cuffiette, oggi, come era delle radio vent’anni fa. Un conto è dimostrare che anche all’Ariston si può sperimentare e stupire sul serio, un conto è pretendere di imporre la sperimentazione a una nazione di portatori di cuffiette, come ha provato a fare la giuria (continua sull'Unita.it)

Sarebbe bastato far convergere i voti su qualche altra proposta meno estrema e un po’ più cantabile, per intercettare i gusti di qualche bacino di televotanti disposto a mandare un altro sms a mezzanotte. Spazio per compromessi onorevoli ce n’era, ma i giurati di qualità non se ne sono accorti. Avevano deciso di sostenere la nota sola, tutta le cuffiette d’Italia avrebbe dovuto riecheggiare una nota sola? Si fa fatica a crederci.
Più probabilmente, i giurati avevano deciso di perdere. Di limitarsi a rimarcare la loro diversità, la loro alterità di non-guardatori di reality – magari senza sapere che anche Elio ci sta lavorando, nei reality, che è poi uno dei pochi modi rimasti ai cantanti di campare. E così abbiamo anche rischiato che vincessero i Modà, che sotto le acconciature da ragazzini cantano roba che Gianni Togni o Ricchi e Poveri nel 1980 avrebbero inciso solo sui lati B, testimoni di un cattivo gusto sommerso persistente che è appena sfiorato dall’evoluzione della moda e persino dal ricambio generazionale. Non è che il popolo delle cuffiette non avrebbe bisogno di un po’ di educazione musicale, ma tra l’oltranza sperimentale di Elio e la palude primordiale dei Modà si dovrebbe riuscire a trovare una mediana. I giurati non ci sono riusciti; secondo me hanno fallito la loro missione di intellettuali, ma era esattamente quello che mi aspettavo da loro.
C’è chi lo chiama snobismo. Ma se fosse semplicemente un disagio logico-matematico? Può darsi semplicemente che non abbiano capito che insistere su un pezzo condannato dal televoto non sarebbe servito a niente. È un po’ lo stesso problema dell’elettore di Ingroia al senato. Gli descrivi la situazione, gli spieghi che per esempio in Lombardia la possibilità esigua di eleggere due senatori rivoluzionari è controbilanciata dal rischio di regalare 16 seggi al centrodestra; che il rischio concreto è quello di un nuovo governissimo con Berlusconi e Monti insieme a Bersani, e loro niente. C’è un orgoglio identitario che se ne frega di chi governerà davvero, e che vince su tutto. Persino sull’aritmetica. http://leonardo.blogspot.com
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Le dimissioni prevedibili di B16

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Ieri un pontefice ha annunciato le sue dimissioni. È la prima volta che succede in sei secoli, senz'altro è una notizia. E tuttavia l'ondata di stupore che si è trascinata per tutto il giorno sugli organi di stampa e in tv può apparire esagerata, un tipico esempio di quella drammatizzazione a cui ricorrono i media per mantenere l'attenzione di un pubblico sempre più distratto: ogni elezione è decisiva, ogni alluvione è una catastrofe ambientale, ogni gang di maneggioni è la nuova p2, eccetera. Le dimissioni di Benedetto XVI hanno senz'altro un valore storico, e costituiranno un precedente importantissimo, ma sono tutto meno un fulmine a ciel sereno: si tratta forse dell'azione più prevedibile del suo pontificato.

Joseph Ratzinger ha sempre ritenuto che un Papa possa dimettersi per motivi di salute o di età (continua sull'Unita.it H1t#166).

Nel 2002, in una situazione piuttosto delicata (Wojtyla entrava e usciva dal Gemelli) ammise la possibilità che Giovanni Paolo II potesse dare le dimissioni “se vedesse di non poter assolutamente farcela più”. Opinione ribadita da Benedetto XVI per esempio nel libro intervista del 2010, Luce del mondo, dove addirittura sosteneva l’”obbligo” di dimettersi per un pontefice che si fosse reso conto di non poter più sostenere fisicamente e psicologicamente i doveri del suo ufficio. Ratzinger la pensava così prima di diventare papa, e una volta eletto non ha cambiato idea. E siccome la stanchezza degli ultimi mesi non era un mistero per nessuno, una dichiarazione come quella di ieri poteva tutto sommato essere prevista in tempi brevi. Un finale del genere in un certo senso era già intuibile quando nel 2005 il conclave scelse un prelato quasi ottantenne, per quello che fu subito chiamato un “pontificato breve”, di transizione. Qualsiasi speculazione sugli intrighi di palazzo, qualsiasi giudizio sulle sue difficoltà in questi anni, lasciano il tempo che trovano di fronte all’evidenza più banale: fare il papa è un mestiere sfibrante, Ratzinger ha cominciato molto tardi e ha comunque tenuto duro per otto anni, non può sorprendere veramente nessuno il fatto che non ne possa più.
Ricopio qui sotto quel che scrissi altrove più di un anno fa. A mo’ di testimonianza: non ci voleva un nostradamus – e nemmeno un vaticanista – a prevedere le dimissioni di un Papa stanco che non le aveva mai escluse. Giusto per ribadire che molte smorfie di sorpresa che vedete in tv in questi giorni fanno parte della fiction, dell’arco narrativo per cui vedi il fondamentale intervento dello story editor Padre Pizzarro.
Pio XII aveva una lettera di dimissioni pronta nel cassetto nell’eventualità che i nazisti lo arrestassero. Anche Wojtyla aveva preparato una lettera del genere, da divulgare soltanto in caso di infermità inguaribile. Il problema è che per un cattolico fervente nessuna infermità può essere ritenuta veramente inguaribile: equivarrebbe a dubitare della provvidenza, e con tutto il suo coraggio Wojtyla non avrebbe mai realmente osato farlo. Prevalse su tutto una considerazione che non era dettata dalla legge o dalla tradizione (del resto Giovanni Paolo II cambiava leggi e tradizioni ogni volta che lo riteneva utile): nessuno avrebbe potuto essere un Papa credibile mentre Wojtyla era ancora in circolazione. Come aveva detto a un chirurgo già ai tempi delle frattura al femore: “Dottore, sia lei che io abbiamo una sola scelta. Lei mi deve curare. E io devo guarire. Perché non c’è posto nella chiesa per un Papa emerito”. Una questione più mediatica che dottrinale.
Oggi che Ratzinger è stanco, e non si fa scrupolo di mostrarlo al mondo, la situazione è piuttosto diversa. Anche qui, non si tratta di dottrina – tutto sommato Benedetto XVI non si è discostato molto dal solco wojtyliano – ma di carisma mediatico: il predecessore ne aveva a pacchi, lui giusto qualche briciola. Il mattino in cui si dimetterà, decine di accorati vaticanisti si stracceranno le vesti, per poi passare immediatamente al toto-conclave senza concedere al rimpianto una mezza giornata in più. Nessuno gli chiederà nemmeno di andarsene. Una camera nei palazzi vaticani non gliela dovrebbero negare, magari proprio quella in cui dormiva quando sognava di subentrare al suo capo. Il bello è che quando Wojtyla volle un parere serio sulla questione delle dimissioni, lo chiese proprio a lui. E lui, ovviamente dopo un accurato studio delle fonti e della patristica e del diritto eccetera, rispose sì, tranquillo, si può fare. Poi è rimasto paziente ad aspettare per altri anni. Troppi anni. I giardini Vaticani un po’ come la Fortezza sul deserto dei Tartari. Quando alla fine i Tartari sono arrivati, Ratzinger era già stanco. Il parere che aveva fornito a Wojtyla alla fine sarà servito almeno a lui (è difficile non immaginare a questo punto W. da qualche parte che sorride, sempre tremando un po’). http://leonardo.blogspot.com
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Evacuate piano

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È passata ormai una settimana da quel giovedì sera in cui centinaia di residenti in Garfagnana evacuarono le loro case anche se in realtà non era stata ordinata nessuna evacuazione, a causa di una scossa che - ora possiamo dirlo - non c'è stata. È possibile, perlomeno statisticamente, che qualcuno di loro oltre a un bel po' di paura si sia preso un accidente, visto che è stata una delle settimane più fredde dell'anno. La cosa non fa notizia: ammalarsi è normale, e il fatto che in Italia le epidemie di influenza facciano più vittime dei terremoti è una semplice curiosità. Mesi fa, quando tremò un po' più forte la terra nella bassa emiliana, Beppe Grillo scrisse sul suo blog scandalizzandosi che in Italia non si facessero ancora le previsioni dei terremoti, come le previsioni del tempo. "Se il meteo ci dice che domani pioverà, terremo a portata di mano l'ombrello. Ma se viene annunciato il rischio di un forte terremoto, perché il Comune non ci dice come comportarci?" L'esempio della Garfagnana potrebbe spiegarci perché - finché non diventerà la prassi, e allora probabilmente Grillo si metterà a gridare sdegnato contro i Comuni che spingono migliaia di persone a dormire al freddo a causa di vaghe probabilità statistiche. Sarà senz'altro un complotto delle multinazionali che vogliono vendere più paracetamolo. Più probabilmente, al terzo o quarto o dodicesimo allarme di questo tipo la gente smetterà di prendere sul serio chi li dirama, e magari sarà proprio quella l'occasione in cui la terra tremerà davvero.

A scanso di equivoci, vorrei esprimere la mia solidarietà ai sindaci che nel pomeriggio del 31 gennaio ricevettero un fax dalla Protezione Civile, firmato dal Capo Franco Gabrielli, che confermava "l'ipotesi che la sequenza sia generata da una struttura orientata NE-SW - dunque trasversale alla catena" e che quindi "nelle prossime ore potrebbero avvenire altre scosse a SW della scossa principale, in prossimità dell'abitato di Castelnuovo in Garfagnana e dell'epicentro del terremoto del 23 gennaio 1985". Come si vede il fax, una comunicazione di emergenza rivolta a sindaci non necessariamente esperti di sismologia, né di abbreviazioni in lingua inglese (SW sta per South-West, in italiano sarebbe SO) risultava piuttosto criptico: non per la difficoltà della materia, ma per la sciatteria di chi anche in una comunicazione di emergenza non rinuncia a usare termini tecnici e abbreviazioni non universalmente intellegibili. Se si voleva dare un forte segnale di allerta, forse Gabrielli avrebbe fatto meglio a scrivere: SCOSSE POSSIBILI IN PROSSIMITA’ DI CASTELNUOVO NELLE PROSSIME 24H.(continua sull'Unita.it, H1t#165). La semplicità, la chiarezza, in queste situazioni dovrebbe essere considerata necessaria.

Una volta c’era il telegrafo a torcere il collo all’eloquenza dei burocrati; adesso si potrebbe prendere lezioni da twitter, ma forse il problema è un altro: Gabrielli voleva realmente dare un forte segnale di allerta? O voleva semplicemente cautelarsi con un fax in tecnichese? I sindaci che si sono trovati quel foglio in mano hanno dovuto scegliere in pochi minuti tra il rischio di essere condannati per aver minimizzato la situazione (come i membri della Commissione Grandi Rischi dell’Aquila) e quello di essere indagati per procurato allarme. Un’eventualità tutt’altro che remota nel loro caso: è quello che successe al ministro Zamberletti, che proprio in Garfagnana nel 1985 ordinò l’evacuazione di dieci comuni, in attesa di una scossa forte che non si verificò. Il dilemma è stato risolto in modo abbastanza salomonico dai sindaci che  hanno scelto di non evacuare, ma di… esortare la popolazione a uscire di casa, quasi la stessa cosa: però ora Gabrielli può difendersi dalle critiche sostenendo di non aver sollecitato nessuna evacuazione. In effetti no. Si è limitato a informare i sindaci via fax dell’eventualità di scosse di entità imprecisata in un intervallo di ore imprecisate. Non ci sarebbe da stupirsi se mentre lo dettava, oltre ai sismologi, il Capo della Protezione Civile avesse consultato qualche avvocato.
La massima solidarietà anche agli abitanti, che nel frattempo saranno tornati quasi tutti alle loro case, pur sapendo che il rischio non è affatto cessato. Io, se mi fossi trovato nella loro situazione, avrei cercato di allontanare i bambini per qualche giorno; nel frattempo avrei chiesto a un ingegnere, o al limite a un geometra, di controllare la mia abitazione, e l’avrei lasciata soltanto se fossero stati riscontrati dei difetti strutturali, rimandando alla fine dello sciame sismico i lavori di ristrutturazione. Mi è abbastanza facile immaginare la situazione perché ne ho vissuta una simile pochi mesi fa. Ma è assurdo che io dia consigli del genere ai garfagnini, che di queste cose dovrebbero essere esperti più di me. Non c’è una sola regione in Italia in cui ci si possa permettere di trattare i terremoti come degli ospiti improvvisi e sconosciuti. Dovremo cominciare a considerarli per quello che sono: turisti abituali, dai ritmi imprevedibili, ma che prima o poi ritornano. Sempre. http://leonardo.blogspot.com


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Non fosse per un piccolo sterminio

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Domenica come tutti sapete era l'anniversario dell'apertura dei cancelli di Auschwitz. Sabato, come non tutti sanno, era il settantesimo anniversario di Nikolajewka, l'eroica battaglia in cui gli alpini italiani in ritirata spezzarono l'accerchiamento sovietico pagando un prezzo altissimo: più di ventimila morti e ottantamila prigionieri, per riportare a casa un contingente che Hitler non aveva voluto, che Mussolini aveva comunque ritenuto necessario inviare per dimostrare qualche cosa. Ieri, come tutti sapete, Berlusconi ha anche dichiarato che Mussolini ha fatto tante cose buone.

In seguito ci ha già fatto sapere che è stato ovviamente frainteso, che non intendeva dire quello che ha detto, che "non ci può essere alcun equivoco sulla dittatura fascista" anche se pensava "che questo dato fosse chiaro per tutta la mia storia politica passata e presente". Siccome però nella sua storia politica c'è quella famosa intervista allo Spectator in cui affermò che Mussolini mandava i dissidenti in villeggiatura (2003) o quella volta in cui definì la dittatura fascista una "democrazia minore" (2011), è lecito sospettare che Berlusconi queste sparate non le faccia soltanto per conquistare qualche voto ai nostalgici, che ci creda davvero: che non abbia smesso di provare una sincera simpatia per il Mussolini "troppo buono" dei diari apocrifi fatti pubblicare da Dell'Utri, quello disilluso a cui amava paragonarsi al tramonto della sua esperienza di Presidente del Consiglio. Detto questo, non ha veramente importanza cosa provi Berlusconi per Mussolini dentro di sé. Sarebbero fatti suoi.

Ma il fatto che decida di ricordare pubblicamente che ha fatto cose buone, durante una campagna elettorale, e proprio nel momento apparentemente meno adatto (la giornata della Memoria), ecco, questo è interessante e merita una discussione che vada un po' più in là del semplice compitino a base di indignazione (che continua sull'Unita.it, H1t#164).

Per inciso: probabilmente era quello che desiderava, una bella batteria di editoriali sdegnati su tutti i quotidiani che non siano suoi. Un tentativo di attirare l’attenzione rozzo ma efficace (prova ne è che ne stiamo parlando). Può sembrare paradossale che Berlusconi scalpiti per i riflettori anche nel momento in cui sono puntati sulle eventuali responsabilità dei vertici PD in un caso di malafinanza, ma B. è fatto così: deve stare al centro. Preferisce che si parli male di lui, piuttosto che si parli male degli altri. Per convincere i suoi vecchi elettori a votarlo ha bisogno di essere attaccato, e per essere attaccati ci si può anche ridurre a parlar bene di Satana in chiesa o di Mussolini al Memoriale della Shoah.
“Credo che Berlusconi abbia detto quello che la maggioranza degli italiani pensa su Benito Mussolini” ha affermato oggi Renato Brunetta: non esattamente un osservatore imparziale, ma non è detto che si sbagli. Magari non è (ancora) la maggioranza, ma è una parte cospicua dell’opinione pubblica quella che sostiene, più o meno a mezza voce, che Mussolini non sia poi stato un cattivo amministratore. Non gli fosse venuto questo inspiegabile prurito per certe pratiche hitleriane, quelle sì cattive, cattivissime, “male assoluto”, Mussolini lascerebbe un bilancio positivo, l’Agro Pontino eccetera. Nelle memoria di seconda mano delle nuove generazioni la vita del dittatore diventa simile a quella di certi imperatori tratteggiati dai cronisti romani: validi comandanti, bravi governanti, padri amorosi finché a un certo punto qualcosa va storto, impazziscono, giustiziano i parenti e muoiono di morte violenta. Ma Benito Mussolini non è un fantasma di duemila anni fa: è l’uomo italiano più studiato del secolo scorso. Il fatto che si possa prendere il mandante del delitto Matteotti, l’invasore dell’Etiopia, il responsabile dei bombardamenti di Barcellona, e del disastro degli Alpini in Russia per un bravo ragazzo sviato dalle cattive amicizie, è il segno che qualcosa non ha funzionato nella trasmissione delle minime nozioni di Storia del Novecento. A più di dieci anni dall’istituzione della Giornata della Memoria, forse vale la pena di discutere su questo: e sul fatto per esempio che Amba Aradam sia ancora un simpatico modo di dire, e non il nome di uno dei massacri più orribili messi in atto dall’esercito italiano e no, Adolf Hitler non c’entri nemmeno di striscio.
Ricordare i campi di sterminio è doveroso e necessario, ma se non allarghiamo un po’ il campo a scuola o in televisione rischiamo di suggerire che i nazisti spuntino dal nulla, con tutta la loro malvagità assoluta e irredimibile. Il passo successivo è farne i capri espiatori di tutto il male non assoluto nel Novecento. Forse oltre a proiettare film e documentari sullo sterminio varrebbe la pena di riservare un po’ più tempo al Ventennio nero. Non solo ai delitti di cui Mussolini si macchiò sin dall’inizio, ma anche ai banali indicatori economici, che ci dicono che la sua amministrazione fu rovinosa (dovrebbe essere un dato acquisito dalla maggioranza dei diplomati, e non lo è), e che le guerre combattute dalla metà degli anni Trenta in poi non furono un increscioso incidente, ma l’esito naturale del nazionalismo che Mussolini aveva brevettato molto prima che il verbo di Adolf Hitler uscisse dalle birrerie. A chi spetta ricordarlo, se non a noi. http://leonardo.blogspot.com
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Le elezioni (più complicate) del secolo

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Stavo pensando a come si deve sentire un qualsiasi elettore di Ingroia o Di Pietro, amante della legge e dell'ordine, quando scopre che nello stesso movimento c'è gente di Rifondazione che va ai funerali dei brigatisti. Come ci si deve sentire? Più o meno come si devono sentire i reduci di Genova che dopo aver diffidato per anni di poliziotti e magistrati si ritroveranno, nelle urne, a mettere una croce sull'ex magistrato Ingroia. Sempre meglio dei radicali che hanno rischiato di dover votare per Storace. Per tacere dei leghisti che dopo aver definitivamente chiuso con Berlusconi alle prossime elezioni voteranno, come da 15 anni a questa parte, Berlusconi; i renziani e i vendoliani che si tureranno il naso e voteranno per il Bene Comune; i liberali che avevano scelto Monti per superare le antiche categorie della politica e si ritroveranno perciò come capolista Casini; i democratici che voteranno Bersani ma sanno già che l'accordo con Casini e Monti è necessario, e così via. Persino molti simpatizzanti delle Cinque Stelle gradirebbero un movimento meno Grillo-centrico, ma i tempi sembrano ancora piuttosto lunghi.

Si sa che i partiti politici non possono soddisfare le esigenze di tutti, ma stavolta più che in passato sembra che nessun partito riesca a soddisfare le esigenze di nessuno. Tra le infinite magagne del porcellum c'è quella di aver creato i più inverosimili compagni di letto. Ingroia mette assieme sinistra extraparlamentare e giustizialisti; gli elettori di Vendola storcono il naso all'idea di andare col Pd; quelli del Pd storcono il naso all'idea di doversi poi associare a Monti; molti sostenitori di Monti si domandano che male hanno fatto per ritrovarsi con Casini e Fini, eccetera eccetera. Gli unici forse a non porsi tutti questi problemi sono gli elettori di Berlusconi, per i quali la scelta è relativamente facile: da una parte c'è il loro campione di sempre, dall'altra tutti i suoi nemici. Berlusconi sta risalendo nei sondaggi anche perché è l'unico a potersi permettere una campagna senza toni compromissori: non ha nessuna strana alleanza da dover spiegare ai suoi elettori, tanto più che il bacino a cui si rivolge apertamente è quello degli astensionisti: gente che o vota per lui o proprio non vota. Se i suoi calcoli sono giusti, se l'Italia è ancora quel Paese che ha capito e infinocchiato così bene negli ultimi vent'anni, forse ce la fa anche stavolta.

Perché la politica italiana è così complicata? (eh, chissà. Se ne parla sull'Unita.it, H1t#163).

Perché dopo vent’anni passati a invocare il bipolarismo, ci troviamo con quattro o cinque “poli” tutt’altro che fermi, anzi in perenne oscillazione, alla ricerca di un equilibrio impossibile? Fingiamo per un attimo di fare tabula rasa delle esperienze e delle personalità, e proviamo a immaginare quanti e quali partiti servirebbero per rappresentare l’Italia di oggi. Partendo da sinistra, sicuramente ci dovrebbe essere spazio per un movimento radicale e ancora un po’ operaista, sulla falsariga della Linke tedesca. Poi potrebbe esserci un partito socialdemocratico con ambizioni maggioritarie, una piattaforma chiara sui diritti civili e sull’ambiente. Alla sua destra, e più o meno al centro dell’arco parlamentare, un partito liberaldemocratico che avrebbe già fatta propria l’agenda Monti. Più a destra i conservatori, cattolici o meno; da qualche parte poi si dovrebbe lasciare spazio per un partito neo-populista antieuropeista, dove troverebbero sfogo anche alcuni localismi (gli autonomismi regionali, ecc). Ecco, meno di cinque partiti davvero non sono riuscito a immaginarli, ma questi cinque almeno non creerebbero tanti problemi di identità ai propri elettori. A rendere impossibile un’architettura del genere ci sono diversi fattori: da una parte il settarismo, dall’altra la disperata determinazione di molte queste sette a non scomparire sotto la soglia di sbarramento, che porta ad apparentamenti grotteschi (Storace+Pannella, ma anche Ingroia + sinistra radicale non scherza affatto). Poi ci sono tensioni trasversali; la pervasività dei cattolici rende difficile capire, per esempio, quale di questi poli non stia difendendo i cosiddetti “valori non negoziabili”: se qualcuno vuole che il prossimo parlamento metta all’ordine del giorno il matrimonio gay o imponga l’IMU alla Chiesa, chi deve votare? Non è affatto chiaro. E poi c’è l’ingombro di Berlusconi, che trasforma ogni consultazione in un referendum su sé stesso. Tutto questo rende il quadro di una complessità che troveremmo perfino affascinante, se dovessimo soltanto osservarla da lontano e non viverci dentro.
Altrove è più semplice, o almeno così sembra da qui. Altrove i partiti riflettono le aspirazioni di blocchi sociali più o meno definiti, che possono vincere o perdere le elezioni (o pareggiarle, a volte succede anche questo senza melodrammi o guerre civili). Altrove non si dà per scontato che il leader di centrosinistra debba automaticamente rivolgersi all’elettorato di centrodestra e viceversa: si può anche vincere semplicemente convincendo il proprio naturale bacino elettorale a non disertare le urne, decifrando le sue esigenze e trasferendole in un programma politico (che poi sotto le elezioni va tradotto in slogan di facile presa). La cosa inquietante è che l’unico leader italiano che si sta comportando così sembra essere Silvio Berlusconi. http://leonardo.blogspot.com
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C'è ancora qualcuno che ci fa i patti

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Negli ultimi giorni, se ho ben capito, è successo che Santoro e Berlusconi si siano messi d'accordo prima della diretta per parlare solo di certe cose e di altre no, ad esempio delle condanne no. Poi è partita la diretta e Berlusconi dopo un po' si è messo a parlare delle condanne di Travaglio. Santoro urlava che non erano i patti, ma era un po' troppo tardi.

Pochi giorni prima Berlusconi e Lega si erano messi d'accordo per andare alle elezioni assieme: dopo aver promesso per tanti mesi ai suoi elettori che non sarebbe successo mai più, Maroni, a malincuore, ha dovuto accettare un'alleanza. Purché Berlusconi non fosse il candidato premier. Ieri sono usciti i bollini dei partiti e su quello del PdL c'era scritto, com'è naturale, BERLUSCONI PRESIDENTE. La morale di tutto questo è la solita.

Forse Berlusconi stavolta non vincerà, ma ce lo meriteremmo. Senz'altro se lo meriterebbe Santoro, e Maroni, e chiunque pensi che con Berlusconi si può scendere a patti. Non si fanno i patti con Berlusconi. A memoria d'uomo, non si ricorda un solo patto che Berlusconi abbia rispettato, da quello famoso con la Retequattro di Mondadori per dividersi le inserzioni pubblicitarie a partire da un lunedì (che eluse facendo lavorare i suoi collaboratori il fine settimana) alle ultime meno esaltanti stagioni in cui persino le olgettine si lamentano di promesse non esaudite. Il tizio è così, sappiamo tutti che è così, ma per un motivo o per un altro ogni tanto ci è utile convincerci che stavolta andrà diversamente, stavolta sapremo giostrarlo a nostro vantaggio. Come se tra bicamerali e inciuci e leggi elettorali non ci avesse sempre fregati tutti. Ma dopotutto Santoro può essere contento dello share, e Maroni adesso è comunque sicuro di salvare giunte e passare lo sbarramento. Insomma alla fine farsi fregare da Berlusconi conviene ancora a qualcuno. Di sicuro non a noi (continua sull'Unita.it H1t#162).

Quando la settimana scorsa ho scritto che Berlusconi si comporta da provocatore, da troll, e che cedere alle sue provocazioni significa sempre fargli un favore, alcuni mi hanno iscritto al partito trasversale di quelli secondo i quali di Berlusconi non si dovrebbe più parlare. Tutti zitti, alla Veltroni, al limite tappandosi occhi e orecchie nei periodi di particolare recrudescenza, come questo. Mi devo essere spiegato davvero male. Io penso che di Berlusconi si debba parlare, e tanto, ma soprattutto contro B. si debba agire in modo concreto, affinché non danneggi più la democrazia di questo Paese, come ha fatto negli ultimi vent’anni. Se uno ritiene in coscienza che Berlusconi abbia tradito gli italiani, abbia abusato della loro credulità, e abbia approfittato in modo criminoso del credito che gli è stato concesso, non gli offre una tribuna televisiva. Non si scende a patti con ladri e truffatori, mi sembra autoevidente. Se per qualcuno così evidente non è, ebbene, è un motivo in più per continuare a sottolineare quanto B. sia ladro e quanto sia truffatore. Molta gente ancora non l’ha capito, il che dopotutto non è sorprendente visto che a volte fingono di non averlo capito nemmeno Maroni, o Santoro, o Travaglio, o chiunque scelga di venire a patti con lui.
Il problema non è parlare o non parlare di Berlusconi, il problema è sempre come parlarne. Non basta documentare che è un brigante, un incapace e un allupato, visto che a molti italiani piace evidentemente così: brigante, incapace, allupato. Quel che forse bisognerebbe denunciare con più forza è che il brigante, in tutti questi anni, ha rapinato noi: che la condizione orribile in cui si è trovata l’Italia negli ultimi anni è un risultato diretto della sua incapacità: che le mazzette per le sue veline le ha prese dalle nostre tasche; le stesse da cui ha sifonato milioni e milioni di euro per l’operazione più patetica mai vista, il finto salvataggio dell’Alitalia. Gli italiani conoscono il ladro, e lo stimano per la sua indiscutibile faccia tosta: forse dovrebbero ragionare più spesso sull’identità delle vittime, tutto qui. Il resto sono chiacchiere, e delle chiacchiere resta il principe. Anche se lui ha sempre preferito farsi chiamare Presidente.http://leonardo.blogspot.com
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I volenterosi coglioni di Berl.

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Quasi sette anni fa - qualcuno se ne ricorderà - Silvio Berlusconi movimentò gli ultimi giorni di campagna elettorale dichiarando che avrebbe vinto perché gli italiani non potevano essere in maggioranza "così coglioni da votare contro i loro interessi". Quel che successe a quel punto illustra bene il funzionamento paradossale del berlusconismo; non fu Forza Italia o la Lega a riprendere la frase e a trasformarla in uno slogan, ma i militanti di centrosinistra, nel tentativo di rovesciarla in senso ironico. Le iniziative di qualche blog (i social network erano ancora pochissimo diffusi) avrebbero avuto comunque un'eco piuttosto ridotta, se Repubblica-Kataweb non avesse deciso di dare un risalto nazionale alla "rabbia sul web" nata dal "tam tam on line", lanciando una petizione e pubblicando gli autoscatti dei lettori che si autodenunciavano ("io sono un coglione"). Le elezioni Berlusconi le perse per un soffio - in un certo senso le pareggiò - ma se si considerano i sondaggi di partenza, la campagna del 2006 fu uno dei suoi più notevoli risultati politici; probabilmente l'episodio dei coglioni non fu determinante, ma ci ricorda le regole del gioco. Mentre avversari (e anche alcuni alleati) convergono verso il centro, nella speranza di attirare gli indecisi, Berlusconi cerca di motivare i suoi elettori esponendosi allo sdegno degli avversari, accreditandosi come la vittima dell'ostilità comunista, giustizialista, eccetera eccetera (continua sull'Unita.it, H1t#161).

L’atteggiamento provocatorio (oggi che siamo tutti su internet potremmo definirlo trolling) gli riesce tanto più congeniale quanto più è istintivo; Berlusconi non ha bisogno di un tavolo di spin-doctors per definire “coglioni” gli elettori di sinistra, o consigliare un otorino a Lilli Gruber, o un ruolo di kapò a un europarlamentare. Sono cose che gli vengono naturali; le dicesse un altro, geleremmo di imbarazzo; le dice lui, ed è una festa per tutti. Non vediamo l’ora di propagarle via twitter o facebook, non vediamo l’ora di condividerle e riderci su. Questo tipo di attenzione scandalizzata è esattamente quello che va cercando, senz’altro con più affanno che in passato. La principale differenza, oltre all’età che si fa sentire, è il presenzialismo televisivo: Berlusconi aveva sempre mantenuto una certa distanza dai talk-show, anche in contesti per lui confortevoli come da Vespa si era sempre fatto organizzare dei monologhi, annessa claque e attrezzi di scena (la lavagna, il contratto con gli italiani). Ora che non può più permettersi di mandare avanti i portavoce, è ragionevole immaginare un’impennata di gaffes e provocazioni – confusamente lo sappiamo tutti, che B. è solo all’inizio, che le “giudichesse comuniste” sono un semplice antipasto. Lo sappiamo e siamo ansiosi che si scateni stasera da Santoro: senonché, che altro potrebbe dire o fare Berlusconi, che non abbia già fatto o detto negli ultimi vent’anni? Un Mussolini statista? Già fatto. Un Obama abbronzato? Fatto. Si è già paragonato a Cristo? Sì. D’altro canto è prerogativa degli artisti riuscire sempre a stupire, ed è ragionevole immaginare che ci riuscirà, e che i titoli più grandi dei giornali di venerdì saranno per lui. Dopodiché, dipenderà anche da quanto siamo coglioni. http://leonardo.blogspot.com
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Come cinguettare in campagna

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Ormai ci siamo, la campagna elettorale sta per iniziare. Tra poco conosceremo i candidati, e a quel punto succederanno cose diverse dal solito. Per esempio, cosa sarà di Twitter? Un mezzo semplice, gratuito, modernissimo, alla portata di tutti: potranno resistere, migliaia di candidati in tutt'Italia, alla tentazione di conquistare un po' di elettori sul social network più sintetico e in voga, lanciando slogan, sperimentando salacissime battute, cercando il dialogo con i follower? Temo proprio di no. Insomma, stanno per aprirsi le cataratte del ridicolo. Bisogna fare qualcosa, qualcosa che non sia necessariamente prepararsi i popcorn. E così, cari aspiranti parlamentari, ecco il mio Decalogo per Cinguettare in Campagna Elettorale Senza prendersi troppe beccate e schizzi di guano. Chi sono io per fare un decalogo? Non ha la minima importanza, sono uno che usa un po' twitter per i fatti suoi come chiunque. Per cui vedi all'art. 1.

1. Qualsiasi espertone voglia prenderti dei soldi per insegnarti a usare twitter ti vuole rifilare un pacco. Non hai speso soldi per imparare ad andare in bicicletta, ce la puoi fare anche con twitter. Tutto quello che ti scriverò qui sotto è orribilmente ovvio.

2. Twitter, in sé, non sposta un voto. Non lo farà. È inutile che cerchi di sembrare interessante, divertente, appassionato, quel che vuoi. E se ci provi per parecchio tempo, ti farai male del male da solo. Infatti, se vai all'art. 3 scopri che

3. Uno degli scopi principali di Twitter è far perdere del tempo a gente che, evidentemente, questo tempo da perdere ce l'ha. Magari anche tu ce l'hai, però tra due mesi si vota, rifletti bene. Porteresti a riparare la tua auto da un meccanico che è su twitter continuamente? Voteresti un tizio che twitta compulsivamente? No, e faresti bene. Per cui: hai già un profilo su twitter, e lo usi per cazzeggio? Chiudilo, sospendilo, metti un cartello che dica pressapoco "sono impegnato a vincere le elezioni e salvare l'Italia, ci vediamo tra un po'". Fa' vedere che non hai tutto questo tempo da perdere, in amore e su twitter vince chi fugge.

4. D'altro canto twitter costa infinitamente meno di un lancio d'agenzia, e quindi, se non hai un profilo ufficiale da candidato, forse è il caso di aprirlo. Per scriverci le stesse cose che dichiareresti ai giornali. E qui arriviamo al vero problema: cosa dichiareresti ai giornali? Che ti ha fatto ridere il tweet del candidato Sarcazzo che non conosce l'0rtografia? Non sei un vitellone al bar, magari lo eri il mese scorso; adesso sei un candidato alla Camera dei Deputati o al Senato della Repubblica, hai comprato almeno una cravatta? Comportarsi bene su twitter costa anche meno (continua sull'Unita.it, H1t#160).

5. Ma cosa li scrivi a fare gli slogan su twitter, sei un deficiente? Per lo stesso motivo per cui non si mettono i manifesti col tuo bel faccione nel punto in cui sei statisticamente sicuro che ci cacherà un cane, non si mettono gli slogan su twitter, dove si possono rimediare soltanto sberleffi e parodie. Tanto comunque non sposti un voto, ma almeno mostri di capire la differenza tra un social network e una bacheca pubblicitaria, magari un elettore su centomila apprezzerà che non interrompi il suo flusso di news e chiacchiere di amici con degli spot pubblicitari; e butta via.
6. E quindi cosa scriverai? Dichiarazioni ufficiali, di quelle assolutamente necessarie. Poche. Brevi. Senza repliche. Agenda degli impegni: nessuno verrà a sentirti a Buco di Sotto perché lo ha letto su twitter, ma almeno sapranno che ti stai dando da fare. E se hai un discorso più lungo e complesso da fare?
7. Se hai un discorso più lungo e complesso da fare, twitter non è il posto adatto. Non fare come i bimbominchia e Veltroni che fanno i tweet a puntate, riflettici bene: hai mai letto un tweet a puntate? Chi si legge i tweet a puntate? Metti il tuo discorso lungo su un blog e linkalo con un titolo interessante su twitter facebook e anche google plus, crepi l’avarizia. Se il titolo è interessante la gente cliccherà e leggerà. Se non sai scrivere titoli interessanti, affitta qualcuno bravo con i soldi che hai risparmiato mandando a quel paese il tizio che voleva farsi pagare per spiegarti come si va in bicicletta o su twitter.
8. Altri replicheranno. Se non è Napolitano Obama o Elvis Presley, ignorali. Tutti i discorsi sul medium orizzontale, lasciali ai gonzi che commentano beppegrillo.it (e Grillo, giustamente, non gli risponde). Nessun social network è veramente orizzontale e tu non hai proprio tempo per rispondere al primo che passa. Hai un lavoro da fare, una missione. Ti fermi solo un attimo per lasciare un avviso con le cose che stai facendo, e te ne vai. La gente ha diritto di prenderti in giro, tu hai il dovere di pensare a cose più importanti. Se non sai gestire  il dibattito lascia perdere twitter, o fallo scrivere a un collaboratore che sappia gestirlo.
9. Si stima che un candidato al parlamento della Repubblica un minimo di 140 caratteri senza errori di ortografia punteggiatura e sintassi dovrebbe riuscire a buttarli giù – Monti non ce l’ha fatta, ma quelli sono bocconiani, mica si può pretendere. Comunque un errore può scappare a tutti: si cancella e si riscrive. Se è passato troppo tempo, amen, la gente ti prenderà in giro: vedi al punto 8. Fregatene; se ti chiederanno conto della cosa risponderai che non sei bravo a trovare gli apostrofi col tablet, forse che importa qualcosa a qualcuno? Hai di meglio da fare che trovare gli apostrofi sui tablet, vivaddio.
10. I cancelletti (#), solo se lo ritieni necessario e sempre con la condiscendenza con cui balleresti la macarena alla festa di compleanno di tua figlia di sette anni. Se non hai capito di cosa sto parlando lascia pure perdere, tanto la possibilità che qualcuno rintracci il tuo fondamentale tweet tra un milione usando il cancelletto è inferiore a quella di conquistare dei voti su twitter, per cui vedi all’articolo 2.
Ecco qui. A dire il vero è parecchia roba, forse è un po’ complicata da ricordare. Ma se vuoi si può sintetizzare così: hai presente Mario Adinolfi? Ecco, il contrario.
E ora vai, giovane candidato (ma anche vecchio), twitter è tuo. Sarai un po’ noioso, non avrai molti follower, non farai molti danni, e alla fine della fiera prenderai gli stessi voti che avresti preso senza. Con qualche figuraccia in meno, sputaci su. http://leonardo.blogspot.com
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Ichino, lui sì che è flessibile

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Questa campagna elettorale-lampo ci costringe a vere e proprie tappe forzate. In un solo giorno per esempio ci siamo bevuti la conferenza stampa di Monti e la lunga sbroccata di Berlusconi a Domenica In. Ma non è tutto, nel frattempo stavamo anche in pensiero per il senatore Pietro Ichino.

Il giuslavorista infatti sabato aveva annunciato in un'intervista al Corriere che non si sarebbe più ricandidato nelle file del PD. E quindi per esempio io stavo già scrivendo una lettera aperta, implorandolo di ripensarci, di presentarsi alle primarie, di lasciare che fossero gli elettori del PD a decidere se candidarlo o no... ma intanto Ichino era già lontano, in questa campagna-lampo chi si ferma è perduto. Verso sera circolavano già le anticipazioni di una sua intervista alla Stampa in cui annunciava di essere pronto a candidarsi in una lista montiana in Lombardia.

E così, insomma, è ufficiale: Pietro Ichino ha lasciato il PD. Poco più di un mese fa, come tutti i sostenitori e tesserati, aveva sottoscritto un impegno a votare per il proprio partito, chiunque avesse vinto le primarie. Appena un mese fa, all'inizio della campagna per il ballottaggio, Matteo Renzi aveva annunciato che in caso di vittoria avrebbe proceduto con la riforma Ichino "senza più tavoli, gcommissioni, lunghe mediazioni". Ichino del resto aveva già pubblicamente esultato per quel 35% ottenuto da Renzi al primo turno, che a suo avviso dimostrava come le sue idee fossero condivise da un settore assai più ampio di quello che un anno fa gli aveva attributo il responsabile economico del partito, Stefano Fassina ("Una linea ha il 2 per cento, l’altra il 98 per cento. Io capisco Ichino. Lui rappresenta quel 2 per cento e per farlo valere, per difenderlo ha bisogno di andare sui giornali tutti i giorni"). E però, anche ammesso che tutti gli elettori di Renzi avessero ben chiaro il contenuto della bozza Ichino, resta il fatto che il 35 per cento, o persino il 40, pur essendo una percentuale rilevante, non è la maggioranza: così come Renzi, pur festeggiando l'ottimo risultato, ha ammesso la sconfitta, anche Ichino avrebbe dovuto accettare il fatto di rappresentare nel suo partito una posizione importante, ma minoritaria.

Invece se n'è andato, (continua sull'Unita.it, H1t#159; racconta anche della misteriosa firma di Ichino sul pdf dell'Agenda Monti divulgato dal Corriere).

Invece se n’è andato, dopo aver lanciato dal Corriere uno strano ultimatum a Bersani (“prenda una posizione molto chiara, correggendo nettamente la posizione di Fassina“), di quelli irricevibili, specie durante una campagna elettorale. Nel frattempo al telefono con Renzi ribadiva la sua intenzione di partecipare alle primarie della sua città senza farsi cooptare in nessun listino bloccato, tanto che il sindaco di Firenze si proclamava “Orgoglioso di essere nella stessa squadra di persone come Pietro Ichino”! Poi però ha cambiato squadra, in modo abbastanza improvviso. D’altro canto qui la situazione cambia tutti i giorni, nuovi partiti si formano e disgregano in ogni momento, e se la situazione è così magmatica non se ne può fare una colpa al professor Ichino.
Tanto più che la famosa “agenda Monti” pubblicata ieri sul sito del Corriere è un testo veramente molto ichiniano. Non solo nei contenuti: come ha notato per primo credo Paolo Ferrandi, l’autore del documento pdf scaricabile sul Corriere si chiama “Prof. Pietro Ichino”. Questo in sé non significa nulla: potrebbe trattarsi di uno scherzo di dubbio gusto, o di una versione passata effettivamente da un computer di proprietà del “prof. Ichino”, ma soltanto per essere convertita da documento di testo modificabile a documento in formato pdf, prima di essere inviata al Corriere. Senz’altro nelle prossime ore il professore spiegherà come sono andate le cose, sul Corriere o sulla Stampa o anche qui. Fugherà probabilmente il dubbio di avere scritto lui il punto tre dell’agenda Monti: di avere programmato insomma il cambio di sella da alcuni giorni, magari gli stessi in cui confessava ai suoi lettori di sentirsi attratto dalla “prospettiva di una vita più tranquilla e meno faticosa, con più tempo per tante cose belle e buone che ho lungamente trascurato”, e intanto chiedeva a Bersani di correggere Fassina, e commuoveva Renzi con la sua abnegazione. http://leonardo.blogspot.com
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La Morte a Cologno

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Sabato ho visto qualcosa di orribile in tv: alla trasmissione serale di Canale 5, che non so perché ha cambiato nome (adesso si chiama Posta prioritaria), c'era un ridicolo signore che cercava di riconquistare la fidanzata perduta 57 anni prima. Sulle sue rughe diffuse chiazze di rossore ricordavano, più che una lampada UV, una dermatite. A coronare l'orrore il toupet della mamma di Psycho. In una lingua incerta il tizio vantava meriti misteriosi, in arti o mestieri solo a lui noti. Persino una professionista consumata come Maria De Filippi non riusciva a trattenere le risa. Io mi vergognavo per loro, per me e per chiunque al sabato sera non trova di meglio che deridere un vecchio patetico.

Domenica ho visto di nuovo qualcosa di orribile in tv: alla trasmissione serale di Canale 5, che non so perché ha cambiato nome (adesso si chiama Domenica live), c'era un altro vecchietto ridicolo che cercava di riconquistare un popolo perduto appena un anno fa. Sullo sfondo blu della scenografia il suo volto arancione sembrava artificiale come un cartone animato 3d. A coronare l'orrore l'uomo, calvo da anni, si era fatto disegnare i capelli sulla cute. Al termine di un lungo vaniloquio, ha persino fatto proiettare un filmino di quando era più giovane e in una lingua solo a lui nota aveva fatto un discorso all'estero molto applaudito. Nel frattempo Barbara D'Urso riusciva a restare seria, questo sì che è professionismo (continua sull'Unita.it, H1t#158 - il blog sull'Unità compie tre anni, grazie a tutti).

Credo che saremo in molti a usare il termine “patetico”, stamattina, per quel Berlusconi ridotto a raccontare orribili storie di comunisti che uccidono i bambini e  l’ennesima favola sul caso Ruby, o a vantare la fidanzata di 50 anni più giovane. Ridere di lui è sempre stato facile, ma ormai è un riflesso involontario. In fondo è sufficiente avere il senso dell’umorismo di quelli che al sabato sera ridono dei casi umani al programma di Maria. Prendersi gioco del vecchio Berlusconi è terribilmente berlusconiano. Ed è altrettanto terribilmente sbagliato.
A costo di guastare il divertimento, tocca ricordare quello che è successo davvero ieri: un leader di un grande partito, candidato alla presidenza del consiglio, ha usato un’emittenza nazionale di sua proprietà per aggredire i suoi avversari politici con accuse false e infamanti, dalle quali non è stato risparmiato nemmeno il presidente della repubblica. Il tutto organizzato in fretta e furia per aggirare le norme sulla par condicio che scatteranno non appena si conoscerà la data delle elezioni. Anche stavolta, come in passato, Berlusconi ha fatto un uso criminoso delle sue tv – che poi sono ‘sue’ semplicemente perché, dopo aver violato una legge per più di un decennio, vinse le elezioni e si fece scrivere una legge su misura. Tutto questo non dovrebbe essere consentito, ancora prima che dalla legge, da un minimo senso di decenza. Quello che abbiamo perso da anni, da quando abbiamo scelto di ridere di Berlusconi invece che prenderlo sul serio, mortalmente sul serio.
Non ha nessuna importanza che siparietti come questi (forse) non funzionino più; che il programma che li ospita sia in crisi di ascolti; che il mattatore ormai sia una maschera ingessata incapace di infondere empatia ai suoi discorsi sempre più autoreferenziali, sempre più intrisi di rimpianti e recriminazioni per quello che è successo, sempre meno rivolti al futuro. Non ha nessuna importanza se il signore che ci molesta è un vecchietto ridicolo: ci sta molestando lo stesso; l’intenzione di farci del male c’è tutta, e il tizio è ancora pericoloso. http://leonardo.blogspot.com
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Nel 2013 quanto costerà un grillino

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Caro sostenitore del Movimento 5 Stelle - spero che apprezzerai il fatto che non ti chiamo "grillino". Il fatto è che non credo, non voglio credere, che il vostro movimento si esaurisca in Grillo. Credo che sia stato un volano incredibile, e che gli dobbiate molto, ma pure che presto o tardi dovrete imparare a fare a meno di lui. Sono convinto che in fondo anche lui pensi la stessa cosa. Nel frattempo ci sono queste parlamentarie che, al netto di tutte le ironie sui videomessaggi, sembrano un esperimento interessante.

Caro sostenitore del M5S, io non conosco molto i tuoi candidati, non so chi dovresti mandare in parlamento. Se le cose continuano così, l'anno prossimo non saranno in pochi a trasferirsi in zona Montecitorio - Palazzo Madama. Di sicuro non peggioreranno l'ambiente, difficilmente potranno fare peggio di molti che frequentano le stesse sale in questo momento. Ma una volta arrivati lì i tuoi parlamentari saranno sottoposti a una pressione incredibile, ed è ragionevole pensare che molti cederanno: abbandoneranno Grillo e il M5S. Provo a spiegarti il perché.

L'articolo 67 della Costituzione dice che "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". In pratica il popolo è sovrano solo nel momento in cui elegge i suoi delegati, dopodiché costoro possono scegliere di cambiare idea, e votare leggi indigeste ai propri elettori, che finché dura la legislatura non hanno nessuno strumento per mandarli a casa. Quindi un eletto può fare quel che gli pare? Sì, ma sa che al massimo dopo cinque anni i suoi elettori gliene chiederanno conto, e se si è comportato male non lo rieleggeranno - in generale i politici ci tengono tantissimo a essere rieletti. Tranne i vostri (che per ora però non si sono ancora seduti su quelle maledette poltrone). I vostri per ora sono diversi, se non altro perché un punto fondamentale del programma è il tetto dei due mandati. E siccome questo tetto non vale soltanto per i parlamentari, ma per tutte le cariche pubbliche, i partecipanti alle parlamentarie che hanno già avuto una carica di qualsiasi tipo, qualora arrivassero davvero a Montecitorio o a Palazzo Madama, sanno di non poterci restare per più di una legislatura: cinque anni massimo, poi aria.

Non solo, ma in quei cinque anni non guadagneranno parecchio: il M5S si fa vanto di voler restituire tutti i finanziamenti che riceve, e per ora lo ha fatto. E tuttavia certi benefits non si possono semplicemente restituire. Quel che succederà ad alcuni militanti, capultati dalle parlamentarie a Montecitorio, sarà umanamente molto complesso: nel giro di pochi giorni entreranno a far parte della Casta - vi entreranno recalcitranti, d'accordo, ma siederanno agli stessi tavoli, berranno alla stessa buvette, cominceranno a compilare gli stessi rimborsi spese. I primi giorni saranno esilaranti.

Poi comincerà il mercato delle vacche (continua sull'Unita.it, H1t#157)

Caro sostenitore del Movimento 5 Stelle, probabilmente non ignori che il prossimo parlamento, se davvero non si riuscirà a modificare la legge elettorale, rischia di trovarsi in una situazione di stallo, senza una maggioranza. Il più accreditato a vincere le elezioni per ora è il PD di Bersani, ma non è detto che abbia abbastanza seggi per sostenere un governo stabile. Per questo motivo Bersani ha concluso un’alleanza con SEL, e ha messo più volte nero su bianco la disponibilità ad allearsi con l’UDC – che però non è detto che passi la soglia di sbarramento e riesca a portare davvero qualcuno alla Camera, e soprattutto al Senato. Ma anche in quel caso, sarebbe una maggioranza molto instabile, in cui dovrebbero convivere postcomunisti e amici di Cuffaro. Quindi? Quindi qualsiasi parlamentare da fuori volesse unirsi a una maggioranza di questo tipo sarebbe sicuramente molto, molto ben accetto. Certo, tradirebbe la fiducia dei suoi elettori, ma troverebbe ponti d’oro disponibili a traghettarlo in altri partiti, dove tutti sarebbero ben lieti di stringersi per fargli posto. Non solo. In situazioni del genere si possono fare offerte irrifiutabili: qualche sottosegretariato importante, qualche posto in qualche commissione. Quando parlavo di mercato delle vacche mi riferivo a questo. È un’antica prassi nel nostro parlamento, ancora più antica della costituzione e della repubblica. Se non hai una maggioranza, te la procuri. Là fuori c’è una forte pressione a trovare una maggioranza, e non si andrà per il sottile. Tanto più che si dovrà quasi subito nominare l’inquilino del Quirinale, e la storia recentissima ha dimostrato che di tutto si tratta tranne che di una semplice figura simbolica.
Naturalmente posso sbagliarmi. Può darsi che nessun parlamentare a cinque stelle cederà alle pressioni dell’ambiente, e che tutti resteranno fedeli a un Movimento che li costringe a restituire gran parte dei loro fondi, e che comunque a molti di loro non rinnoverà la fiducia dopo un primo mandato. Se andrà così, significa che tu, che voi (e Beppe Grillo, e Casaleggio) sarete riusciti a selezionare una classe politica incorruttibile, disposta a seguire le direttive di voi elettori perinde ac cadaver, come zombies teleguidati. Consentimi però di dubitarne. In fondo persino Di Pietro, uno dei pochi politici che rispettate, è riuscito a portare in parlamento personaggi come Scilipoti o Sergio De Gregorio. I militanti a cinque stelle che avranno la ventura di sedersi tra i banchi del parlamento saranno, per lo più, uomini e donne con pregi e difetti, come quelli che abbiamo visto eletti nelle amministrazioni locali. Sarà sempre più difficile per loro eludere l’attenzione di stampa e tv: di questo Grillo potrà incazzarsi, ma non potrà farli dimettere. Tra di loro potrebbe anche esserci qualche leader naturale, che polarizzi l’attenzione e che la distolga dal comico genovese. Potrebbe persino essere un bene.
Ma ci sarà facilmente anche chi tradirà, e accetterà di entrare in questa o quella coalizione governativa. Il bello è che non avrà nemmeno la sensazione di tradire: come Scilipoti, sarà convinto di fare il bene dell’Italia mentre si preoccupa di fare del bene a sé stesso. Se per esempio è un ambientalista, si convincerà di poter fare qualcosa di buono per l’ambiente all’interno di qualche ministero o commissione. Ma intanto non sarà più costretto a rendere i soldi che gli spettano; non sarà più soggetto ai diktat di un “capo politico”; e il suo nuovo partito non lo costringerà a mollare dopo il secondo mandato. Sarà veramente difficile per lui resistere alla tentazione.
Dunque, caro sostenitore del M5S, quale candidato devi scegliere? Davvero non saprei. Magari mentre dai un’occhiata ai videomessaggi, prova a pensare alle stesse persone mentre entrano, un po’ spaventate, nel transatlantico di Montecitorio. Immaginali tra i banchi mentre seguono le discussioni. Prova a figurarteli mentre qualcuno offre loro la possibilità di entrare in un altro partito, uno dei partiti veri, quelli che non restituiscono i finanziamenti. I candidati che cerchi, forse, sono quelli impermeabili alla casta. Ma com’è fatto un candidato impermeabile alla casta? Bella domanda, non saprei proprio rispondere.http://leonardo.blogspot.com
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Vinci prima tu

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C'è stato un momento, ieri sera, in cui credo che tutti abbiamo capito chi aveva vinto il dibattito. Alla fine di un break pubblicitario, quando davanti a noi si è materializzato all'improvviso Bruno Vespa, e con lui una carrellata di personaggi che sullo sfondo azzurrino di Porta a Porta non ci erano mai sembrati così esili, fragili, grigi: la Santanchè, Lupi, la Gelmini, persino la Meloni. La sigla era la solita da vent'anni a questa parte, l'immagine sembrava sbiadita come certe vhs che non abbiamo più tolto dallo scatolone dell'ultimo trasloco.

È stato quello il momento in cui abbiamo tutti capito chi aveva vinto il dibattito. Pochi secondi dopo abbiamo rivisto due candidati credibili alla presidenza del consiglio scambiarsi frecciate e battute cordiali. Non sembrava Rai1, non sembrava nessuna litigiosa tribuna televisiva di qualche anno o mese fa. Il dibattito lo ha vinto il PD, che non è mai stato così interessante, così vivace, così credibile. Qualunque sia il vincitore di queste primarie, il PD ne esce molto più forte di come ci era entrato.

Ha vinto Renzi? (continua sull'Unita.it, H1t#156). Dei due, Renzi era quello obbligato a vincere; giocava il match della vita e non lo ha giocato malissimo – ma non lo ha nemmeno stravinto, mi pare che Bersani si sia difeso bene. Lo sfidante ha insistito molto (troppo, secondo me – ma sono di parte) sugli errori commessi dalla sinistra negli ultimi vent’anni: un tema molto caro al suo zoccolo duro, e che può intercettare qualche consenso al centro e a destra (ammesso che poi vadano a votare); ma nemmeno lui probabilmente pensa di poter recuperare il 9% così. Viceversa, ha platealmente evitato di dire qualsiasi cosa di vendoliano: per sua esplicita ammissione, quei voti non gli interessano (d’altro canto negli ultimi giorni ha più volte segnalato la sua totale adesione alle proposte di Ichino, forse il modo più semplice di chiarire le idee ai vendoliani ancora indecisi). Ha persino ammesso che preferisce perderle, le primarie, se non riesce a far capire al Sud che è venuto “il momento della scossa”. Credo che l’affermazione abbia un senso più generale: piuttosto che fare concessioni e annacquare i suoi contenuti, Renzi queste primarie preferisce perderle.
Il 35% per un outsider è un ottimo risultato, destinato a migliorare al secondo turno.  Bersani è un avversario leale e forse Renzi si vede già leader di una robusta corrente di minoranza. Questo magari non è del tutto coerente con la tanto sbandierata vocazione maggioritaria, ma è l’opzione più realistica e anche più comoda – dal momento che chi vincerà e governerà si ritroverà nella situazione più delicata dal secondo dopoguerra. Io, lo ammetto, non credo che Renzi sia la persona più adatta per quell’incarico. Quel che è più interessante è che lo stesso Renzi non sembra tenerci più di tanto. http://leonardo-blogspot.com
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La timidezza del renziano

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Può darsi che i tre milioni di elettori delle primarie del centrosinistra 2012 non siano esattamente gli stessi tre milioni delle primarie del PD 2009; in ogni caso la coincidenza mi sembra il dato più suggestivo. È come se il PD fosse destinato, dalla nascita, a essere il partito delle primarie: anche quando ospita personaggi di altri partiti, il bacino elettorale che mobilita è lo stesso: tre milioni, e stop. Era ragionevole pensare che Vendola portasse qualche centinaia di migliaia di elettori da sinistra; che altri, un po' più difficili da quantificare ne arrivassero dal centro, attirati da Renzi (e da Tabacci...) Pare proprio che non sia andata così. Molti osservatori poi insistono sul fatto che tre milioni sono comunque tanti, nella notte dell'antipolitica. Può darsi. Ma può anche darsi, semplicemente, che alle primarie voti sempre più o meno la stessa gente, che le si chiami primarie "del PD" o di qualcos'altro. Chi si sente un po' di sinistra se c'è un Vendola voterà Vendola; se non c'è abbozzerà e voterà la cosa più di sinistra che trova. Tre anni fa votò probabilmente Bersani, e un po' Marino; stavolta vedremo.

Renzi - che avrebbe più di un motivo per ritenersi soddisfatto - aveva più volte alluso a sondaggi favorevoli, in grado di sovvertire un pronostico che per la verità era abbastanza prevedibile. In particolare i renziani si erano affezionati a un dato - l'affluenza di quattro milioni invece che di tre - su cui hanno insistito a lungo, anche sfidando l'evidenza. Forse si trattava di un semplice ottimismo della volontà. O forse non avevano calcolato lo shy factor, il "fattore timidezza" (continua sull'Unita.it, H1t#155).

Il termine fu coniato negli anni Novanta dai sondaggisti britannici dopo aver sottostimato per l’ennesima volta il risultato elettorale dei Tories. Evidentemente l’elettore-tipo conservatore era più timido dell’elettore laburista, e confessava meno volentieri la sua scelta a chi lo intervistava prima del voto. Si scoprì in seguito che questa ritrosia dell’elettore moderato, lo “shy tory factor”, era comune a molti Paesi occidentali. In Italia nel decennio seguente i sostenitori di Prodi e Veltroni commisero più di una volta l’errore di non calcolare uno “shy berlusconian factor: arrivarono alle elezioni con sondaggi falsati, che non tenevano conto delle intenzioni di voto di molti berlusconiani ‘timidi’, invisibili ai sondaggi ma decisivi nelle urne. Può darsi che un certo tipo di shy factor esista anche a sinistra, e che sia in parte responsabile degli errori commessi dallo staff di Renzi.
Non si tratta semplicemente della timidezza di qualche elettore bersaniano, nel momento in cui votare Bersani può significare per alcuni scegliere l’apparato, la conservazione. Ben più decisiva potrebbe essere stata la timidezza di molti che a detta dei sondaggi sosterrebbero Renzi, al punto di votare magari per lui… in primavera; non però adesso, alle primarie. Per fare le primarie bisogna avventurarsi in sedi di partito, biblioteche, bocciofile e altre botteghe più o meno oscure, dove molti elettori di Renzi hanno diffidenza a entrare. Il che magari è comprensibile, e tuttavia significa che per ora non sono realmente elettori di Renzi, e forse non lo diventeranno mai.
Può darsi che questa timidezza non sia emersa dai sondaggi. Può darsi che ci sia un numero non irrilevante di sostenitori di Renzi che lo sono soltanto al telefono, se qualche sondaggista gli pone la domanda in certi termini: chi voterà, chi voterebbe alle primarie del centrosinistra? Può darsi che a questa dichiarazione di intenti non corrisponda, un po’ troppo spesso, una reale disponibilità a iscriversi alle primarie e poi votare davvero. Questo era così ovvio che i renziani si sono più volte lamentati delle procedure, a detta di molti troppo farraginose, palesemente escogitate per demotivare i timidi. In realtà da quel che ho capito le file non dovrebbero essere state molto più lunghe del solito (nel mio seggio siamo passati dalla mezz’ora di Prodi 2005 ai tre minuti, più rapidi di così non si poteva, a proposito grazie a tutti). Del resto la realtà è l’ultimo dei problemi. Non ha nessuna importanza che le code fossero quasi ovunque cortissime: l’importante è che molti elettori, specie dell’area renziana, si siano convinti che sarebbero state lunghe.
Sul concetto di coda, sui “quindici minuti” che era necessario e indispensabile perdere, Renzi e i suoi collaboratori hanno insistito con un autolesionismo quasi sospetto. Siccome non sono tutti novellini; Renzi per esempio non lo è, e c’è gente che lo è molto meno di lui. È da mesi che si vantano di riuscire ad attirare un elettorato, per così dire, non nativo nel centrosinistra; un elettorato di cui si può ben prevedere la timidezza, la ritrosia: eppure hanno continuato a parlare fino all’ultimo di “quindici minuti” e di code ai seggi, gli argomenti meno adatti a smuovere dal divano un timido sostenitore renziano in un giorno di pioggia (mentre in tv la Ferrari si gioca il mondiale). Se non è stato un colossale errore, e mi sembra offensivo pensarlo, non resta che pensare a tattica già post-elettorale. Forse Renzi e i suoi non si stanno facendo nessuna reale illusione sulle possibilità di giocarsela; forse sono già in cerca di buone scuse per la sconfitta. Perdere per questioni procedurali, quasi per un vizio di forma, è decisamente meglio di perdere perché non si è riusciti a motivare abbastanza il proprio elettorato di riferimento. Che è timido, sì, non è mica un delitto. E forse aspettava soltanto l’input, la motivazione giusta per scattar giù dal divano. Da questo punto di vista il tag #15minuti non era proprio il massimo, diciamo. http://leonardo.blogspot.com
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Il Paese più strano del mondo

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Ieri pomeriggio, mentre leggevo qualche pezzo sui bombardamenti tra Gaza e Israele, ho fatto una cosa che di solito preferisco evitare. Ho controllato quanta gente stesse morendo, in quelle stesse ore, qualche centinaio di chilometri più a nord, in Siria. Mi sono bastati pochi secondi per scoprirlo: 101 vittime nella giornata di ieri, tra cui sei bambini. Non so se qualche telegiornale ne abbia parlato. Non credo che nessuno vi abbia sottoposto via facebook le eventuali immagini delle vittime straziate dai bombardamenti. E tuttavia anche quelli sono bombardamenti, anche quelle sono vittime, e la Siria non è in nessun modo più lontana a noi della Striscia di Gaza. In realtà non avevamo bisogno dei fatti tragici di questi giorni per renderci conto che Israele e Palestina ci interessano di più, ci hanno sempre interessato di più di qualsiasi conflitto regionale. Resta comunque lo stupore, che forse vale la pena di coltivare: Damasco e Gerusalemme distano quanto Milano e Bologna. In poco più di duecento chilometri si combattono due guerre: una richiama fotografi e giornalisti da tutto il mondo, l'altra non se la fila nessuno. Perché?

Ci sono tanti motivi. Alcuni perfino comprensibili. L'inerzia, tanto per cominciare: le guerre vanno e vengono, ma i bombardamenti tra Gaza e Israele sono da troppo tempo, ormai, un appuntamento fisso. È una storia che conosciamo già, o almeno crediamo di conoscere; gli attori in campo sono vecchie conoscenze, Hamas e Likud parole entrate nel nostro vocabolario dieci o vent'anni fa che ormai non abbiamo più paura a usare, anche a sproposito; viceversa quel che accade in Siria è il classico esempio di matassa geopolitica che diventerà chiara solo quando si sbroglierà in un senso o nell'altro, e nel frattempo non vogliamo farci fregare. Magari ci scotta un po' la fiducia che abbiamo riposto nelle primavere arabe di un anno fa. In fondo siamo occidentali, tendiamo a identificarci e a empatizzare con una classe media che in queste dittature medio-orientali non necessariamente c'è, e anche quando c'è (in Egitto o in Tunisia) e tenta di contribuire alla rivoluzione, si ritrova presto o tardi a fare il vaso di coccio tra esercito e fondamentalismo islamico. Israele è diverso (continua sull'Unita.it, H1t#154).

Israele sembra davvero più vicino, per cultura più che per geografia. È una democrazia, come i suoi difensori non si stancano di ripetere; una potenza industriale; la sua storia è intrecciata con quella europea, dalla quale del resto le nostre discussioni faticano a districarsi, per cui si può prevedere con precisione quasi statistica che qualcuno tirerà fuori nazismo e shoah a sproposito (stavolta Odifreddi, ma poteva essere chiunque, è un riflesso automatico). Eppure anni di infiniti battibecchi mediatici dovrebbero averci insegnato, se non altro, che paragonare israeliani e nazisti è sempre un suicidio retorico: oltre a essere una chiave di lettura piuttosto banale e brutale (i nipoti degli oppressi che diventano oppressori, ecc.) è soprattutto fuorviante, visto che Israele non sta sterminando i palestinesi. Il che non toglie che quello che sta facendo non possa essere considerato profondamente ingiusto, ma appunto: cosa sta facendo? Lo stillicidio con cui si porta avanti il conflitto è in realtà qualcosa di profondamente nuovo, che non ha precedenti nel Novecento. Non lo capiremo finché continueremo a discutere di ghetti o lager, più per mancanza di fantasia (e necessità, forse, di rifarci a un assoluto morale).
Potrà sembrare strano ai cacciatori di antisemitismo in servizio permanente, ma uno dei motivi per cui Israele ci interessa di più, è che in Israele in qualche modo abbiamo creduto di poterci identificare, proiettando sugli israeliani sensi di colpa che poi non si capisce davvero perché avrebbero dovuto condividere. Ma siamo occidentali, è più forte di noi: in quel piccolo Paese c’è una classe media, che dai film e dai romanzi non sembrava troppo diversa dalla nostra. Israele ci sembrava percorso e minacciato da ideologie e sentimenti che riteniamo familiari: nazionalismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, islamofobia. Tutte queste cose crediamo di riconoscerle, e ci danno una sensazione di familiarità che forse è semplicemente sbagliata. Forse dovremmo semplicemente accettare, dopo più di un mezzo secolo di conflitti e occupazione militare, che gli israeliani non sono come noi. Hanno vissuto guerre molto diverse dalle nostre, in condizioni veramente peculiari. Una potenza nucleare grande quanto una regione italiana, una sottile striscia di terra minacciata da altre strisce altrettanto sottili (e dall’Iran), forse è qualcosa di ancora più alieno della Siria. Questo non significa che non debba interessarci, ma non c’è motivo per considerarlo più vicino di altri conflitti, che ci sembrano lontani e non lo sono.
Forse ci servirebbero occhi nuovi, per smettere di guardare al conflitto israelo-palestinese come all’ultima guerra coloniale (o addirittura all’ultima delle crociate). Basterebbe poco, magari constatare che l’unico vero sconfitto in questi anni è stato qualsiasi progetto alternativo allo status quo: come se occorresse bombardare un po’ tutto, ogni quattro anni, affinché nulla cambi davvero. Potrebbe anche essere l’esempio di un nuovo tipo di guerra di bassa intensità, tra società economicamente progredite e sacche di sottosviluppo, funzionali alla conservazione del potere da una parte e dall’altra della barricata. Un modello di guerra radicalmente nuovo, radicalmente diverso da quelle che siamo soliti descrivere (anche quando descriviamo la Palestina) ma che, via via che la distanza tra ricchi e poveri della terra si accorcia, si potrebbe persino esportare. http://leonardo.blogspot.com


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Renzi e il volontariato obbligatorio

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Sarebbe bello se, tra tanti temi dibattuti in queste ore alla Leopolda, Renzi o chi per lui volesse dire finalmente qualche parola più chiara sul Servizio Civile. Sarebbe bello perché fin qui ne ha parlato in molti modi: sul programma si legge di un servizio europeo "su base volontaria", mentre ultimamente nei comizi Renzi ha detto che lo vorrebbe obbligatorio, a livello europeo. Però durante il dibattito su Sky ne ha parlato come di un sogno, e in effetti non sembra molto realizzabile nei tempi brevi, dal momento che nessun grande Paese in Europa prevede per i suoi cittadini un obbligo di questo tipo.

Qualche giorno fa, però, a chi gli domandava un parere sull'insegnamento dell'Inno di Mameli nelle scuole, Renzi ha affermato che "se vogliamo creare senso di appartenenza, identità e comunità non c'e' che una strada: il servizio civile obbligatorio. Magari solo per tre mesi. Ma obbligatorio, per donne e per uomini. Lì sì che si fa l'Italia''. Insomma, almeno in quel caso sembrava avere in mente una dimensione più nazionale che europea. A questo punto però forse si fa prima a domandarglielo direttamente: Renzi, che servizio vuoi? Lo vuoi obbligatorio o volontario? Lo vuoi italiano (subito) o europeo (molto dopo)? E da dove le prenderemmo le risorse? Perché a occhio forzare tutti i maggiorenni a tre o sei mesi di lavori socialmente utili sarebbe un impegno mica da ridere. Può darsi che in tempi medio-lunghi si riveli un risparmio, ma qualche spesa strutturale sarebbe necessaria.

Diamo per scontato alcune cose (che in realtà scontate non sono): probabilmente gli studenti universitari potrebbero chiedere il rinvio, come ai vecchi tempi della naja. Poi, una volta laureati, invece di gettarsi immediatamente nel mercato del lavoro (che si spera non resterà sempre così asfittico) dovranno aspettare una cartolina per qualche mese, e perdere qualche altro mese senza riuscire a portare a casa (quale casa?) qualche soldo. È lecito immaginare che gli stipendi sarebbero molto bassi (come ai vecchi tempi del servizio sostitutivo della naja), sotto il livello dell'autosufficienza. Probabilmente Renzi non prevede di dover fornire un alloggio a tutti, e quindi in sostanza la cosa si traduce in una tassa per le famiglie, a cui toccherebbe mantenere i figli per i tre o sei mesi necessari. A questo si potrebbe obiettare che tanto succede già così, i figli stanno in casa fino ai trent'anni, tre o sei mesi non fanno nessuna differenza. Sì: diciamo che non costituiscono nessun passo avanti verso l'autosufficienza.

In questi giorni ne ho discusso con qualche ex obiettore (continua sull'unita.it, H1t#153).

In questi giorni ne ho discusso con qualche ex obiettore, che ricordava con piacere il proprio servizio civile (anch’io ho nostalgia del mio), come un’esperienza formativa che in certi casi è stato il primo nucleo di una competenza professionale. Tutto bellissimo, ma non stiamo parlando di quel servizio civile lì.
Stiamo parlando di una leva obbligatoria, di tre o sei mesi, che i giovani subirebbero passivamente, perché obbligati. E quindi, se vogliamo immaginare qualcosa di paragonabile, dobbiamo pensare allo scarsissimo entusiasmo con cui i nostri coetanei partivano per la naja – ecco, magari il servizio obbligatorio risulterà più utile e interessante che passare due mesi di addestramento e dieci a grattarsi in caserma – però non pensate nemmeno per un istante che masse di neodiplomati o neolaureati lo andranno a fare con entusiasmo. Lo dice la parola: obbligatorio.
Chi fino al 2004 sceglieva di lavorare in ospedale o in casa di cura, piuttosto di finire in caserma, aveva una motivazione, che si traduceva (non sempre) in impegno personale. Non è il caso dei futuri “volontari obbligati”, a cui non si chiede nessuna motivazione, e non si minaccia nemmeno lo spauracchio della caserma. Alcuni di loro magari scopriranno che sono portati per il socio-assistenziale, il para-medico, l’associazionismo ecc. La maggior parte no: saranno una massa de-qualificata che verrà destinata a svolgere mansioni che nessun altro farebbe quasi gratis. Si creeranno competenze? Può darsi, ma non è detto che siano assorbite da quello stesso mercato in cui saranno immessi centinaia di migliaia di ragazzi ogni tre o sei mesi. Manodopera pochissimo qualificata, ma magari qualche casa di cura, qualche associazione, deciderà di avvalersene e di assumere un professionista in meno.
A trarne immediato beneficio saranno le associazioni convenzionate con lo Stato, che rinverdiranno i fasti degli anni Novanta, quando potevano contare sul lavoro (sottopagatissimo) degli obiettori di coscienza. E in effetti per ora l’unico effetto misurabile delle parole di Renzi è stata l’entusiastica adesione del mondo del volontariato, che il Servizio Civile Obbligatorio lo chiede da anni a ogni interlocutore politico. Qui magari ci sarebbe da discutere sul senso di un “volontariato” che reclama il suo diritto ad arrivare dove lo Stato non riesce (secondo il tanto sbandierato principio della sussidiarietà), e che per farlo chiede allo Stato di assumere tutti i diciottenni o i neolaureati per tre o sei mesi, a spese nostre. Ma questa discussione toccherebbe forse ai sostenitori di Renzi che si considerano ancora liberali.  http://leonardo.blogspot.com
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Sotto il campanile c'è di più

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Siamo province. 

Quando sui giornali sarà finita l'ennesima ondata di pezzi di colore sui livornesi che sfottono i pisani, sui brianzoli che non si rassegnano all'essere milanesi, sul dolore di Chieti per l'annessione a Pescara, eccetera, sarebbe bello finalmente leggere qualcosa di sensato sulla più grande e drastica opera di ridefinizione delle entità amministrative locali dall'Unità a oggi. Sarebbe bello riuscire a parlarne seriamente, dell'accorpamento delle province; sarebbe giusto leggere sui quotidiani qualche riflessione sensata su cosa significa diminuire gli enti provinciali e aumentarne la grandezza (e quindi anche il potere contrattuale?) Invece di leggere del sindaco di Prato che riceve i giornalisti sul gabinetto, delle diffidenze tra padovani e trevigiani eccetera.

Una provincia non è un campanile. La nuova riforma non impedirà certo a modenesi e reggiani di prendersi in giro, così come massesi e carraresi fanno da un secolo anche se molti sono convinti che siano un solo capoluogo. Forse la provincia è l'esatto contrario del campanile: il luogo in cui le esigenze dei centri si armonizzavano con quelle del territorio circostante. Le province sono state, dall'Unità a oggi, le maglie di un tessuto complesso, avvinto a un territorio eterogeneo. Non a caso le loro competenze riguardano quasi esclusivamente la tutela delle terre e delle acque (e delle strade, non meno importanti). La retorica populista che in questi anni ci ha voluto convincere che le province "non servono a niente" nasconde il nostro progressivo scollamento da un territorio che non capiamo, attirati come siamo dai Centri. Non lo vediamo nemmeno più, il territorio, dai finestrini di treni sempre più veloci; salvo spaventarci e indignarci quando lo stesso territorio si ribella, e frana o smotta. In quei casi ci accorgiamo che avrebbe dovuto essere amministrato meglio - ma da chi? (continua sull'Unita.it - H1t#152).

Una provincia ben gestita è una provincia che ha una rete viaria efficiente; che conosce le necessità del suo territorio; sa dove rimboschire per evitare le frane a valle; sa dove intervenire per evitare le alluvioni; sa interpretare il pericolo sismico regolamentando l’edilizia di conseguenza. Tutto questo i comuni non lo possono fare: hanno un orizzonte più corto, ogni comunità vede solo il tratto di fiume che l’attraversa. Né possono farlo le regioni, enti troppo grandi, portati per forza di cose a privilegiare le esigenze dei centri più popolati (che portano più voti) e accantonare il resto. È ben triste che molti sedicenti federalisti italiani abbiano predicato, negli ultimi vent’anni, niente più che un accentramento a livello regionale, quasi un ritorno alle vecchie signorie e alle loro capitali, Torino Milano Venezia…
Che le province fossero troppe, che alcune fossero assolutamente inutili, è abbastanza indiscutibile. Un accorpamento era inevitabile, ma con che criteri? Che senso ha mettere assieme Lodi Cremona e Mantova, o Verona e Rovigo? Prendiamo quest’ultimo esempio. Unire a una grande provincia, come quella di Verona, un territorio molto diverso e assai meno popolato, come il Polesine, significa creare un ente geograficamente bizzarro come forse non si era mai visto, sulla carta d’Italia, dall’Unità in poi. Non è semplicemente la stranezza di una lingua di terra che va dal Lago di Garda al mare. La rappresentanza in consiglio non potrà che premiare i comuni della parte più popolosa; costoro, per quanto illuminati, se vogliono far fede agli impegni presi coi loro elettori (ed essere riconfermati) non potranno che anteporre gli interessi del territorio più abitato. È la democrazia, funziona così.
Ma non è detto che funzioni sempre bene. Ce ne accorgiamo quando un fiume straripa, e la cassa di espansione avrebbe dovuto essere costruita magari centinaia di chilometri più a monte. La regione avrebbe dovuto preoccuparsene, ma aveva altre priorità, legate a territori più popolati e più rappresentati in consiglio regionale. Non resterà che lamentarsi dell’emergenza che nessuno aveva previsto: e trovare da qualche parte i soldi per la ricostruzione. Se spenderemo più di quanto avevamo risparmiato accorpando una provincia, nessuno se ne accorgerà. Sono conti difficili, calcoli noiosi, non li farà nessuno.http://leonardo.blogspot.com
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Vai avanti tu

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Sembra passata un'eternità, eppure il vecchietto che oggi ha vivacizzato un piovoso sabato pomeriggio col suo nostalgico show di proclami e recriminazioni, un anno fa era ancora presidente del Consiglio dei Ministri. La sola idea dà un po' la vertigine: quante cose sono successe nel frattempo. Troppe. Certi anni passano lisci, altri ti danno davvero la sensazione di invecchiare.

Proprio un anno fa a Bruxelles, al termine di un vertice a 27 dell'Unione Europea, l'allora presidente francese Sarkozy e la cancelliera Merkel concedevano una conferenza stampa congiunta. Quando una giornalista chiese loro se si fidavano delle rassicurazioni sulla situazione italiana offerte dal presidente Berlusconi, i due invece di rispondere immediatamente si guardarono, e sorrisero. Poi Sarkozy si decise a rispondere, e confermò la fiducia nei confronti delle istituzioni italiane. Non nominò Berlusconi. Per molti fu il vero segno della fine: l'Europa si fidava dell'Italia, ma non poteva trattenersi dal ridere di Berlusconi, che le ultime vicende erotico-giudiziarie avevano reso definitivamente impresentabile. A quel punto le dimissioni erano ormai una formalità, Napolitano ne stava già probabilmente discutendo con il non ancora senatore a vita Mario Monti.

Sull'episodio è tornato Berlusconi nella sua conferenza-fiume, vagamente gheddafiana, accusando la Merkel e Sarkozy di avere assassinato la sua credibilità internazionale coi loro "sorrisetti". Di tante accuse a vanvera forse questa è la più rivelatrice (continua sull'Unita.it H1t#151).

Un anno fa il Popolo della Libertà aveva preso per buona la versione ufficiale di Sarkozy: non c’era stato nessun “sorrisetto”, ma un semplice scambio di sguardi imbarazzato tra due governanti che non sapevano a chi toccasse rispondere. Intanto, però, mentre Sarkozy guardava sorridente la Merkel, e la Merkel per un attimo rimaneva di ghiaccio, la platea dei giornalisti si era messa a ridere. La vera risata liberatoria, quella che seppellì definitivamente la carriera di statista di Berlusconi, non fu quella dei governanti, ma quella dei giornalisti (una bella differenza con quelli che ancora oggi a Roma si uniscono deferenti agli applausi della sua claque).
Riguardando il video, a un anno di distanza, continuo a pensare che la versione ufficiale sia anche quella corretta: Sarkozy e la Merkel non volevano ridere di Berlusconi. Erano solo incerti su chi dovesse rispondere: Sarkozy con la sua mimica voleva invitare la collega, lei forse non aveva ancora finito di ascoltare la traduzione in cuffia. Non ha comunque la minima importanza il fatto che presidente e cancelliere abbiano o no deriso pubblicamente Berlusconi: quel che importa è che questa derisione sia subito stata interpretata da tutti – giornalisti e pubblico – come assolutamente verosimile. Fu dal fondo della sala che partì il messaggio decisivo: il re era nudo. Sarkozy e la Merkel non fecero nulla per avallarlo. Nei secondi successivi Sarkozy fece viceversa il possibile per restare serio, sottoponendo a una certa tensione i muscoli facciali. Il Berlusconi che oggi li accusa si mette una volta di più contro l’evidenza dei fatti: non risero di lui, era lui a essere ridicolo.
Questo scollamento dalla realtà fino a un anno fa non ci stupiva. Berlusconi era uno di famiglia, invecchiato con noi: da anni lo prendevamo per matto, ma forse avevamo bisogno di un anno di pausa per renderci conto, come gli stranieri, di quanto fosse peggiorato davvero. La maschera grottesca che si è presentata oggi in tv non aveva altro da difendere che i propri interessi. Niente di nuovo: ma una volta almeno sapeva condirli con una retorica efficace, di uomo che conosce gli italiani e sa cosa vogliono. Invece il Berlusconi che abbiamo sentito oggi non ci capisce più. È convinto che il suo elettore medio non faccia la spesa perché terrorizzato dalle retate della Guardia di Finanza a Cortina o in Sardegna. Forse crede davvero che la paura di essere intercettati mentre sparliamo dei nostri amici ci impedisca di telefonare liberamente come un tempo. Non sa, non può sapere che ormai passiamo il tempo a sparlarci alle spalle su facebook. È restato ai cd-rom, Ghedini ne ha uno da regalare a tutti i giornalisti interessati. Molti di quei giornalisti non usano un cd-rom da anni, forse non hanno più nemmeno il lettore sui loro aggeggi portatili. Vivono – viviamo – in un altro mondo ormai. Un mondo tutt’altro che semplice, che ai vecchi tempi del folle Berlusconi guarda quasi con nostalgia. http://leonardo.blogspot.com
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Se non crei panico sei un omicida

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Nel giugno scorso la Commissione Grandi Rischi - la stessa di cui si parla oggi a causa della controversa sentenza dell'Aquila - finì nell'occhio del ciclone per avere lasciato intendere, in un documento ufficiale, l'eventualità di un'altra forte scossa nella bassa emiliana. In questa zona, dove migliaia di persone e attività stavano cercando di riprendersi dall'incubo di fine maggio, la Commissione fu accusata senza mezzi termini di disfattismo. In realtà (ne diedi conto su questo blog) il documento non conteneva nessuna previsione; si limitava a indicare la zona più a rischio "nel caso di una ripresa dell’attività sismica nell’area già interessata dalla sequenza in corso". Quella che circolava sui quotidiani e nel passaparola tra bar e tendopoli era una non-notizia: stava per arrivare un'altra scossa forte, lo avevano detto gli scienziati. Che gli scienziati avessero in realtà scritto tutt'altro era ormai un dettaglio. La scossa forte non è poi arrivata - anche se lo sciame prosegue - e le accuse di allarmismo ingiustificato nei confronti della Commissione sono cadute nell'oblio, come succede sempre nei casi di profezia non riuscita. Se viceversa una scossa fosse arrivata, i membri della Commissione sarebbero stati portati sugli altari per una previsione che in realtà non avevano mai fatto (continua sull'Unita.it, H1t#150).

Così vanno le cose in Italia, un Paese che ha un rapporto complicato con la scienza. A scuola la studiamo poco, in compenso la veneriamo, come veneravamo prima di lei gli dei che ha sostituito. Non abbiamo la minima idea di come funzioni, ma ci fidiamo ciecamente di lei: è un libro con tutte le risposte, basta saperlo aprire alla pagina giusta. Quando scopriamo che non è così, che alcune pagine sono ancora vuote o lacunose, ci scandalizziamo. L’idea che i terremoti non si possano prevedere come gli acquazzoni tuttora ci destabilizza: sempre in giugno Grillo si domandava a cosa servissero i sismologi coi loro sismografi, visto che non sanno dare i giusti consigli alla popolazione. I sismologi, dal canto loro, si trovano in una situazione senza via d’uscita: in presenza di uno sciame sismico non possono certo escludere l’eventualità di una scossa catastrofica. Al massimo possono ricordare che è un’eventualità statisticamente limitata. Se poi la catastrofe, in barba alle statistiche, si avvera, verranno accusati di avere minimizzato il rischio e condannati per omicidio colposo (è il caso dell’Aquila); se invece non arriva, come nel giugno scorso, qualche cittadino, qualche industriale danneggiato dal panico potrebbe denunciarli per procurato allarme. Cosa resta a loro da fare?
Cambiare mestiere, probabilmente. Inutile ribadire che né all’Aquila né in Emilia la Commissione poteva prevedere il tempo e il luogo esatto di una scossa; inutile lamentarsi del fatto che le comunicazioni degli esperti vengano sistematicamente fraintese e distorte. Forse quella che manca tra gli italiani e gli scienziati è una lingua comune. Eppure il verbale della famigerata riunione del 31 marzo 2009 sembra abbastanza chiaro: i membri della Commissione non escludevano “‘in maniera assoluta” che potesse verificarsi un sisma distruttivo come quello del 1703, e tuttavia lo consideravano improbabile, dal momento che le scosse pur numerose registrate fino a quel momento non avevano nessun carattere precursore. Ma quello è il contenuto tecnico della riunione, quello che non interessa più nessuno. Se tutti i membri della Commissione ieri sono stati condannati per omicidio colposo è per un contenuto mediatico, qualcosa che nel verbale della riunione non c’era – ma che forse c’era sui titoli dei quotidiani locali l’indomani mattina, e senz’altro è rimasto nella memoria collettiva degli aquilani: un invito a dormire tranquilli nelle proprie case. Gli scienziati non scrissero questo, ma forse giornalisti e cittadini volevano sentirselo dire. La distorsione del messaggio fu probabilmente causata anche dalla polemica tra il capo della Protezione Civile Bertolaso e Giampaolo Giuliani, dalla necessità di prendere le distanze dal sismologo-fai-da-te che pochi giorni con le sue previsioni a base di radon aveva spaventato inutilmente gli abitanti di Sulmona. E tuttavia a pagare per ora non sono né Bertolaso né Giuliani, bensì degli esperti che fecero semplicemente il loro mestiere, senza prevedere o minimizzare nulla.
Il 28 gennaio del 2012, in seguito ad alcuni eventi sismici di lieve intensità in Valpadana, la Commissione diramò un breve comunicato in cui si paventava “la possibile riattivazione di strutture che in passato hanno generato terremoti di maggiori dimensioni (magnitudo 6 e oltre)”. La Commissione chiedeva pertanto “di curare in modo particolare l’aspetto della comunicazione in tutte le fasi del terremoto – prima, durante e dopo – in modo da trasmettere un messaggio coerente e conseguente alla popolazione e alle autorità”. Forse la maggiore attenzione della Commissione nei confronti della comunicazione, della necessità di un “messaggio coerente e conseguente”, è dovuta alla brutta esperienza dell’Aquila. Può darsi che gli incontri di prevenzione organizzati nei mesi successivi nelle scuole emiliane abbiano dato qualche frutto: senz’altro le migliaia di studenti che il mattino del 29 maggio evacuarono decine di scuole senza nessun grosso incidente sono la migliore dimostrazione che una politica di prevenzione, in Italia, è possibile. Certo, tra esperti e cittadini bisogna capirsi, e non sempre c’è la volontà (politica, culturale) di farlo. Da semi-terremotato posso testimoniare che la tentazione pre-moderna di prendersela con gli scienziati, di sacrificarli alla prima previsione fraintesa o errata, è ancora fortissima. http://leonardo.blogspot.com
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Gli invalutabili

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Gli insegnanti possono tirare il fiato: il tanto temuto passaggio dalle 18 alle 24 ore di insegnamento, annunciato nel pomeriggio di giovedì, non ci sarà. Ieri finalmente il ministro ha riconosciuto quello che forse avrebbe dovuto essere chiaro sin dall'inizio, ovvero che "questo tema ha bisogno della contrattazione sindacale". Se ne riparla quindi nel 2014, e forse per allora ci sarà più tempo per spiegare che non si tratta semplicemente di un aumento di sei ore settimanali, ma del 33% dell'impegno complessivo degli insegnanti, che a quel punto avrebbero più classi, più studenti, più compiti, eccetera.

Tre giorni fa avevo chiesto aiuto, anche qui sull'Unità: volevo cercare di capire se davvero l'insegnante italiano facesse meno ore di lezione dei suoi omologhi del resto d'Europa. La materia è complessa: in certe nazioni la cosiddetta "ora" è in realtà un modulo inferiore ai nostri di 60 minuti; senza parlare di tante altre piccole o enormi differenze (in certi paesi la quantità di ore è superiore, ma l'insegnante può disporre di un ufficio informatizzato all'interno del plesso scolastico). In ogni caso la risposta è che tutto sommato no, l'insegnante italiano non ha un impegno settimanale inferiore agli eurocolleghi. L'unica cosa sensibilmente inferiore è lo stipendio, ma questo si sapeva già. Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato.

Ringrazio anche tutti quelli che ne hanno approfittato per informarmi di quello che pensano degli insegnanti: sintetizzando, peste e corna. Ho scoperto nel giro di poche ore di far parte di una casta privilegiata che senza aver fatto concorsi (?) si è trovata un impiego di poche ore alla settimana, in cui può battere la fiacca senza che nessuno se ne accorga e senza paura di essere sanzionato o licenziato. Queste informazioni che io, sul serio, ignoravo, mi sono arrivate quasi tutte in orario di ufficio, da computer (ci potrei scommettere punti di graduatoria) aziendali. Poi per carità, sono un blogger storico, sul traffico che mi arriva da tutti gli impiegati che al venerdì pomeriggio fanno finta di lavorare non ci sputo mica. Mi limito a far presente che nel mio orario di lezione io non posso far finta di lavorare, perché ho sempre almeno cinquanta occhi puntati addosso. È pur vero che posso lavorare male - e mi succede - però questa storia della valutazione mi ha un po' stancato. Ogni volta che si parla della condizione degli insegnanti, qualcuno viene a rimproverarti del fatto che non esiste la valutazione, che tu non vuoi assolutamente essere valutato, che tu rifiuti la valutazione. Ma di cosa stiamo parlando? (continua sull'Unita.it, H1t#149).

La famosa e fumosa valutazione degli insegnanti, di cui tanto amate parlare, non esiste. È una chiacchiera, messa in giro dall’ormai antico ministro Berlinguer, che forse ai tempi aveva anche una proposta seria, e incontrò  una forte resistenza della categoria. Però non è stato uno sciopero a mettere in cantina la proposta, né quella dei successivi ministri Moratti Fioroni e Gelmini. Ogni tanto anche loro ne hanno parlato, ma senza mai concludere nulla. Nulla. Non è mai stato messo sul tavolo un concreto progetto di valutazione degli insegnanti, qualcosa a cui gli stessi insegnanti potessero reagire con un sì e con un no. Dalla Moratti in poi abbiamo sentito solo chiacchiere, a volte vaghe, a volte immaginose o deliranti. Spesso queste proposte avevano a che fare con la prova Invalsi, uno strumento interessante (se costruito con criterio, e non è sempre stato così), ma che al limite può certificare qualche competenza degli studenti, non dei loro insegnanti. È un discorso lungo e non vorrei annoiare, ma in sostanza chi se la prende con noi prof perché *non vogliamo essere valutati*, non vede o non vuole vedere che il nostro datore di lavoro, in dieci e più anni che se ne parla, non ha mai messo in piede nessuno strumento effettivo di valutazione. Perché non lo ha fatto? Perché sennò brontolavamo? Ma noi brontoliamo sempre, siamo insegnanti.
L’ipotesi è che nessun ministro, nessun governo abbia veramente voluto valutarci, perché a tutti conveniva tenerci così come siamo: una mandria indistinta su cui si può colpire indiscriminatamente quando e come si vuole. Se ci avessero valutato, avrebbero rischiato di individuare i meritevoli; dopodiché cosa avrebbero fatto? Li avrebbero premiati? Con quali fondi, tolti a cosa? La carta igienica, giova ribadire, è finita da un pezzo: poco più tardi è finita anche la tiritera gelminiana sulle eccellenze da premiare. Non c’è nulla da premiare, c’è solo da tagliare e conviene farlo su tutti, meritevoli o meno. Questo è il motivo per cui noi insegnanti non abbiamo ancora un sistema di valutazione. La nostra resistenza ‘corporativa’ non c’entra nulla: date un’occhiata alle percentuali di adesione agli scioperi e scoprirete che corporativamente siamo delle mezze calzette a cui potrebbero imporre qualsiasi cosa. Se volessero. Ma l’unica cosa che vogliono è pagarci il meno possibile.
Il tema della valutazione, così com’è oggi, è semplicemente un ritornello ideologico, che maschera un’ostilità preconcetta nei nostri confronti. Siamo privilegiati, siamo una casta, siamo lavativi, eccetera eccetera. Queste accuse, sempre sostenute da esempi personali (“la prof di mio figlio legge il giornale in classe”, “il mio prof parlava dei fatti suoi”), mai da uno straccio di statistica, io non sono in grado di confutarle: gli insegnanti italiani sono centinaia di migliaia, è chiaro che ce ne sono di bravi e di pessimi, mi spiace se questi ultimi sono capitati a voi. Bisognerebbe trovare un sistema per valutarli, e magari per far loro cambiare mestiere? Può darsi, ma evidentemente ai governi non conviene, visto che non lo hanno ancora fatto. Però in questi giorni non si parlava di questo. Si parlava di una proposta più terra-terra: gli insegnanti, bravi o pessimi, avrebbero dovuto aumentare di un terzo il loro impegno settimanale, a parità di salario. Quelli bravi, quelli che si impegnano di più sia in classe che a casa, avrebbero avuto più compiti da correggere, più lezioni da preparare, eccetera. Quelli pessimi, invece di scaldare la sedia dietro la cattedra per 18 ore alla settimana, l’avrebbero scaldata per 24. Se a casa prima non facevano nulla, avrebbero continuato a non fare nulla.
Una *riforma* di questo tipo, insomma, premierebbe i pessimi e avvilirebbe i bravi. Per afferrarlo bastava il buon senso. Mi piace pensare che almeno qualcuno abbia capito. http://leonardo.blogspot.com
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A scuola la carta è finita?

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Ieri il ministro dell'istruzione ha avuto il coraggio e forse l'imprudenza di calarsi nella bolgia degli studenti accorsi al PalaEur di Roma a discutere di nuove tecnologie e vecchia scuola, il solito problema. Prima di lui ragazzi e insegnanti erano saliti sul palco a raccontare storie di innovazione che malgrado tanti ostacoli nella nostra scuola sono ancora possibili. L'entusiasmo era palpabile e forse contagioso, tanto che il ministro a un certo punto ha lasciato intendere che i libri scolastici, i pesanti e costosi libri scolastici cartacei, hanno i giorni contati. Almeno nella diretta si è capito così (continua sull'Unita.it, H1t#148).

Può sembrare un’affermazione azzardata, ma in fondo il ministro era circondato da studenti e insegnanti ansiosi di dimostrare che una scuola diversa è possibile. Una scuola non senza libri, ma senza i testi convenzionali, con le loro appendici che spesso rimangono nel cellophane per trienni. Nel frattempo dalla Germania arriva la notizia di un nuovo ebook reader: costo al dettaglio, dieci euro. Se si considera che il materiale didattico disponibile su internet sta crescendo in modo esponenziale (e lentamente sta aumentando anche la qualità), la conclusione appare obbligata: i libri scolastici hanno davvero i giorni contati, che ai ministri piaccia o no. Alcune scuole ne stanno già facendo a meno con successo. Nei prossimi anni non potranno che aumentare. Per alcuni insegnanti sarà uno choc: per altri, una liberazione. Per i genitori, comunque vada, sarà un risparmio.
Approfitto di questo spazio per rivolgere al ministro una domanda che ieri avrei voluto fare: so che oltre ai libri, anche i registri cartacei hanno i giorni contati. Lo so da quasi trent’anni, da quando andavo ancora alla scuola dell’obbligo e al cinema c’era Wargames, con Matthew Broderick che mostrava le sue doti di hacker da casa alzandosi i voti sul… registro elettronico. Già nel 1983 non sembrava più fantascienza. Trent’anni dopo lavoro nella stessa scuola dell’obbligo e del registro elettronico ancora nessuna traccia. Anche se molti insegnanti in realtà se lo sono fatto in proprio: dopotutto basta un foglio elettronico, niente di particolarmente elaborato.
Ministro, quando arriva il registro elettronico? Presto, lo so. Spero che sia facile da usare, e che si lascerà comunque qualche anno di tempo a chi per trent’anni ne ha usato uno di carta. Spero che non costi tanto, e che non sia una piattaforma macchinosa e inutile. Perché davvero, basterebbe un foglio elettronico. Niente di particolarmente elaborato. Magari qualche insegnante più bravo di altri lo ha già messo a punto, magari ve lo mostra volentieri. http://leonardo.blogspot.com

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Il nuovo sole in tasca

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Sabato scorso ho assistito a una scena interessante: un intervento di Matteo Renzi accolto da centinaia di fischi. Ma credo valga la pena raccontare il contesto.

Ero alla Blogfest, un raduno di internauti che una volta scrivevano i blog e oggi stanno passando più o meno tutti a twitter, e che una volta all'anno si trovano a Riva del Garda per distribuirsi dei premi che a volte vinco anch'io, ma sempre più di rado. Quindi ci potrebbe stare un titolo del tipo "la blogosfera fischia Renzi", e forse qualcuno l'ha già fatto, ma temo che nessuno abbia mai veramente capito cos'è questo accidenti di blogosfera. E comunque in generale non è vero che essa fischi Renzi: al contrario, la maggior parte di chi ha votato lo ha eletto il Miglior Politico su Twitter. Però a Riva non c'era tutta la blogosfera, o twittersfera, o come preferite. La maggior parte dei presenti alla premiazione avevano ottenuto una nomination, insomma erano in lizza per prendersi un premio. Ecco, i *nominati* hanno quasi tutti fischiato Renzi. Mi sembra che nessuno lo abbia applaudito, tranne me ma stavo facendo il cretino. Quindi: se nella blogosfera c'è un elettorato attivo e uno passivo, il primo stima Renzi abbastanza per eleggerlo Miglior Politico; il secondo non lo sopporta e comincia a fischiarlo appena parla. In realtà Renzi non c'era, aveva mandato un video per ringraziare. Il problema dei video è che durano troppo, la gente ha fretta di sapere chi ha vinto gli altri premi e poi vuole andare a ballare, Renzi poteva immaginarselo, ma deve essere dura per un politico accettare di avere soltanto venti secondi per esprimersi.

L'episodio non avrà ovviamente nessuna ripercussione sulla campagna di Renzi, che si muove su ben altri fronti. Credo che sia interessante perché mostra un fattore che forse anche lo staff di Renzi dovrebbe valutare: chiamiamola irritanza. I nominati di Riva, con un'età media intorno ai 37, non fischiavano Renzi per le sue parole (udibili solo nelle prime due file) ma per la sua faccia, il suo sorriso, quel po' di timbro vocale che si riusciva a sentire, in breve per il suo Essere Renzi, che trovavano sommamente irritante. Credo che molti lettori dell'Unità, sopra e sotto i 37, capiranno quello che sto cercando di spiegare. C'è un tipo di umanità, non necessariamente vecchia, non per forza rottamabile, che Renzi non lo regge, già molto prima che Renzi cominci a dire qualcosa. Perché questo accade?

Onestamente non lo so (ma continuo a parlarne sull'Unita.it, H1t#147).

Matteo Renzi e l’«irritanza».


Ho delle ipotesi (lo scoutismo, la faccia di schiaffi, la toscanità), ma nessuna mi sembra soddisfacente. Non solo, ma mi sembra che gli aspetti che lo rendono irritante a un settore importante dell’elettorato di centrosinistra siano gli stessi che lo rendono simpatico agli altri. Sotto il dibattito sui programmi e sulle idee, a cui assistiamo un po’ svogliatamente (tanto alla fine l’agenda è quella di Monti), cova una lotta subliminale tra chi voterebbe Renzi perché è proprio simpatico, e chi non lo può fisicamente soffrire. Non è una questione anagrafica, e non è nemmeno una lotta tra sinistra e destra. Vi propongo un esperimento: andate su google immagini e cliccate Matteo Renzi. Io ogni tanto lo faccio, quando devo scegliere un’immagine da rubacchiare per il mio blog. Ecco, non riesco mai a trovare una faccia di Renzi che non mi sembri buffa. Questo mi fa arrabbiare, perché non ho mai amato le caricature, le considero la forma meno civile della comunicazione, e vorrei parlare dei contenuti di Renzi, non della sua faccia buffa.
Ma è un fatto che tutte le sue facce mi sembrano buffe. E allo stesso tempo, credo che molti non le considerino affatto buffe, ma gradevoli, simpatiche: e che apprezzino Renzi non solo per le cose che dice e che fa, ma anche perché le dice e le fa con quella faccia lì. C’è un solo personaggio che fino a qualche tempo fa riusciva a dividere gli italiani in due blocchi incomunicabili e l’un contro l’altro armati: di fronte alla stessa faccia un blocco vedeva il Grande Uomo, l’altro blocco un abominio ridicolo e osceno. Sappiamo tutti di chi si tratta, e io non voglio dire che Matteo Renzi ne sia la nuova versione. Anche se sulle labbra di parecchi dei suoi sostenitori non stonerebbero le parole di Alfano: vidi un uomo con il sole in tasca. Sono sicuro che Matteo Renzi, per tantissimi italiani, il sole in tasca ce l’ha davvero. Non è una questione semplicemente mediatica, perché alla fine Renzi non è quel bravissimo comunicatore che tutti danno per scontato: ma neanche Berlusconi lo era. Entrambi, per esempio, mostravano le corde in televisione: un luogo dove Berlusconi non andava spesso (ma perché ne parlo al passato?), e soltanto in territorio amico. Renzi non può ancora permetterselo, ma l’agone televisivo lo mette ancora in difficoltà. Non è lì che si sta costruendo la sua vera popolarità. I talk politici non servono a questo (e allora a che servono? Forse a niente).
Un’altra ipotesi è che Renzi, senza ovviamente volerlo, stia riempiendo un vuoto nel nostro immaginario: dopo vent’anni all’improvviso non abbiamo più una Faccia che ci divida e ci contrapponga. Dovremmo cominciare a occuparci dei problemi veri, e trovare soluzioni pratiche, ma è complicato, e mal che vada ci pensa Monti. Nel frattempo ci stiamo già mettendo istintivamente a cercare un’altra Faccia sorridente e abbronzata su cui litigare, raccontando a noi stessi che litighiamo intorno a delle idee. Può anche darsi. Alla fine non sono nemmeno sicuro che l’irritanza sia un problema per Renzi e il suo staff. Forse è l’altra faccia della medaglia: un leader può piacere a molti, ma non a tutti. Mi domando però perché nessuno debba mai piacere a me. http://leonardo.blogspot.com
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Per un'ora di Amore

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Desidero avvertire i miei pochi ma scelti lettori che nei prossimi giorni, a causa di una dichiarazione estemporanea (e abbastanza strampalata) del ministro Profumo, si discuterà per un po' di ora di religione, un vecchio cavallo di battaglia che ogni tanto si rispolvera in mancanza di altri motivi per azzuffarsi. Se ne parlerà sui giornali, senz'altro su internet, magari perfino in tv, e si sviscereranno molte opinioni, e alla fine non cambierà niente, tutto questo discutere non sarà servito a niente. Potete quindi tranquillamente ignorare tutto il dibattito, a partire da questo pezzo.

Dico questo per esperienza - l'ora di religione è un vecchio arnese che in fondo sta nei piedi a tutti, compresi molti cattolici; Profumo non è il primo "tecnico" o "politico" che ci inciampa, succede più o meno a chiunque passi di lì. La tentazione di rimuovere l'ingombro prima o poi viene a chiunque. E il più delle volte non si tratta di una questione di multiculturalità o di tolleranza - anche se è di questo che si discute e si litiga in tv, e sui giornali, e sui blog. Ma sotto tutte queste chiacchiere di facciata, il problema è un po' più terra-terra: l'ora di religione costa troppo. Costa quasi il doppio di un'ora di lezione normale, perché essendo (secondo il Concordato vigente) un'ora di "Insegnamento della Religione Cattolica", genitori e studenti hanno il diritto di uscire e avvalersi di un altro insegnante, cosiddetto di "Materia Alternativa", che allo Stato costa tanto quanto il prof di religione. È un diritto sancito dalla Costituzione, e ribadito con forza da una sentenza del Consiglio di Stato due anni fa, ma è anche (mettetevi nei panni di un governo di revisori di conti) un maledetto spreco. Purtroppo non ci si può far niente (continua sull'Unita, H1t#146).

Non ci si può far niente perché di mezzo c’è un Concordato – e Profumo non è così sprovveduto da non saperlo; per modificare un concordato serve molto tempo e molto consenso, e questo governo non dispone di entrambi. Là fuori stanno già scaldando i motori della campagna elettorale (alcuni pullman sono già partiti), e a chi è a corto di argomenti per farsi votare uno slogan come “l’ora di religione non si tocca” è un regalo di Natale in anticipo. Conta poco che tanti cattolici, sottovoce, ammettano che l’Ora così com’è adesso non funziona: estromessi dalla pagella, costretti a lasciar uscire tutti gli alunni che lo desiderano, i prof di religione non hanno né il tempo né l’autorità per fare apostolato o catechismo. In molti casi finiscono per offrire un’infarinatura di tutte le fedi più in voga, in barba alla definizione ufficiale della materia (Religione Cattolica). Talvolta umiliano sé stessi e la stessa religione che dovrebbero istituzionalmente difendere.
Insomma, i margini per ridiscutere l’ora di religione ci sarebbero. Ma la questione diventa subito politica: l’ora di Religione Cattolica è una bandierina che il Vaticano ha piantato tanto tempo fa nella scuola pubblica, e ammainarla avrebbe un significato simbolico assai superiore al suo valore effettivo. Si vedal’infinita e assurda battaglia per mantenere nelle aule il crocefisso, un’altra bandiera che non credo abbia mai conquistato alla fede un solo studente – ma appena a Strasburgo qualche giudice si è opposto, abbiamo visto i nostri governanti impugnare immensi crocefissi davanti alle telecamere. Più che una questione religiosa, è una questione identitaria: un modo tecnico per dire che è in mano ai pazzi. Si tratta né più né meno di andare in fondo alla curva e farsi consegnare dagli ultras i loro striscioni.
E poi c’è la questione delle cattedre. Di cui magari in tv o sui giornali non si parla: ma è quella più complicata. Il prof di religione è una bizzarra chimera: impiegato statale, ma autorizzato a svolgere il suo lavoro da un vescovo. Il ministro Profumo, se una sera vuole dire una battuta ai giornalisti e non ne trova una migliore, può anche sostenere che l’insegnamento della religione vada cambiato e reso più “aperto e multietnico”: ma è il primo a sapere che non ha senso chiedere a insegnanti approvati dalla Curia di insegnare religioni non cattoliche. E allora che si fa di queste migliaia di insegnanti, che la Moratti eroicamente volle assumere (possiamo tranquillamente dire che è stato il suo principale contributo allo sfacelo, pardon, alla pubblica istruzione)? Licenziarli sarebbe molto complicato. Li si manda tutti da un rabbino e da un imam per ottenere un’analoga abilitazione nelle rispettive religioni? E se i rabbini e gli imam ce li rispediscono indietro a pedate? Ne avrebbero il diritto. Allora dobbiamo assumere il triplo di insegnanti? Dai, ministro, non fare il furbo. Secondo me tu hai in mente qualcos’altro: ad esempio, de-cattolicizzare l’ora di religione (comunque servirebbe una revisione al Concordato, campa cavallo) e infilarla nel pacchetto delle ore di materie umanistiche, Italiano Storia Geografia eccetera. Quei prof che alle medie t’infarinano in storia e in geografia possono benissimo prenderti un paio di lezioni per spiegarti Budda o Maometto, che vuoi che sia. E i prof di religione cattolica approvati dai vescovi? Li si immette tutti nella graduatoria dei prof di materie umanistiche, così finalmente anche loro avranno un sacco di voti da scrivere in pagella, e gli studenti li rispetteranno. Magari Profumo ha in mente una soluzione così: trasformare i prof di religione in prof di qualche altra materia ‘normale’.
Magari non ha in mente un bel niente, parlava tanto per. Che non si stesse prendendo troppo seriamente lo dimostra il fatto che ha accomunato l’Insegnamento delle Religione Cattolica a un’altra materia, lei sì orribilmente snobbata: la Geografia. Bisogna “revisionare i programmi”, ha detto Profumo, per via che ci sono molti stranieri nelle scuole. Ora, chiunque ha messo il naso in una scuola sa che gli stranieri ormai ci sono da vent’anni, e per la maggior parte sono stranieri nati in Italia, un controsenso logico ma va a tutti bene così, pure a Beppe Grillo. Se Profumo voleva dirci che bisogna modificare la geografia per includere meglio in classe, poniamo, un cingalese nato a Roma o un cinese di Prato, vabbe’, sì, perché no. Ma in concreto di che si tratta? Stanzierà qualche soldo per aggiornare gli insegnanti? Non ne ha. Ci darà qualche ora in più, visto la geografia dopo gli ultimi tagli della Gelmini è scomparsa dalla maggior parte delle scuole? Ci mancherebbe. E allora? E allora niente, sono i soliti bei discorsi: insegnanti, siate più multiculturali, su da bravi. Va bene ministro, prometto che sarò più multiculturale mentre racconto cos’è la valle dell’Indo a un pakistano nato nell’ospedale del mio quartiere. http://leonardo.blogspot.com
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Sono tutti obbligati a tollerarci?

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Sono molto affezionato a Charlie Hebdo, un foglio satirico che forse mi ha insegnato più cose sulla Francia del serissimo Le Monde. Ammiro il coraggio dei suoi redattori, che a differenza di tanti anti-islamici da bar si sono sempre presi la responsabilità delle loro provocazioni, pagandone conseguenze molto concrete, quando un anno fa la loro sede andò a fuoco. E anche stavolta, come un anno fa, il loro Maometto mi ha fatto ridere.

Detto questo, vorrei cercare di spiegare perché ritengo che la scelta di Charlie Hebdo di continuare a pubblicare vignette sul profeta - per quanto legittima, e coraggiosa - sia inopportuna. Quando Charb, il direttore, ammonisce che  "Se si comincia a dire che non si può disegnare Maometto, in seguito non si potranno più disegnare i musulmani", indica un orizzonte che è semplicemente implausibile. Le manifestazioni di protesta inscenate nei giorni scorsi nei Paesi musulmani hanno coinvolto 'solo' alcune migliaia di persone: poche, confrontate con il miliardo di musulmani che ha semplicemente ignorato la cosa, e che in certi casi ha manifestato per motivi assai più seri - nel disinteresse dei nostri organi di stampa, che per un presidio anti-vignette si scomodano e per un corteo antigovernativo in Yemen no. In ogni caso, anche nei Paesi dove si è manifestato contro le satire maomettane, nessun governo ha appoggiato le proteste, e molti le hanno soffocate: in Pakistan la polizia ha sparato sui manifestanti e ne ha ucciso una decina o più. Se stavano protestando contro il nostro diritto occidentale di disegnare Maometto e burlarci di lui, possiamo dire che la polizia pakistana ha difeso il nostro diritto. Qualcuno ha voglia di festeggiare? (continua sull'Unita.it, H1t#145) (ora di là si commenta solo con facebook, o se preferite potete commentare qua).

Siamo liberi di disegnare qualsiasi cosa. Ma proprio questa libertà – teoricamente illimitata – mette in crisi una nozione fondamentale, senza la quale forse non riusciamo più a conoscere il mondo: il concetto di limite. Noi pretendiamo che non ci siano limiti alla nostra libertà: se qualcuno da qualche parte nel mondo non ci tollera, occorre costringerlo. Viceversa, noi non possiamo tollerare nessuna limitazione della nostra libertà. La satira deve ridere di tutto: se all’improvviso a quel “tutto” viene sottratta una sola unità (Maometto), il tutto frana all’improvviso e ci ritroviamo nella situazione opposta: non si può più raffigurare niente, non si può più ridere di niente.  Per Charb almeno le cose stanno così: si passa nel giro di una frase dal divieto di disegnare il profeta a quello di disegnare i suoi fedeli, “E poi non si potrà più disegnare cosa? I cani, i maiali? E poi? Gli esseri umani?” Eppure nessuno ha posto la questione in questi termini. Nessuno per ora ha proibito a nessuno di disegnare un musulmano, o un cane, o un maiale. Questa apocalisse della raffigurazione è l’angoscia che riempie il vuoto della nostra fantasia, che non sa più concepire un limite alla nostra libertà.
Torniamo a terra.  Nessuna libertà è illimitata. Ci sono sempre dei limiti storici e culturali, che ci sono imposti o che ci auto-imponiamo. Anche la televisione francese, una delle più libere del mondo, non trasmette film porno in chiaro. Magari in futuro succederà: ogni limite è tale perché è condiviso da una maggioranza che col tempo può dissolversi, o cambiare idea. Queste periodiche crisi delle vignette, che sarebbero ridicole se non facessero danni e morti, sono un banco di prova per l’umanità, che da qualche anno grazie a internet si ritrova a dover condividere una piazza comune, e ancora non sa bene come regolarsi. In una parte della piazza sono abituati a ridere di qualsiasi dio; in un’altra parte non la stanno prendendo bene, ma in ogni caso è chiaro che da qui in poi la piazza sarà una e una sola. Dovremo arrivare prima o poi a stabilire un minimo codice di comportamento. L’idea che va per la maggiore da noi è che tutti gli altri debbano tollerare la nostra libertà, anche a prezzo della loro vita. Mi dispiace, ma non mi sembra un’idea sostenibile.
Mi sembra più praticabile un sistema di tolleranze reciproche, in cui si accetta che ogni gruppo presente nella piazza abbia un margine di suscettibilità, un piccolo recinto sacro intorno ad alcune cose su cui sia inopportuno scherzare. Credo che sia anche l’unico sistema che ci tuteli, visto che in questa piazza non siamo la maggioranza – non lo siamo mai stati, e continuiamo a diminuire.http://leonardo.blogspot.com
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Revolution won't be wikified

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Quando alla Leopolda, quasi un anno fa, Renzi lanciò i suoi "100 punti", molti scrissero che si trattava di un wiki-programma; dove "wiki" sta per "immediatamente modificabile dagli utenti su internet", sul modello ormai universalmente noto di wikipedia. I 100 punti fecero effettivamente discutere molto gli internauti (anch'io dissi la mia), però il wiki tanto atteso non ci fu. Anche ora il programma scaricabile dal sito di Matteo Renzi continua a essere organizzato in 100 punti. Alcune modifiche rispetto al testo del novembre 2011 ci sono - sarebbe interessante studiarle - ma è chiaro che sono varianti d'autore, non il risultato di un wiki. Questo a mio parere era inevitabile: tra le tante cose che si possono fare su un wiki, scrivere un documento politico mi sembra una delle più difficili. Come si può evitare che la discussione venga sabotata da avversari politici? Bisognerebbe selezionarli all'ingresso - ma a quel punto si rischia di restare in compagnia soltanto di chi la pensa come noi, il che rende lo strumento del tutto inutile.

Renzi non è l'unico ad aver immaginato - anche solo per un istante - un wikiprogramma. Senza bisogno di arrivare in Islanda, dove l'anno scorso l'Assemblea Costituente condivideva le sessioni di lavoro su Facebook, in Italia abbiamo l'esempio del Movimento 5 Stelle, il cui programma è effettivamente il risultato della discussione nei forum del movimento - e si vede: è un testo meravigliosamente sconclusionato, in cui si passa in poche pagine dai tecnicismi burocratici ("Applicazione immediata della normativa, già prevista dalla legge 10/91 e prescritta dalla direttiva europea 76/93, sulla certificazione energetica degli edifici") alle bordate iperpopuliste ("accesso alla rete gratuito per ogni cittadino italiano": coi soldi di chi?) In ogni caso un programma sbilenco è sempre meglio di nessun programma - e le promesse del M5S non sono più populiste di quelli che Lega e berlusconiani ci hanno propinato per 15 anni. Ci vogliono regalare internet, mica 1.000.000 di posti di lavoro...

A proposito di posti di lavoro: ho trovato molto interessante questa battuta di Grillo... (continua sull'Unita.it, H1t#12x12)

“Nel Movimento abbiamo questi due o tre ragazzi che hanno fatto due mandati e non si possono più ripresentare e così sono entrati nel panico. Li capisco, per carità. Erano disoccupati e per un po’ di anni si sono trovati a prendere uno stipendio da tremila euro al mese e a gestire un po’ di potere, e adesso si sentono l’acqua alla gola perché devono lasciare”.
Qui davvero non parla Grillo il leader, ma Grillo il boss: Favia e gli altri “ragazzi” vengono liquidati come CoCoPro: hanno fatto due mandati? Via e pedalare. Riflettiamoci: Grillo è riuscito a costituire un grande movimento d’opinione intorno a un ribaltamento di prospettiva, per cui i politici, da padroni, dovevano diventare i nostri dipendenti: li paghiamo noi, quindi devono fare le cose che chiediamo noi. Il punto è che dai dipendenti noi ci aspettiamo una certa dose di professionalità. Questo però entra in conflitto con un altro principio cardine del M5S: il tetto massimo di due mandati. In pratica Grillo e i suoi ci stanno proponendo di assumere dei dilettanti, che appena riescono a fare esperienza… devono lasciare il mestiere. Ma, anche ammesso che noi non li volessimo più, chi impedisce loro di trovarsi un contratto meno atipico presso un datore di lavoro concorrente? Alla fine il “tradimento” di Favia non è un incidente (come Favia stesso sta cercando di presentarlo), ma il nodo della democrazia partecipata che viene al pettine. Che tipo di politici vogliono Grillo e Casaleggio? Professionisti o dilettanti? I dilettanti possono interagire su piattaforme pubbliche di condivisione: creeranno parecchia confusione, ma forse a un certo livello sono più gestibili. E tuttavia, per quanto si possano cercare forme alternative di partecipazione ‘dilettante’, sui forum o sui wiki-programma, alla fine un Movimento non può evitare di formare dei professionisti, degli esperti. Se il Movimento li scaricherà, troveranno qualcuno che li sa apprezzare.
Tornando ai wikiprogrammi, devo segnalare un’altra iniziativa nata nel PD: Insieme per il PD, un “progetto per cambiare l’Italia” dei Democratici per il futuro. Non l’ho ancora letto bene, ma tra i contributi ho trovato chi voleva una riforma presidenziale ed Emma Bonino al Quirinale. Insomma, resto un po’ scettico. I wiki mi sembrano strumenti meravigliosi per discutere, non per trarre conclusioni. Ma in un partito confuso, vitale ma in perenne crisi d’identità come il PD, anche discutere è importante.http://leonardo.blogspot.com
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Tutti meritocratici col culetto mio

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Si parla tanto di meritocrazia, ultimamente. Così tanto da correre il rischio che la parola, "meritocrazia", perda il suo significato. Il termine, che peraltro quando fu coniato aveva un sapore dispregiativo, intendeva sintetizzare il concetto che dovrebbe governare chi se lo merita. Da molto tempo ormai il termine è slittato verso il mondo del lavoro: non si tratta di governare, ma semplicemente di trovare un posto dignitoso. Siccome si dà ormai per tristemente scontato che non ce ne siano per tutti, occorre selezionare quelli che *se lo meritano*. Come si fa? Se chiedete al ministro dell'istruzione e al suo entourage, non c'è il minimo dubbio: concorsi. In teoria non fa una grinza.

In pratica si tratta di dire a migliaia di precari in tutta Italia, che lavorano nella scuola a volte anche da dieci anni, che *non si meritano* di fare quello che stanno facendo. Perché non hanno mai superato un concorso. Un concorso, peraltro, che negli ultimi dieci anni non c'è stato. Magari lo avrebbero superato, non possiamo saperlo. Quel che sappiamo è che tanti di loro hanno continuato a lavorare anno dopo anno, assunti il 15 settembre e licenziati il 30 giugno, senza mollare. Questo potremmo anche considerarlo un titolo di merito (perlomeno sufficiente a farli accedere a un concorso riservato), ma corre voce che no, non lo sia. Peraltro in tutti questi anni hanno avuto la brutta idea di invecchiare un po', di infiacchirsi, di deprimersi, contribuendo a rendere la scuola italiana un luogo grigio e desolante. Invece coi nuovi concorsi meritocratici dovrebbero arrivare un sacco di giovani che sanno le risposte giuste a un sacco di domande, il che è evidentemente più meritocratico.

Rimane il solito problema. Chi fa le domande? E soprattutto: perché non riesce mai a farle bene? (Continua sull'Unita.it, H1t#143)

Ho qui il ritaglio di un’intervista che Gregorio Iannaccone, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, ha concesso a “Repubblica” qualche giorno fa. L’ho trovata strepitosa. A una lettura svogliata sembrerebbe che Iannaccone abbracci del tutto le teorie meritocratiche del ministro Profumo (sin dal titolo: “Dal ministro una scelta vincente / in cattedra serve più meritocrazia”!) A legger meglio, però, ci si accorge che Iannaccone di concorsi non ne vuole. Per un semplice motivo: sembra che al Ministero nessuno sia in grado di scrivere un test senza infilarci errori e strafalcioni, che portano spesso al ricorso.
Il guaio è che ha ragione. Nel test per il concorso presidi una domanda su cinque era sbagliata. Stessa percentuale nei test per gli insegnanti (ne abbiamo parlato qui). A questo punto l’intervistatore gli chiede se non sia il caso di “affidare la gestione dei concorsi alle scuole”. Iannaccone però ha il buonsenso di osservare che se sbaglia il ministero, sbaglieranno anche le scuole. Cioè, non c’è proprio niente da fare: sbagliano tutti, “l’errore è fisiologico”. E allora? E allora ci vuole “una formula più snella, con una valutazione affidata alle scuole e alle università: sono loro a capire di che docenti hanno bisogno e a conoscere il percorso post-laurea dei candidati. Al curriculum dovrà poi affiancarsi un colloquio finale, affidato a una commissione”. Se ho ben capito, per le università si torna al vecchio sistema per cui una manciata di professori si affronta in una stanza per decidere a chi spetti assumere stavolta il pupillo che magari da anni si fa un mazzo gratis. Siccome è un sistema che ha funzionato tanto bene, si propone di estenderlo anche alle scuole: i presidi prenderanno i curriculum, si ritireranno in un’aula con una “commissione”, e poi telefoneranno a chi gli pare. Meritocrazia!
Ma forse ho capito male. Mi resta una semplice obiezione: preside Iannaccone, se al ministero non sanno scrivere i test, non è che forse non *si meritano* di lavorare lì? Non si potrebbero semplicemente licenziare, non si potrebbero sostituire con persone che siano in grado di scrivere i test? Sul serio è impossibile scrivere test senza una domanda sbagliata su cinque? Sul serio un 20% di errori è “fisiologico”? E perché tutti quelli che parlano di meritocrazia danno la sensazione di preoccuparsi soltanto della meritocrazia degli altri? http://leonardo.blogspot.com
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Staino e il web

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Per fortuna che c'era Staino, giovedì scorso alla Festa Democratica di Urbino. Per fortuna perché dovevamo parlare di web e comunicazione, e il momento era particolare: Bersani aveva appena parlato di fascisti del web, aveva dato del "pirla" su twitter a chi lo accusava di essere contro il web. Ma poi alla fine cos'è il web? Cosa significa essere fascisti sul web invece che altrove? In che modo il web aggiunge aggressività al dibattito politico?

Per fortuna che c'era Staino, perché noialtri supposti esperti, complice anche l'ora tarda, non è che avessimo molte cose nuove da aggiungere: il web non è necessariamente migliore o peggiore di qualsiasi altro ambiente; non è intrinsecamente violento, ma è un ambiente immateriale in cui siamo quasi sempre privati del linguaggio del corpo dei nostri interlocutori; da cui i frequenti fraintendimenti, l'impulso a calcare i toni per renderli più evidenti, a parlare più colorito, a passare più velocemente a quegli insulti che, specie quando siamo anonimi, possiamo lasciare senza conseguenza. Quelle che una volta chiamavamo "autostrade informatiche" assomigliano un po' alle autostrade vere, dove spesso l'unico modo per capirci è sfarfallare gli abbaglianti, pestare il clacson, esibire gesti osceni. Tutto già studiato e ristudiato, ma non spiega il perché questo tipo di aggressività investa anche personalità pubbliche, che non affidano le loro comunicazioni all'istinto - perlomeno non dovrebbero. Più facile pensare che stiano semplicemente mimando gli atteggiamenti urlati dei loro fan: forse stanno imparando a urlare da noi utenti, magari a furia di leggere i commenti inviperiti che lasciamo sotto qualsiasi messaggio, si sono convinti che sul web si fa così... (continua sull'Unita.it, H1t#142).

È stata una fortuna che ci fosse Staino, perché a un certo punto io – che ero in cartellone con l’imbarazzante etichetta di blogger – mi stavo incartando in un discorso paradossale in cui affannosamente spiegavo che quello di Beppe Grillo non è un vero blog, malgrado resti il più letto in Italia (e uno dei più letti al mondo); che il suo modo di comunicare non è particolarmente tipico del web o adatto al web. Non è una questione anagrafica, ma di metodo: il web è un insieme di discussioni, mentre Grillo lo usa semplicemente per amplificare i suoi monologhi. La vera differenza tra il web e i media che conoscevamo fino a qualche anno fa è la possibilità di interagire e di discutere. Grillo rimane un grande monologhista, ma non discute. Ha mai veramente risposto a una domanda che gli sia stata rivolta sul web? Alla critica di un qualsiasi commentatore?
 
Meno male che c’era Staino, che tirava su l’umore con le sue vignette e ci teneva svegli con le sue storie, tra cui una che spiega meglio di mille parole quello che non riuscivo a spiegare. Due anni fa, quando in un incidente aereo morirono 96 membri del governo polacco, Staino disegnò una vignetta controversa che ebbe il dubbio onore di essere riprodotta (ingrandita) sul Giornale, sotto il titolo “VOGLIONO MORTO BERLUSCONI” (la battuta originale era un lievemente più sottile “a chi tutto e a chi niente”. L’ingrandimento rese ancora più evidente l’e-mail di Staino, a cui cominciarono ad arrivare centinaia di messaggi indignati, incazzati, quel genere epistolare che in inglese ha già il suo nome (“hatemail”) e che ormai consideriamo tipico della comunicazione on line. A tutte queste mail odianti e odiose, Staino rispose. L’altra sera ci raccontava di come le lesse tutte, classificandole in base ai contenuti in quattro categorie, e studiando una risposta adeguata per ogni categoria.

Il risultato di questo lavoraccio fu un’altra ondata di mail, il cui tono però era improvvisamente cambiato: molti che lo avevano insultato ora gli chiedevano scusa; alcuni persino lo ringraziavano di averli gratificati di qualcosa che ormai non si aspettavano più: una risposta. Meno male che l’altra sera c’era Staino, a spiegare che il web è conversazione; non con parole astratte, ma con una bella storia. Sono molto contento di averlo conosciuto, e di poter collaborare al quotidiano che illustra da tanti anni. Trovo più che giusto che il suo spazio sia il più visitato e commentato di Unita.it: non è semplicemente una prova di fedeltà, ma anche la dimostrazione che gli utenti riconoscono chi ha capito come funziona il web, e chi sa usarlo con civiltà. Ne approfitto per ringraziarlo. http://leonardo.blogspot.com
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E vergognarsi un po', ministro?

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Così, dopo un mese di proteste, il Ministero della Pubblica Istruzione ha riconosciuto che molti test di preammissione ai Tirocini Formativi Attivi erano fatti male: che contenevano domande mal poste, a cui corrispondevano talvolta risposte sbagliate. Lo ha ammesso tardi, quando ormai tutti i test erano stati somministrati, valutati, e chi era stato respinto ingiustamente era magari partito per le vacanze. Lo ha ammesso a inizio agosto, ci ha messo altri 15 giorni a "chiudere la procedura di verifica", insomma a far sapere chi è passato e chi no, e a inizio settembre cominciano gli orali: molti candidati che due settimane fa risultavano respinti e ora ammessi non avranno comunque tempo per prepararsi adeguatamente. Per questo pasticcio, che sarebbe scandaloso se non fosse quasi la routine, non è chiaro chi pagherà. Temo nessuno. (Continua sull'Unità.it, H1t#141).

Nessuno indennizzerà le estati rovinate di migliaia di studenti e precari: alcuni di loro abbandoneranno l’insegnamento, non per mancanza di preparazione o vocazione, ma perché un test a crocette era sbagliato. A frittata combinata, il Ministero ha avuto la compiacenza di informarci che i test comunque erano stati messi assieme da ‘esperti’ della passata gestione: la colpa insomma anche stavolta è del governo precedente. Il nuovo dicastero si sarebbe limitato a ereditare le buste sigillate, senza nemmeno porsi il problema di verificare cosa ci fosse dentro? A questo punto la lunga attesa per conoscere finalmente date e luoghi dei test non si capisce a cosa sia servita: forse a tenere alta la suspense.
Un’altra volta magari mi piacerebbe discutere sul perché gli stessi enti così fortemente persuasi della necessità di filtrare tutto attraverso test chiusi e meccanizzati – il MIUR, l’INVALSI – alla prova dei fatti molto spesso non riescono a produrne di decenti: come se anche chi si dice convinto della bontà dello strumento lo sottovaluti, lo consideri alla fine dei conti robaccia da demandare alla bassa manovalanza: coi risultati che si vedono. Un’altra volta ne riparleremo. Stavolta vorrei far passare un messaggio molto più semplice e diretto: ministro Profumo, non potrebbe almeno vergognarsi un po’?
In uno Stato decente, in una situazione ordinaria, per un pasticcio così ci si dimette, ministro; e forse lei potrebbe mostrare una residua decenza, potrebbe almeno provarci. Non renderà il tempo perso a migliaia di persone; probabilmente non ridarà loro fiducia nel sistema educativo pubblico; forse però restituirebbe a chi ha ancora voglia di crederci l’immagine di un governo che si preoccupa della formazione non solo a parole, senza delegarla a un pool di scimmie neanche tanto ammaestrate, Ministro, neanche tanto ammaestrate.http://leonardo.blogspot.com
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Persone autorevoli, credibili

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Senza avere la pretesa di rappresentare nessuno, sono anch'io uno delle migliaia di elettori del PD che l'altro giorno hanno letto le dichiarazioni di Fioroni e si sono fatti andare di traverso la colazione. A un insieme di persone unite in questi mesi da un terribile mal di pancia di fronte alla prospettiva sempre più credibile di dover votare una coalizione con Casini e forse Fini, Fioroni ha ritenuto giusto aumentare la dose, ventilando la possibilità di allearsi anche con "persone autorevoli e credibili" del fu Pdl.

Oltre a essere poco rappresentativo, sono anche in ferie; leggo poco i giornali e me ne scuso, ma non sono in grado di ricostruire la situazione politico-mediatica in cui Fioroni ha ritenuto di fare un'uscita del genere. Voglio dire che se Fioroni stava parlando alla cognata perché intendesse la suocera, io in questo momento non sono in grado di identificare né suocera né cognata né cugini di primo grado. Tutto quel che ho letto è la sua dichiarazione, e centinaia di commenti inviperiti qui sull'Unità, nei social network, più o meno ovunque se n'è parlato. Tutte reazioni perfettamente prevedibili... (continua sull'Unita.it, H1t#140).

Tutte reazioni perfettamente prevedibili, perlomeno da me che non sono certo guru: quindi do per scontato che un politico consumato come Fioroni sapesse benissimo che avrebbe innervosito migliaia, forse milioni di suoi potenziali elettori, perdendone anche parecchi; e che la cosa non lo impensierisca più di tanto. Era più importante rilasciare dichiarazioni a Klaus Davi, o alla suocera, o alla cognata, non lo so. Mi chiedo se negli altri partiti italiani, ma anche negli altri partiti tout court, succedano queste cose: rappresentanti di primo piano che fanno dichiarazioni palesemente indigeste alla loro stessa base, incuranti dei danni che arrecano. Non lo so, m’informerò, a me sembra fuori del mondo, ma magari sono io.
Mi resta la curiosità di sapere di chi stesse parlando Fioroni: chi siano insomma quelle “persone autorevoli e credibili” che adesso sono nel PdL e che tra qualche mese dovrei votare io, basta che riconoscano che il “berlusconismo è finito”. Nel 2012. Io già faccio fatica a digerire la faccia di Casini quando mi dice che lui è stato il primo ad accorgersi che Berlusconi non era liberista, lui, tipo nel 2008; dopo 14 anni di alleanza elettorale. Dove i casi sono due: o io sono veramente un guru, e guru come me tutti quelli lo sapevano benissimo sin dal 1994, che il liberismo di Berlusconi consisteva nel difendere le sue aziende e allungarsi i processi; oppure anche Casini sottovaluta di molto la nostra tenuta gastroenterica, la nostra capacità di sopravvivere ai mal di pancia che ci procurate. È senz’altro è vero che abbiamo sopravvissuto fin qui a prove notevoli: persino Rutelli abbiamo votato, persino Dini o la Binetti. Questo però non vi autorizza a passeggiare tranquillamente sui nostri stomaci a ferragosto: o sì? http://leonardo.blogspot.com
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Di libri basta uno per volta

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La mia solidarietà al sindaco di Verona Flavio Tosi, che ieri, nel tentativo di difendere il buon nome di Alessandro Manzoni dalle sparate stagionali del suo ex boss, Umberto Bossi, ha commesso una gaffe tutto sommato comprensibile. Bossi, lo avrete sentito, aveva definito Manzoni "un grande traditore, una canaglia", per via di quel famoso risciacquo dei panni in Arno, grazie al quale gli italiani dell'Ottocento ebbero una lingua letteraria moderna molto prima che una nazione. Per l'ex leader della Lega si trattò di un tradimento, ordito da un "re"; non è ben chiaro quale, visto che nel 1827, mentre Manzoni si stabiliva a Firenze col proposito di migliorare il suo italiano, sul trono sabaudo sedeva ancora l'arcigno Carlo Felice.

A Bossi, comunque, Tosi ha replicato che "Manzoni ha scritto dei romanzi meravigliosi, veramente avvincenti: è un grande della letteratura italiana". Sono parole commoventi, anche se non venissero da un esponente della Lega Nord, anche se le avesse proferite un italiano qualunque: è sempre commovente vedere che malgrado tutti gli sforzi della scuola per farcelo odiare, Manzoni continua ad avere degli ammiratori genuini, anche ingenui, come ad esempio il sindaco Tosi.

L'ingenuità di Tosi è tutta qui... (continua sull'Unita.it, H1t#139).

L’ingenuità di Tosi è tutta quiper quanto Manzoni sia un grande autore, un classico della nostra letteratura, non si può proprio affermare che abbia scritto “dei romanzi meravigliosi”, per il semplice e tristissimo motivo che ne ha scritto uno solo: i Promessi Sposi. Certo, lo ha scritto almeno tre volte. La prima stesura era così diversa che per molti studiosi si tratta di un romanzo a parte; gli hanno anche trovato un nome, il Fermo e Lucia. Però alla fine si tratta di uno scartafaccio che Manzoni non volle mai pubblicare; e la storia è più o meno la stessa che leggiamo nell’unico romanzo pubblicato.
Tosi è stato veramente sfortunato. Con qualsiasi altro romanziere, quel plurale (“romanzi meravigliosi”) sarebbe andato benissimo. Di solito di romanzi uno scrittore ne scrive più di uno, se non muore veramente giovane. Manzoni è l’eccezione. Un’eccezione veramente straordinaria: cominciò a scrivere di Fermo e Lucia nel 1823 (aveva trentasei anni); terminò di pubblicare l’ultima versione nel 1842, quasi vent’anni dopo. Nel frattempo scrisse tantissime altre cose: due tragedie, e tanti saggi, tra i quali uno a proposito “Del romanzo storico, e, in genere de’ componimenti misti di storia e di invenzione“, in cui si conclude che questi romanzi misti di storia e invenzione (reality e fiction, si direbbe oggi) sarebbe meglio non scriverne più. E infatti non ne scrisse più, costringendoci a concentrarci su quel suo unico meraviglioso e tormentato tentativo. Se ne avesse scritto anche solo un altro, magari i Promessi sposi non sarebbero diventati quell’orribile feticcio scolastico che a tutti ricorda almeno un’interrogazione finita male.
Tosi non si è fermato lì, ma è riuscito persino a indicare il nome di un altro romanzo di Manzoni: la Storia della colonna infame, che un romanzo effettivamente non è, anche se è difficile indicare che cosa sia. All’inizio era un blocco di pagine all’interno del Fermo e Lucia, che poi prese un’altra strada. Sicuramente è una cosa “meravigliosa” e “avvincente”: su questo il sindaco di Verona ci ha azzeccato. È anche un’opera straordinariamente moderna, in cui si narra senza concessioni alla fiction un orribile fatto di cronaca del Seicento, un processo-farsa intentato a due untori, e si riflette sulla credulità umana, sulla macchina giudiziaria, sulle dinamiche dell’infamia, eccetera – forse è il libro di Manzoni che è più attuale oggi. Purtroppo no, non è un romanzo, ma è davvero più interessante di tanta roba esposta nelle vetrine quest’estate; forse varrebbe la pena di chiamarlo “romanzo”, giusto per farlo leggere a chi dai saggi si tiene rispettosamente lontano. Non sarebbe certo la prima volta che si fa passare per romanzo una cosa che non lo è, e in fondo che c’è di male? Vuoi vedere che in fin dei conti Tosi non ha tutti i torti?http://leonardo.blogspot.com
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Fin qui nessuna traccia dei nativi

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The class they couldn't teach

"Eravamo la classe a cui gli insegnanti non potevano fare lezione, perché ne sapevamo più di loro". Questi due versi di una canzone dei Police, quindi molto vecchia ormai, mi sono tornati in mente lunedì mentre partecipavo a una chiacchierata sull'insegnamento, e in particolare sull'insoddisfazione dei professori. Il pretesto era un rapporto della fondazione Gianni Agnelli, ma a un certo punto qualcuno ha tirato in ballo la questione dei nativi digitali: che è il modo anni '10 di definire i giovani d'oggi, la generazione che è nata davanti al computer e che quindi malsopporta una didattica tradizionale a base di quadernini a righe e quadretti e lavagne di ardesia. Io a quel punto forse sono stato antipatico, forse ho recitato fino in fondo il mio ruolo di insegnante scettico che in tutte queste novità digitali ci crede fino a un certo punto. A mia discolpa posso solo canticchiare una vecchissima canzone dei Police, intitolata Born in the 50s: Sting è del '51, avrà finito il suo percorso scolastico intorno al '68, e già allora condivideva la sensazione di avere una marcia in più rispetto ai suoi insegnanti. Probabilmente è stato sempre così, soprattutto nei periodi di crescita, quando i cambiamenti veloci mettono in discussione le conoscenze del passato e la scuola si scopre improvvisamente come il baluardo di tradizioni inutili. Probabilmente ogni generazione è insoddisfatta dei suoi insegnanti, e il cosiddetto "digitale" è semplicemente il terreno in cui si esprime oggi questa insoddisfazione: finché alla lavagna di ardesia non si sostituisce quella digitale, giusto per scoprire che comunque la lezione bisogna studiarla lo stesso, e che studiare è comunque fatica. Probabilmente la sensazione di "saperla più lunga" l'hanno avuta tutte le generazioni, compresa la mia.

Il fatto è che io, che pure su internet ci passo parecchie ore al giorno, non posso dire di conoscere nativi digitali. So che da un certo punto in poi devono esserne nati, so che a un certo punto arriveranno, posso anche immaginare che siano già tra noi: però non li vedo (i lamenti del barbogio professore proseguono sull'Unità, H1t#138).

Forse sono davvero troppo avanti per me, invisibili nelle pieghe della social-network-sfera. Oppure semplicemente sono gli stessi avatar goffi che vedo io, che pasticciano su wikipedia, lucrano aiutini per le interrogazioni su yahoo answers, mandano in trend imbarazzanti catene su twitter, e a quindici anni ancora ignorano che se posti una foto su facebook non è più tua, è di facebook (qui da me almeno è così, tutti gli anni mi tocca spiegare la stessa cosa ai cosiddetti “nativi”: se fossero davvero così nativi, a questo punto spetterebbe a loro spiegarla a me).
Forse c’è un equivoco. Forse ce ne sono parecchi. Forse ci ha messo fuori strada il cliché anglosassone del nerd (o geek), come se bastasse nascere davanti a un computer per diventare geni del computer: non è così, la maggior parte dei bambini che tirano pallonate nei cortili non diventano Balotelli, e la maggior parte di quelli che chattano su facebook non creano nessuna nuova dimensione comunicativa: si stanno solo scrivendo bigliettini, telegrafici e sgrammaticati come quelli che si scambiavano i fratelli maggiori via sms e che noi ci mandavamo a mano. Addirittura la novità è che oggi l’adulto, l’insegnante, il non-nativo, li può intercettare più facilmente, e se ha facebook (e facebook ormai lo hanno tutti) può impratichirsi dei loro linguaggi. Ogni generazione ne sviluppa di nuovi, però oggi possiamo sapere cosa significa LOL WUT prima che qualcuno ce lo scriva sulla lavagna. Ai miei tempi non era così, ai miei tempi i grandi erano veramente tagliati fuori. I nativi digitali nascono già colonizzati dagli adulti, che sono arrivati da un altro continente con già tutto il bagaglio di esperienza necessario a spadroneggiare.
Io non sono affatto sicuro di sapere come ragiona un nativo digitale. Per prima cosa perché non sono sicuro di averne già visto uno; ma forse, quando finalmente arriverà, mi sarà del tutto incomprensibile. Posso solo immaginare che darà poca importanza alla memorizzazione delle nozioni: perché perdere tempo a immagazzinarle in un archivio difettoso come il cervello, quando ormai sono ovunque, “nella nuvola”, a portata di clic? A quel punto io, se farò ancora questo mestiere, cercherò per quanto posso di spiegargli che le nozioni sono fondamentali: sono i corpuscoli, le particelle minime che compongono le nostre conoscenze, le nostre curiosità: che indubbiamente il cervello è un hardware difettoso, ma che il suo fascino sta proprio negli arbitri che commette, nelle cancellazioni impreviste e negli abbinamenti inconsulti. Che non saprò mai cosa trovare “nella nuvola” se non parto da qualcosa che so già nella mia testa: il motivo per cui ancora oggi un nativo digitale non ha nessun vantaggio intellettuale su un tizio di dieci anni in più che abbia studiato su normalissimi libri di carta. Tutte queste cose cercherò di spiegargliele, e magari avrò torto, spesso i vecchi lo hanno.
Nella stessa canzone Sting raccontava che sua madre pianse “quando Kennedy morì. Diceva che erano stati i comunisti: ma io la sapevo più lunga”. Un ragazzo nato negli anni ’50, cresciuto leggendo i giornali in casa, i libri a scuola, poteva effettivamente capire il senso di un fatto di cronaca prima e meglio dei genitori. Il “nativo digitale” di oggi ha un vantaggio del genere? Se guardo al pezzo di internet dove abito io, e penso alle emergenze degli ultimi mesi – crisi economica, terremoto, guerra in Siria, crisi dei partiti – tutti questi giovani che “la sanno più lunga” non li vedo. Vedo un po’ di gente che crede alle scie chimiche e al signoraggio, ma voglio sperare che non si tratti di loro. http://leonardo.blogspot.com
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Tutti Fallimmo all'Alba

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Prima ti fanno studiare. Ti fanno comprare i libri, te li fanno leggere, te li spiegano, ti interrogano: qualche nozione a memoria, ma neanche tante, visto che le date e i nomi ormai non se li ricordano più neanche loro. Ti chiedono qualche concetto vago e se sentono che hai la voce sicura passano subito a interrogare qualcun altro, ché non c'è mai tempo. Ti diplomano, ti laureano, ti spintonano fuori e poi son problemi tuoi.

Poi ti dicono che se davvero t'interessa il mestiere d'insegnante... magari qualche posticino c'è. Con un'abilitazione, un concorso, un tirocinio, un piripacchio, ma soprattutto un bel bonifico. Tu paghi. Loro incassano.

Poi ti squadrano e ti dicono: lo sai, vero, che devi imparare tutto da capo? "Ma come", fai tu, "se è una vita che studio... ho anche la laurea..." Puah, dicono loro. Diplomi, lauree, pezzettini di carta. "Ma me li avete dati voi". Ora salta fuori che non sapete niente. Di niente. Meno di Socrate, lui almeno ammetteva la sua ignoranza, voi no, voi credete di conoscere qualcosa, ma cosa? Le "nozioni". Ma le nozioni non servono a niente, non lo sapevate? Non si va a scuola per imparare le nozioni, non ti paga lo Stato per impartire le nozioni, le nozioni sono inutili e dannose. Nozioni via, nozioni brutto. Come diceva l'immortale pedagogista, Eugenio Finardi, "l'unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare".

Voi ubbidite... (continua sull'Unità, H1t#137).

Voi ubbiditeché tutte queste nozioni poi non vi sembrava di averle imparate, per esempio avete qualche difficoltà a ricordare le opere attribuite a Nevio, e l’anno di pubblicazione dell’Adelchi. Però se buttiamo via le nozioni cosa ci mettiamo al loro posto? Le competenze, ci spiegano. “E cosa sono queste competenze?” Allora cominciano a parlarcene, non la smettono più, le competenze sono bellissime. Sono come dei software, tu le installi sui tuoi studenti e loro imparano a imparare tutto senza bisogno di memorizzare date che non sono importanti, capito? Le date non sono importanti! Ma possibile che abbiate passato vent’anni tra scuola e università a memorizzare date? È una vergogna, è il sintomo del ritardo italiano, nel mondo nessuno più studia le date, eccetera. Voi prendete appunti.
Poi vi dicono che quei posti famosi in realtà non ci sono, perché non ci sono i soldi per mandare in pensione i vostri predecessori. Si tratta di aspettare che abbandonino loro per consunzione. A voi scoppia da ridere, poi vi rendete conto che non è uno scherzo. Ci si risente qualche anno dopo.
Nel frattempo voi questa cosa delle competenze l’avete introiettata, avete studiato anche un po’, ci credete! Viva le competenze, abbasso le nozioni! Soprattutto le date.
A un certo punto si fanno vivi loro, dicono che qualche posto finalmente c’è, però c’è anche una fila spaventosa, bisogna prima fare un bonifico, poi una preammissione, poi un orale, poi uno scritto, poi pagarsi un anno di tirocinio, poi un concorso. Ci state? Voi ci state, si vede che insegnare proprio vi interessa. Fate il bonifico e andate alla preammissione. È un test a crocette. 700 iscritti, solo 100 posti. 60 domande, bisogna azzeccarne almeno 42. La prima è questa…
…A quel punto voi li mandate a vaffinardi.
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Per sposarsi ci vuole pazienza

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Tra qualche giorno l'onorevole Paola Concia festeggerà con la sua partner l'anniversario di quello che tanti qui sulla stampa italiana hanno chiamato matrimonio, e che matrimonio esattamente non è: per la legge tedesca si tratta di Eingetragene Lebenspartnerschaft, "convivenza registrata". Si tratta ormai di una distinzione puramente formale, da quando (ottobre 2009) la Corte federale ha riconosciuto ai conviventi registrati omosessuali tutti i diritti e i doveri dei coniugi. Ma se questa forma di convivenza comporta tutti gli onori e gli oneri di un matrimonio, perché non dovremmo chiamarlo così? E infatti lo chiamiamo così, anche in Italia, e ci lamentiamo che non esista un equivalente nella nostra legislazione: ce ne lamentiamo soprattutto durante e dopo le riunioni del PD, il partito dell'onorevole Paola Concia.

Ce ne lamentiamo a ragione: sui diritti delle coppie omosessuali siamo molto indietro rispetto ai Paesi più avanzati. Quanto indietro? La sentenza della Corte federale tedesca, abbiamo visto, è del 2009. Le "convivenze registrate" esistevano già, dal 2001, ma non riconoscevano il diritto di adozione congiunta. Una notevole differenza. Che a un certo punto è sembrata insopportabile ai tedeschi, e alla loro Corte federale. Però non ci si è arrivati in un giorno. C'è stato un processo graduale: prima si è ammessa una forma di convivenza per partner omosessuali che non dava gli stessi diritti del matrimonio (ed era già il 2001); poi ci si è accorti che questa convivenza di serie B era una discriminazione, e si è rimediato alla cosa (intanto si era fatto il 2009); ancora ci si trattiene dal chiamare il "matrimonio" col suo nome, ma a questo punto è ormai un dettaglio. Raccontata in tre righe sembra senz'altro più semplice di quanto dev'essere stata per i gay tedeschi che hanno convissuto in questi anni: ma almeno la storia ha un lieto fine, oggi hanno gli stessi diritti degli etero. Possiamo fare la stessa cosa in Italia?

Sembra di no. Da una parte chi di coppie gay non vuole sentir parlare (ma sono sempre meno); dall'altra chi vuole il matrimonio subito, la parità subito, e considera tutto il resto un compromesso inaccettabile. In mezzo, ovviamente, il PD... (continua sull'Unità, H1t#136).

 In mezzo, ovviamente, il PD, che sconta in materia una sorta di peccato originale. Non è un partito socialdemocratico, come il PSOE di Zapatero o il PSF di Hollande (che pure al matrimonio c’è arrivato per gradi, dopo un lungo percorso di accettazione dei patti civili di solidarietà, una campagna cominciata negli anni Novanta). Non è un partito euroliberale o “compassionate conservative”, tutte etichette di cui poi bisognerebbe verificare il senso. È, banalmente, un partito di centrosinistra italiano con un robusto innesto di cattolici, che su tante altre materie hanno punti di vista sovrapponibili, ma sul matrimonio e soprattutto sulla famiglia mantengono i cosiddetti valori non negoziabili. Tutto questo non è una novità e non dovrebbe più stupire nessuno.
Considerata la situazione, l’ordine del giorno dell’assemblea del PD che chiedeva un impegno per il riconoscimento delle unioni civili poteva sembrare un buon compromesso: forse il massimo che si può chiedere per ora a questo partito e non a un altro. Non è la parità subito, come in Spagna: del resto il PD non è il PSOE. Ma potrebbe essere un gradino importante, come fu il PACS in Francia nel 1999 (e non fu facile arrivarci), come le Lebenspartnerschaft in Germania nel 2001. Se l’anno prossimo una maggioranza parlamentare guidata dal PD riuscisse a farlo passare, significherebbe che l’Italia è, in questa materia, 12 anni in ritardo rispetto alla Germania. Sono tanti? Sì, tantissimi. Ma non è che possiamo far finta che un ritardo non ci sia, non soltanto a livello di legislazione, ma di mentalità. E non è un ritardo irreparabile: nulla ci vieta, una volta che ci siamo mossi, di bruciare la tappa successiva. Probabilmente la classe dirigente di estrazione cattolica del PD è sul tema più conservatrice della base che crede di rappresentare. E comunque non esiste solo il PD: se Fini, Di Pietro, persino Grillo – al netto delle battute e dei giochi di sponda – sono interessati, una maggioranza trasversale sull’argomento si potrà costruire. Ma più di tutto a mio avviso conterà l’effetto normalità: quando finalmente anche in Italia avremo coppie omosessuali normali, ci accorgeremo, tutti, che non ha senso considerarle di serie b. Ci vorrà qualche anno in più, ma in più di cosa? Litigare sugli ordini del giorno accelera in qualche modo il riconoscimento dei diritti alle coppie gay?
Ivan Scalfarotto, che in seguito si è lamentato della “caciara” scatenata all’Assemblea PD, aveva poche ore chiesto di votare un ordine del giorno sul matrimonio gay spiegando che il PD “non ha nulla da invidiare ai più grandi partiti socialisti e socialdemocratici di tutta Europa” (applausi). Lo dico con rammarico: non credo sia vero. Pensare che il PD possa avere sull’argomento una posizione avanzata quanto quella di PSF o PSOE o New Labour è un errore tattico, che non va commesso nemmeno con le migliori intenzioni al mondo – e sono convinto che quelle di Scalfarotto lo siano. Non è che il PD non si possa cambiare, e senz’altro si può cambiare il Paese, ma serve un po’ di tempo. Il tempo che abbiamo tutti perso negli ultimi vent’anni. http://leonardo.blogspot.com
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Un dibattito provinciale

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Si riparla di abolire le province, o perlomeno di accorparle. Se ne riparla come l'anno scorso in estate, e forse l'argomento si presta più di altri al dibattito sotto l'ombrellone; le province sappiamo tutti più o meno cosa sono (la nostalgia per le sillabe iniziali delle vecchie targhe), siamo tutti più o meno convinti di sapere a cosa servono (a poco), abbiamo tutti un'idea di come risistemarle: se Monza vada riaccorpata a Milano o annessa a Varese; quale sarò il capoluogo di Imperia-Savona? Meglio Rovigo-Ferrara o Rovigo-Padova? Eccetera. Peraltro la chiacchiera è sterile per definizione: sappiamo tutti che alla fine Monti deciderà senza consultarci.

E tuttavia qualche considerazione non banale sulle province, sul senso di una suddivisione secolare del territorio, si potrebbe anche fare. Sarebbe bello che nei giornali si riuscisse a parlarne lasciando perdere i campanilismi, non perché non esistano (accorpare Pisa e Livorno è senz'altro uno choc), ma perché tutto sommato hanno ben poco a che vedere col problema. Reggiani e modenesi continueranno a sfottersi anche se la provincia diventa una sola. Ma il motivo per cui molti pesaresi non sarebbero contenti di un'eventuale annessione alla provincia di Ancona non è una questione culturale o linguistica, addirittura, come ha scritto qualcuno. Più spesso di tratta di problemi pratici: se nevica sulle strade provinciali di Urbino, bisognerà attendere un sì da Ancona per spargere il sale? Che senso ha centralizzare gli uffici, se poi occorrerà immediatamente aprire sedi distaccate?

Alla base di molte chiacchiere c'è una competenza geografica data per scontata e che invece tante volte scontata non è (continua sull'Unità, H1t#135).

 Così ci si scandalizza del fatto che un piccolo centro, Sondrio, continui a esercitare prerogative da capoluogo, ignorando il fatto che per quanto Sondrio possa essere piccolo, il territorio a cui fa capo (la Valtellina) è immenso, e separato dal resto della Lombardia da confini naturali. Non è che non si possano trasferire uffici e competenze a Bergamo, ma rimane da stabilire se sia un risparmio. Per il Tesoro magari sì, almeno nell’immediato; ma per i cittadini? I tagli hanno di buono che sul bilancio si vedono subito: le magagne, i disastri “naturali” che possono derivare da una gestione miope e lontana del territorio, all’inizio non si vedono, e comunque a calcolarli servono mesi, a volte anni. Monti e il suo governo saranno già lontani.
Molto spesso poi chi parla di abolire le province mostra di non riconoscere che un Paese non è soltanto una comunità di persone, ma è anche il territorio in cui queste persone vivono. Il fatto che alcune province, anche vaste, siano poco popolate, non dovrebbe costituire di per sé un motivo sufficiente per eliminarle. La gestione dei fiumi, delle valli, delle strade, deve essere efficace: la risposta alle emergenze deve essere pronta, anche se in quel territorio abitano poche migliaia di persone. Si sa che in altri Paesi i territori poco popolati sono compensati, in sede istituzionale, da una maggior rappresentatività: negli USA anche i grandi Stati del Midwest hanno i loro due seggi al Senato, anche se la loro popolazione è molto inferiore a quella degli Stati sulla costa. È un metodo, certo non perfetto, di riequilibrare grandi territori poco popolati e piccoli Stati fortemente urbanizzati.

La distribuzione della popolazione, in Italia, è molto diversa. Ma spesso chi ritiene inutili le province vive in grandi centri, come Milano o Roma o Napoli, dove a conti fatti la provincia è davvero un doppione, la cui abolizione non sarà affatto rimpianta. Però la stragrande maggioranza degli italiani non vive in questi grandi centri, ma in territori diversificati dove l’organizzazione provinciale dei trasporti pubblici o delle scuole superiori ha ancora un senso. Di queste cose sarebbe bello discutere, non soltanto sotto l’ombrellone, mentre aspettiamo che Monti & co. ci mostrino la nuova cartina delle province italiane. Più che delle risse di cortile, dell’angoscia dei materani costretti a mescolarsi ai potentini, eccetera eccetera.http://leonardo.blogspot.com
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E il Veneto? (e il Vesuvio?)

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Va bene, abbiamo capito, siamo una terra sismica e avremmo dovuto saperlo prima. Facevamo finta di niente, ignoravamo tutti gli indizi che pure erano a portata di mano, scommettevamo sul fatto che certe cose capitano una generazione ogni venti, vuoi proprio che dovesse capitare a noi? Siamo stati ingenui e sprovveduti, criminalmente sprovveduti. Soprattutto coi capannoni: li volevamo sempre più grossi, sempre più alti, sempre più rapidi da tirar su, ci siamo tirati il collo per acquistare o prendere in affitto delle trappole per topi. È stata una grossa cazzata. Però possiamo rimediare. I morti restano morti, ma i feriti possiamo curarli, i senzatetto indennizzarli, e l'Emilia può diventare antisismica, se si impegna. Ci vorranno soldi ma li troveremo, ci aiuterà l'Italia e persino l'Europa, e in generale ci aiuteremo da soli. Magari nel giro di pochi anni la casetta di legno diventerà un elemento tipico del paesaggio, dove prima c'era il casolare ristrutturato. Magari i nuovi capannoni antisismici saranno anche più belli. In fondo tutto cambia, perché non dovrebbe cambiare la Bassa, anche in meglio. Va bene.

E il Veneto?
Perché, cosa c'entra il Veneto, adesso? (Scopritelo sull'Unita.it, H1t#134).

No, niente, è che… anche il Veneto, come l’Emilia, non esiste. Sono due nomi diversi per una terra che non comincia e non finisce, e si stende tra le Alpi e gli Appennini. Ci passa un fiume in mezzo, ma le faglie corrono molto più sotto, ignorando le futili divisioni amministrative. Quindi la domanda è: mentre qui ci mettiamo a montare case di legno (per ora sono poco più di rimesse per gli attrezzi, ma qualcuno la sta già ordinando coi servizi e la veranda), in Veneto qualcuno si preoccupa di verificare l’antisismicità degli edifici? Mentre noi ripensiamo totalmente la tipologia delle strutture nelle zone industriali, in Veneto qualcuno ci sta facendo un pensiero? O continuano a timbrare il cartellino e a entrare nei loro capannoni come niente fosse? Perché il Veneto è sismico quanto lo siamo noi. Perché il terremoto padano più distruttivo del medioevo non ebbe un epicentro in Emilia, ma tra Verona e Brescia: nel 1117, fece crollare il rivestimento esterno dell’Arena e il duomo. Naturalmente è lecito sperare che a una generazione che ha vissuto da bambina il terremoto del Friuli e da grande quello in Emilia almeno un sisma in Veneto dovrebbe essere risparmiato. Ma lo sciame che è venuto di qua dal Po, sarebbe potuto venire anche di là. Il fatto che sia venuto qua piuttosto che là non dovrebbe cambiare nulla. Certo ora noi siamo spaventati, siamo ansiosi, ci teniamo a mettere in sicurezza le nostre case e le nostre fabbriche, ma perché in Veneto non dovrebbero essere altrettanto preoccupati?
Dico il Veneto perché è una regione poco lontana, simile per prodotto lordo, per densità di popolazione… e per rischio sismico. Ma a ben vedere il discorso vale per tutte le regioni d’Italia: per qualcuna più che per le altre, ma nessuna dovrebbe sentirsi esclusa. Basta dare un’occhiata alla storia sismica del nostro Paese. Se però qualcuno vuole previsioni più accurate, c’è un altro fenomeno ricorrente che è particolarmente in ritardo sulla sua tabella di marcia: il Vesuvio. Da qualche secolo a questa parte si era stabilizzato in un ritmo ciclico, che prevedeva un’eruzione distruttiva più o meno ogni quarant’anni. L’ultima si è verificata durante la Seconda Guerra Mondiale. Poi più niente. Il periodo ciclico si è evidentemente interrotto, e i vulcanologi ritengono che la prossima eruzione sarà particolarmente disastrosa. Capite cosa abbiamo qui? Qualcosa che i sismologi non possono assolutamente darci, la previsione di un disastro in una località geografica ben definita, i vulcanologi ce la servono un vassoio d’argento. Il Vesuvio erutterà: è già esploso in passato, e sappiamo bene cos’è successo. Una nube ardente, di gas ad altissima temperatura, sterminò la popolazione di Pompei. I lapilli poi la coprirono. Quel che è successo nell’antichità potrebbe succedere ancora: l’unica differenza importante è che oggi alle pendici del Vesuvio non sorgono alcune fiorenti cittadine, ma la seconda o terza hinterland italiana per densità di popolazione. Mentre noi qui ci riorganizziamo e ci addestriamo a reagire meglio a una calamità che nel nostro territorio potrebbe non ripresentarsi più per altri 300 anni, sotto al Vesuvio fanno qualcosa? Ci sono ancora feriti durante le esercitazioni? La statale è ancora parzialmente ostruita dallo sverso dei rifiuti? Il Vesuvio prima o poi si risveglierà. È un’evenienza ben più probabile e facile da localizzare di qualsiasi prossimo terremoto. Non c’è bisogno di consultare indovini o scienziati maledetti: il disastro è già stato previsto, il luogo dove si verificherà lo conosciamo. Vogliamo parlarne?
Spero di sbagliarmi, ma ho la sensazione che no, non se ne voglia parlare. Che almeno a un certo livello si sia già fatto un calcolo, troppo osceno per essere divulgato, e si sia concluso che anche in questo caso sarà più semplice sensibilizzare gli italiani dopo il disastro che prima. Ho la sensazione che nei cassetti delle redazioni, dove si tengono i coccodrilli per quei personaggi anziani che potrebbero morire da un momento all’altro, si possano trovare anche gli editoriali furenti e dolenti per un disastro naturale terribile e terribilmente annunciato – l’eruzione del Vesuvio. Con gli spazi bianchi dove inserire lo spazio per le vittime (decine? centinaia? di più?) e i miliardi di danni; e tante parole di sdegno per la speculazione edilizia sul cono del vulcano; per le prove di evacuazione insufficienti; per la criminale miopia della classe politica. Che forse non è poi così miope davvero. Forse – ed è terribile pensarlo – ha semplicemente già fatto i suoi conti.http://leonardo.blogspot.com

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27 adulti andata e ritorno grazie

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Cara Trenitalia, quante te ne potrei dire, ma chissà quante te ne dicono tutti i giorni: chissà quanti ti rimproverano i tuoi ritardi, le tue biglietterie chiuse, il tuo sito inaffidabile, eccetera. Ma se proprio devo aggiungermi al coro dei tuoi detrattori, cercherò almeno di metterci qualcosa di mio. Per esempio: cara Trenitalia, cos'hai contro le gite scolastiche? (Continua sull'Unita.it, H1t#133).

Perché dai 12 anni in su non concepisci che una classe di scuola possa viaggiare in comitiva? Perché se voglio organizzare una gita in treno, un mezzo assai più sicuro delle corriere (e credo anche più educativo) mi tocca acquistare, per 25 alunni di 13 anni, 25 biglietti per adulti, a prezzo pieno? Oltre ovviamente ai biglietti per gli insegnanti, sia mai che ti venga in mente di offrire uno sconto a chi ti riempie un mezzo scompartimento.
Cara Trenitalia, perché invece di riempirmi la mail di offerte meravigliose sui Frecciarossa e i Frecciargento, non mi stupisci con una bella offerta per le gite scolastiche? Non ti ci vorrebbe nulla per essere competitiva con gli autotrasportatori. E dovresti essere la prima interessata a far conoscere il treno ai ragazzini. Il mezzo meno pericoloso di tutti, il più riposante. O hai paura che gli studenti disturbino i pendolari, o i manager col laptop che cercano di guardarsi i gol con la connessione WiFi che va a scatti?
Cara Trenitalia, perché insisti a volermi portare da Bologna a Milano in un’ora, quando l’unico treno che vorrei prendere ultimamente è un Modena-Verona, e ce ne mette due e venti? Ma ti pare normale che nel 2012 Modena e Verona stiano a 140 minuti di distanza? A volte, mentre guardo al finestrino la bassa emiliana diventare per un attimo lombarda, sento come uno spostamento d’aria: è il fantasma di un calesse ottocentesco che sorpassa il regionale Suzzara-Mantova. Lo so che darai la colpa alle regioni. Ma l’Italia è fatta di regioni, non viviamo tutti nell’immediata vicinanza di una stazione dell’Alta Velocità. Cara Trenitalia, ma che t’abbiamo fatto di male noi utenti? Perché fai di tutto per evitarci?
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Europa sì Europa no

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Tra le elezioni greche di primavera e quelle di domenica dev'essere successo qualcosa che da qui non si è capito molto bene. Forse nessun osservatore sul campo è riuscito a raccontarcelo come si deve (ed è un vero peccato); o forse eravamo distratti da europei di calcio o terremoti. Fatto sta che la maggioranza di un popolo, che qualche mese fa sembrava ormai orientato a lasciare l'euro, ieri ha deciso che tutto sommato preferisce tenersi la valuta europea. I greci sono tuttora insofferenti nei confronti della politica economica UE, come testimonia il buon risultato di Syriza; però anche la confederazione di sinistra aveva già garantito prima delle elezioni che l'euro era fuori discussione. Che cosa può essere successo in tre mesi, per convincere cittadini di diversi orientamenti politici che tutto sommato l'euro è meglio della dracma? Ho una teoria: si sono fatti due conti in tasca. Meglio tardi che mai: chi siamo noi per giudicare, dopotutto.

Come insegnante mi è capitato più volte di sperimentare uno dei più noti misteri della didattica: qualsiasi problema aritmetico diventa immediatamente più comprensibile se come unità di misura usiamo il denaro. Non c'è nessun motivo logico per cui un bambino debba sommare due euro più volentieri di due mele o due chilometri, eppure è così: la valuta ci rende subito più partecipi al problema, più interessati a risolverlo. Forse è successo qualcosa del genere anche ai greci: a un certo punto un problema economico complesso, con tanti fattori difficili da maneggiare (inflazione, svalutazione, speculazione) si è trasformato in un problema pratico: non si parlava più di soldi come entità estratta; gli euro da convertire in dracme erano quelli che i greci avevano in tasca, e il sogno di una nuova autonomia monetaria si è infranto lì. "Uscire dall'euro" è una frase eroica, che riempie la bocca e incute un certo rispetto; "dimezzare nel giro di pochi giorni i propri risparmi" suona molto più prosaico, e non attira certo gli elettori (continua sull'Unità, H1t#132).

Qualcosa del genere sta succedendo anche in Italia, dove la proposta di uscire dall’euro è sempre buttata lì a mezza voce, più un brontolio che una minaccia. Grillo qualche settimana fa sembrava abbastanza sicuro – ci fece un sondaggio on line e ne parlò anche in un’intervista all’agenzia Bloomberg – ma poi non ci tornò più sopra, il che per la verità è abbastanza tipico delle sue esternazioni via blog: slogan e parole d’ordine possono nascere ed essere accantonate senza più un commento a seconda della situazione. Anche Berlusconi, volendo dirne una delle sue, si limitò a dire che potevamo tenerci gli euro, ma dovevamo cominciare a stamparceli noi – un nonsense come un altro: una volta eravamo abituati a sviscerarli fino alla noia, adesso ci lasciano un po’ smarriti. Insomma il fantasma della sovranità monetaria è buono da agitare per qualche mezz’ora e non di più, giusto il tempo per attirare l’attenzione e cambiare argomento: meglio così, perché la sensazione fino a qualche settimana fa non era affatto buona.
La prospettiva che l’Italia possa uscire dall’euro è preoccupante, ma dovrebbe preoccuparci anche il solo fatto che se ne stia discutendo; che Grillo ottenga il 20% dei sondaggi dopo aver buttato lì che si potrebbe svalutare la lira del 50 per cento. Lo si può accusare di populismo, ma un popolo che acclama chi gli propone di bruciare il 50% dei propri risparmi ha un problema molto più grosso. Non sta cercando un demagogo che gli lisci il pelo, sembra piuttosto a caccia di un Savonarola che imponga austerità e miseria in attesa della fine del mondo. Senz’altro ci manca la cultura economica, e ce ne accorgiamo sempre di più in questa crisi in cui tanti distratti possessori di titoli di Stato si sono ritrovati a chiedere all’Italia di non pagare i suoi debiti senza rendersi conto di essere tra i creditori. Più in profondità, ci manca anche una solida cultura matematica. E in generale il buon senso, o la concentrazione. Forse la troveremo soltanto sotto stress. Ai greci ci sono volute due tornate elettorali. Sapremo fare di meglio? In fondo è semplice: ogni volta che si parla di euro, cerchiamo di pensare a quelli che abbiamo in tasca. L’economia non diventerà di colpo più semplice, ma almeno un po’ più concreta. http://leonardo.blogspot.com
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Piccoli uomini Grandi rischi

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Ma quelli che oggi si lamentano perché la Commissione Grandi Rischi ha segnalato il rischio di altre scosse, sono gli stessi che prima si lamentavano perché i sismologi non riuscivano a prevedere i terremoti e ad allertare la popolazione?

Certo che dev'essere dura fare i sismologi in Italia. Fino a pochi giorni fa Beppe Grillo e compagnia si lamentavano del fatto che non riuscissero a fare previsioni accurate almeno come quelle del meteo ("Se il meteo ci dice che domani pioverà, terremo a portata di mano l'ombrello. Ma se non viene nemmeno annunciato il rischio di un forte terremoto, perché il Comune non ci dice come comportarci?") Ora che i sismologi hanno indicato con una certa precisione l'area a maggior rischio, ecco che li si accusa di voler seminare un panico ingiustificato.

Una domanda antipatica: il documento della Commissione Grandi Rischi che ha fatto infuriare tanta gente (qui nell'Emilia terremotata e altrove), quanti lo hanno letto davvero? Perché purtroppo la voce che correva tra tendopoli e bar, il giorno dopo, era la solita: "hanno detto che sta per arrivare un'altra scossa forte". Oltre all'angoscia, che a un certo punto dovremo cominciare a gestire, stavolta si è sentita anche una certa rabbia, forse dovuta alla sensazione che lo sciame comunque si stia disperdendo: scosse se ne sentono ancora tutti i giorni, ma ogni giorno un po' meno, e meno forti (la stessa cosa, purtroppo, la stavamo pensando alla vigilia del 29 maggio). E quindi, insomma, cos'è questa Commissione che insiste a farci paura? (continua sull'Unità, H1t#131).

La Commissione, in realtà, ha semplicemente fatto il suo mestiere. Non ha omesso di notare che “le scosse di assestamento stanno decrescendo in numero e dimensione”, almeno nell’area centro-occidentale, e ha segnalato che viceversa il segmento centro-orientale (tra Finale e Ferrara) è quello più a rischio “nel caso di una ripresa dell’attività sismica nell’area già interessata dalla sequenza in corso”. Forse valeva la pena di sottolinearlo, quel “nel caso di”, perché la Commissione non dà affatto per scontato che arrivino altre scosse forti: afferma soltanto che qualora riprendesse l’attività sismica, è tra Finale e Ferrara che bisogna aspettarsi la scossa più forte, paragonabile “ai maggiori eventi registrati nella sequenza”.
Ma non si era detto fino alla noia che i terremoti non si potevano prevedere? Infatti (qui una spiegazione di un sismologo vero). Il massimo che si può fare è segnalare un’area più o meno vasta dove più facilmente potrebbe verificarsi la prossima scossa forte. Cioè quello che la Commissione ha fatto – seminando il panico in chi non ha letto bene, o ha creduto al sentito dire. Forse, tenuto conto della condizione emotiva di chi vive nella zona, il comunicato di sintesi poteva essere scritto in un italiano più semplice. Ma forse tocca anche a noi cercare di capire quello che gli esperti ci stanno dicendo, prima di spaventarci inutilmente.
Ma il panico è sempre ingiustificato. La prossima scossa, se ci sarà, non dovrebbe essere più terribile delle altre. Per il semplice motivo che ormai ce l’aspettiamo, sappiamo come comportarci, abbiamo già verificato la tenuta delle nostre abitazioni e non dormiamo in quelle a rischio; abbiamo capito che non dobbiamo gettarci dalle finestre o dalle scale, né sostare sotto i cornicioni. Tutte cose che in teoria avremmo sempre dovuto sapere, ora le abbiamo imparate, meglio che dopo tutte quelle esercitazioni annuali che non prendevamo mai sul serio. Chi sa cosa aspettarsi non dovrebbe più vivere nell’angoscia. Certo, una scossa nel cuore della notte continuerà a rovinarci il sonno. Certo, non abbiamo la minima idea di quando finirà, e questa cosa ci lascia sgomenti. Ma se il terremoto non si può controllare, la nostra angoscia e il nostro panico sì, possiamo combatterli. Smettendo per esempio di aspettare che un espertone ci dica che siamo fuori pericolo: lasciamo perdere, quell’espertone non ce lo dirà mai, finché non ce ne accorgeremo da soli. http://leonardo.blogspot.com
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Non imboschiamoci

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Ciao, sono un campanile in controtendenza
Oggi avrei qualcosa da dire, purtroppo non tanto a voi che leggete, quanto ai miei compaesani tra Modena e Carpi che dormono ancora in auto o in tenda. Difficilmente verranno qui a guardare - però due cose comunque io devo scriverle, e sono queste.

Prima cosa: chiunque vi dica che c'è un altro grosso terremoto in arrivo - e so che ce ne sono, so che la voce gira - vi sta mentendo. Nel migliore dei casi è un mitomane, nel peggiore un infame, uno sciacallo: e così dovete trattarlo. Non vi chiedo di prenderlo a ceffoni, anche se li meriterebbe, ma ridetegli in faccia: ridicolizzatelo, umiliatelo, fate sì che si vergogni di andare in giro a dire certe cose, e che chi lo ascolta si vergogni di avergli dato retta per più di un istante. I terremoti non si prevedono: i terremoti si sconfiggono con la prevenzione, la prudenza e il coraggio.

L'altra cosa che vorrei dirvi è appunto questa: ci vuole coraggio. Un po' di più di quello che abbiamo avuto fin qui. Vorrei dirvi che il terremoto è un evento catastrofico, che scatena sotto le case l'energia di un bombardamento misurabile in megatoni; però anche il terremoto non è che sia più forte di noi. Di noi tutti assieme, intendo, se ci facciamo coraggio. Chi ha una casa distrutta ha tutto il diritto di piangerla, ma guardiamoci negli occhi: la stragrande maggioranza delle nostre case non è distrutta. La stragrande maggioranza delle nostre case ha ballato su una scossa superiore ai cinque magnitudo, ed è ancora lì. Lo sapevate di avere case così robuste? Ora lo sapete. E quindi adesso si tratta di tornarci, di riprendere a vivere e a lavorare. So anch'io che non è facile.

Ci vuole coraggio. Quel coraggio che hanno avuto per esempio i nostri nonni, molto più poveri di noi, che si sono presi una medaglia d'oro. C'era il nazismo e loro hanno avuto un po' di coraggio. Non credo che oggi ce ne serva più di quello che hanno avuto loro. Noi poi andiamo molto fieri del loro coraggio, lo festeggiamo tutti gli anni e non facciamo che parlarne: ecco, è l'ora di mostrare che lo ricordiamo per un motivo. Fingete solo per un attimo che il terremoto sia il nazismo: che si fa, si scappa? È' un nemico insensato che rade al suolo paesi inermi, e lo fa per spaventarci: ci imboschiamo?

Io non posso dirvi quando finirà - e chiunque sostiene di potervelo dire è un bugiardo, un traditore, una spia. Potrà metterci anni, e forse ci saranno altre crepe e altri caduti. Può benissimo succedere, e allora? L'unica cosa che so è che alla fine se ne andrà, perché alla fine i terremoti se ne vanno tutti: e avremo vinto noi. Se non saremo scappati, se avremo tenuto in vita i centri piccoli e grandi, se non l'avremo data vinta al declino e alla paura del declino, che sono la stessa cosa. Quel giorno avremo vinto: e ricorderemo chi è caduto perché cercava di rimettere in funzione una linea di produzione; ricorderemo chi ha tenuto i negozi aperti anche oggi 2 giugno; chi ha aiutato negli ospedali da campo e nelle tendopoli; chiunque abbia lottato ogni giorno per tornare a una vita normale; e gli imboscati non li ricorderemo. Avete paura per la vostra famiglia? Mettetela al sicuro, ma poi tornate qui. Abbiamo bisogno di voi, anche solo per festeggiare quando sarà tutto finito. Le vostre case, in nove casi su dieci, non vi hanno tradito: non lasciatele sole.

(C'è anche un'altra cosa. L'altra sera, al presidio contro gli sciacalli, c'erano volontari venuti da Reggio ad aiutare. Molto nobile da parte loro: ma davvero vogliamo farci salvare le case, col rispetto parlando, dai reggiani?)
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Grillo, i terremoti, le pseudoscienze

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Io credo che di Beppe Grillo si debba parlare seriamente, come di un leader di un grande movimento politico e di opinione che si merita rispetto più di tanti segretari di partitini. Per questo mi dispiace, sinceramente, che in una giornata come quella di ieri così angosciosa per le migliaia di persone che vivono a poche decine di km da un sisma infinito e imprevedibile, Grillo abbia deciso di dare spazio sul suo blog a Giampaolo Giuliani, scrivendo che "è in grado di anticipare di 6-24 ore il manifestarsi di un terremoto": cosa che lo stesso Giuliani non è mai riuscito a dimostrare. Grillo scrive che "la sua ricerca sui precursori sismici ha salvato la vita a quanti, nel 2009 in Abruzzo e in questi giorni in Emilia Romagna, hanno dato ascolto ai suoi allarmi". Nel 2009 Giuliani prevedette effettivamente un forte sisma in Abruzzo (in un momento in cui lo sciame sismico era già iniziato), ma sbagliò il giorno e il luogo. Quanto all'Emilia Romagna, non mi pare che Giuliani avesse dato allarmi di sorta; del resto la regione è ben lontana dallo spettro dei suoi rilevatori. Presentare Giuliani come l'uomo che avremmo dovuto ascoltare per salvarci la pelle è molto più che una sciocchezza: è un insulto alla gente che in queste ore sta cercando di mantenere la calma e comportarsi in modo razionale, in un contesto che di razionale purtroppo non ha niente. Non possiamo "anticipare" tempi e luoghi dei terremoti, con buona pace di Giuliani, al quale auguro di riuscirci un giorno. Però Grillo sa che vorremmo esserne capaci, di più: che lo pretendiamo. Forse è questo che lo ha reso leader di un grande movimento di opinione: aver capito come soccorrere la fede dei delusi. Cerco di spiegarmi meglio.

Un terremoto è qualcosa che scuote le nostre certezze, ci riporta a quello stato di impotenza in cui l'uomo primitivo ha cominciato a elaborare i miti: tentativi di spiegare l'inspiegabile, o almeno di raccontarlo. In mancanza di una scienza e di una memoria storica, presupporre l'esistenza di esseri supremi che scagliano fulmini o scuotono la terra dal sottosuolo non era così irragionevole. Prima di diventare favole per bambini e letterati, i miti sono stati ipotesi. Oggi non ne abbiamo più bisogno, si dice, perché abbiamo la scienza. Il problema con la scienza, in particolare da noi in Italia, non è che non la studiamo abbastanza - senz'altro potremmo studiarla di più, e metterla al centro del nostro sistema educativo; non sarebbe una brutta idea. Però alla fine non è esattamente questo il problema. Il guaio è che, pur conoscendola male, la diamo tutti per scontata. Ci fidiamo di lei. Crediamo che abbia tutte le risposte: basta consultarla e ci spiegherà ogni cosa. In sostanza, invece di sostituire la religione con la scienza, abbiamo fatto della scienza una religione (continua sull'Unita.it, H1t#129).

Ma la scienza non è una religione: non ha tutte le risposte, non ci salva sempre il sedere, non è il suo compito. Lo si vede molto bene nella fase immediatamente successiva a un terremoto, quando ci accorgiamo, una volta di più, che la scienza non ce lo ha predetto: perché questa cosa che ci aspettiamo da lei, che quasi diamo per scontata, la scienza non la fa. Non è l’oroscopo, non è cartomanzia: se ci fossero sistemi efficaci di predizione la scienza li userebbe; un giorno forse gli scienziati li troveranno e li useranno; nel frattempo però le predizioni non le sanno fare, e (tranne Giuliani) non hanno mai detto di saperle fare. Questa cosa ogni volta ci sorprende e ci addolora. Pensavamo che la scienza fosse un oracolo. Lo pretendevamo. Sui social network la gente si lamenta: ma che ci stanno a fare i sismologi se non sanno neanche dirci quando viene un terremoto? Perché non fanno le previsioni dei sismi, come quelle del meteo? È un’ingiustizia, una negligenza, un complotto dei poteri forti, eccetera. Alla fine siamo più superstiziosi dell’uomo primitivo: lui la teoria del Dio che scaglia il fulmine la elaborava in mancanza di meglio, ma almeno elaborava qualcosa. Noi non elaboriamo più: siamo convinti che da qualche parte esista un libro con tutte le risposte dentro. Se solo lo aprissimo, scopriremmo che è un libro imperfetto, che contiene ancora più domande che risposte. Non lo ha scritto un’autorità onnisciente, ma uomini imperfetti come noi. Per esempio, alla pagina “come prevedere i terremoti” per adesso c’è un bel vuoto. Questo noi non lo possiamo assolutamente consentire. Quella pagina da qualche parte dev’esserci: magari qualcuno ce la nasconde per un secondo fine. Per fortuna che c’è gente come Giampaolo Giuliani, a riempire gli spazi criminalmente lasciati vuoti.
Molte pseudoscienze funzionano così: servono a salvare la nostra fede incorreggibilmente religiosa nei confronti della scienza. L’economia, quando non è troppo difficile, è un enorme spazio rimasto bianco: sostituiamolo con la mistica del ritorno alla lira, o quella del signoraggio. I terremoti sono imprevedibili? Sarà colpa di HAARP, o del fracking (che in Italia ancora non si è fatto). Internet, che secondo le fantasie apocalittiche di Casaleggio dovrebbe creare un impero mondiale di condivisione, per ora rimane un serbatoio da cui attingere teorie strampalate adatte all’uso. Prima o poi durante un nubifragio qualcuno tirerà fuori l’idea di un Dio del fulmine arrabbiato con noi; in fondo non è un’ipotesi così irragionevole, in mancanza di scienza e di memoria. http://leonardo.blogspot.com
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Hanno rotto i maroni (i Maya)

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Parlo da una casa - lievissimamente danneggiata - a 40 km dall'epicentro, anche se per fortuna la notte della scossa ero altrove. Non ho rimproveri da fare al mondo dell'informazione, tranne uno. Quando ho cercato testimonianze di prima mano, su internet le ho trovate quasi in tempo reale. Ma presto sono arrivate le immagini, anche sulle tanto snobbate emittenti locali. Ieri pomeriggio conoscevo già l'entità dei danni nel mio comune, e gli edifici pubblici che stamattina sarebbero rimasti chiusi. Tutto sommato la televisione mi ha dato tutto quello che mi serviva, più una cosa che non mi serviva affatto, e questa cosa è la telefonata di Red Ronnie.

Ecco, io non avevo veramente bisogno che il Tg1 (ma non solo il Tg1) mi facesse ascoltare le speculazioni di Red Ronnie a proposito di congiunzioni astrali e profezie Maya. Mi domando in effetti chi ne abbia bisogno. In generale, se c'è qualcosa di cui a 40 km dall'epicentro non si sente alcun bisogno, è un po' di paura in più, un po' di procurato allarme. Red Ronnie probabilmente non se ne rende conto, ma chi ha deciso di intervistarlo per il Tg1 dovrebbe. Non si fanno i tarocchi sulle emittenti nazionali del servizio pubblico: non si cura il malocchio con le fatture e non si tirano in ballo le Pleiadi per un sisma con epicentro a Finale Emilia. Se era uno scherzo, non faceva ridere. Ma non era uno scherzo, vero? (Continua sull'Unita.it, H1t#2^7)

 E allora ci restano due possibilità. O al Tg1 non sono più in grado di distinguere tra scienza e ciarlataneria, o ritengono che la ciarlataneria vada benissimo per il loro pubblico: dopotutto poco prima del Tg1 su Rai2 c’era Paolo Fox con l’oroscopo. Dopotutto col suo libro sulle profezie Maya il presentatore di Voyager ha fatto guadagnare alla ERI edizioni RAI dei bei soldini. Se lui ha potuto terrorizzare una generazione di preadolescenti con favolette sulla fine del mondo, perché anche Red Ronnie non può buttar lì i Maya e un vulcano in Honduras in una telefonata? Dopotutto almeno è in buona fede, Red Ronnie.
Ecco, io non so davvero quale delle due ipotesi sia la peggiore. Sul serio al Tg1 qualcuno considera autorevoli le opinioni di Red Ronnie sugli allineamenti astrali che provocano i terremoti? E se invece le ritenete scemenze, perché le diffondete a ora di pranzo su una popolazione che – lasciatevelo dire a 40 km dall’epicentro – è piuttosto terrorizzata? Qual è il senso, visto che stavolta non avete nemmeno, come aveva Giacobbo, un libretto da venderci? Temo che un senso non ci sia, che ormai si è capito che l’apocalisse tira così bene che si distribuisce gratis anche quando non ce n’è alcun bisogno, quando non serve a nessuno. http://leonardo.blogspot.com
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Tre bicchieri mezzi pieni

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Il nove maggio - data storica - il presidente della prima potenza mondiale, Barack Obama, ha dichiarato di aver cambiato posizione sul matrimonio gay: le discussioni coi familiari, ma anche il confronto coi politici dei due schieramenti, lo hanno convinto che "alle coppie dello stesso sesso dovrebbe essere consentito sposarsi". La strada verso il riconoscimento legale del matrimonio nei 50 Stati è ancora lunga: quella di Obama non è una proposta di legge federale, ma un'opinione personale, seppure espressa in campagna elettorale dall'uomo più potente del mondo. Io credo che nessuno che abbia a cuore la parità dei diritti si sia trattenuto dal festeggiare il nove maggio; immagino che nessuno abbia perso tempo a rimproverare Barack Obama di avere avuto, fino all'otto dello stesso mese, una posizione ambigua, se non reticente o retrograda. Meglio tardi che mai, meglio adesso che poi.

È il solito discorso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: se davvero c'interessa che le cose cambino, un po' di ottimismo aiuta. Ne abbiamo bisogno molto più noi che i connazionali di Obama. Prendiamo il caso dell'onorevole Mariapia Garavaglia (PD), che all'alba di venerdì risultava ancora nell'elenco degli aderenti alla Marcia per la vita di Roma. Guardiamo al bicchiere mezzo pieno: domenica, nello stesso elenco, non c'era più. Non che abbia cambiato idea: probabilmente è ancora convinta che l'aborto sia un omicidio, anzi un genocidio. (Continua sull'Unita.it, H1t#127, ma lascio i commenti aperti anche qui).

 In fondo questa è la linea della Conferenza Episcopale, e la Garavaglia non ha mai fatto mistero del suo allineamento con la CEI. Se alla fine non s’è presentata, è perché sostiene che la marcia è stata ‘strumentalizzata’ dagli estremisti, e vabbe’. Guardiamo il bicchiere mezzo pieno: il movimento pro-life italiano è ormai stato colonizzato dalla destra meno presentabile, la retorica dei bambolotti-feti incollati ai crocefissi non è fatta per conquistare le simpatie dei moderati. Non possiamo fare molto per cambiare le idee della Garavaglia (non possiamo neanche fare un granché per evitare di votarla, se insistiamo a voler votare PD e il meccanismo elettorale resta l’orrore che è), ma certe posizioni la Garavaglia fa sempre più fatica a spacciarle per moderate, sempre più fatica a esternarle. Alla fine è un buon bicchiere mezzo pieno, secondo me.
Nei giorni scorsi sui giornali e in rete si è parlato molto di scout cattolici e omosessualità. Più precisamente: la più grande associazione di volontariato cattolico giovanile, l’AGESCI, ha fatto notizia per il suo dibattito interno sull’omosessualità, e in particolare sull’opportunità che gli eventuali educatori omosessuali facciano coming out. Per molti che hanno commentato questa notizia, il bicchiere era più che mezzo vuoto, vuotissimo: le posizioni espresse dai relatori di un convegno (spacciate su Repubblica per “linee guida dell’AGESCI”) sono state denunciate come retrograde e omofobe. E lo erano.
Ma la vera notizia è che centinaia di educatori dell’AGESCI le considerano tali. Lo mostrano le quasi cinquecento firme in calce a un documento stilato il 6 maggio - una data meno storica del 9, ma che vale comunque la pena di festeggiare: nel documento si prendono nettamente le distanze dalle relazioni del convegno, e tra le altre cose si legge: “Crediamo fermamente che non si possa concepire, né tantomeno si possa ascrivere al nostro modo di pensare, che l’inclinazione sessuale, come l’omosessualità o l’eterosessualità, sia intrinsecamente e di per sé una discriminante per essere dei buoni capi educatori, né tantomeno per essere degli uomini e donne di valore a questo mondo. L’inclinazione sessuale di per sé non determina l’intenzionalità educativa, cuore pedagogico e operativo del nostro servizio”. Possono sembrare affermazioni ispirate al semplice buonsenso, ma per i membri di un’associazione cattolica italiana rappresentano una posizione impegnativa, al limite della sfida esplicita alla linea ufficiale della Chiesa. I firmatari del documento non rappresentano l’associazione, ma meritano di fare notizia molto più di tre relatori di un convegno: e mostrano come si sta evolvendo una delle realtà più importanti del cattolicesimo italiano.
Il bicchiere insomma mi sembra anche più che mezzo pieno. C’è qualcosa che si muove nelle parrocchie. Si muove lentamente, ma la direzione è quella del riconoscimento di pari dignità e pari diritti. Non abbiamo tutti la stessa fretta, non abbiamo tutti la stessa pazienza, ma non è una gara: a certe decisioni dobbiamo arrivarci assieme. Sarà ancora lunga: tanto vale assaporare i bicchieri mezzi vuoti che troviamo lungo la strada. http://leonardo.blogspot.com
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Il Grande Partito Astensionista

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C'è un solo partito che festeggia davvero in tutta Italia, stamattina: quello dell'Astensione. Sette punti percentuali in più, una valanga: l'Astensionismo sembra ormai sul punto di diventare il partito di massa che PdL e PD non sono più. Cari ideologi dell'astensionismo militante, complimenti: gli editoriali che escono stamattina su tutti i quotidiani, sulla Delusione e la Disaffezione della Gente per la Politica e per la Casta, sono dedicati a voi, ve li meritate tutti. Mentre aspettate che diventino gratuiti on line, vagolate sui social network festeggiando e teorizzando: quando saremo il 50% più uno, cosa accadrà? Già, cosa? (Continua sull'Unita.it, H1t#126).

Credo di poterlo anticipare, visto che in altre nazioni è già successo: quando l’Astensione sarà il primo partito in Italia, non succederà un bel niente. Ci sarà qualche editoriale in più sulla Disaffezione della Gente, qualche dibattito televisivo con ospiti molto accigliati… e dal giorno seguente chi ha vinto le elezioni governerà, chi le ha perse starà all’opposizione, come sempre. Come è successo in altri Paesi, di più antica tradizione democratica, che siamo abituati a ritenere più politicamente evoluti del nostro. Per dire, nel ’96 Clinton fu rieletto Presidente con un’affluenza alle urne del 49%, che non fece certo di lui un’anatra zoppa – perlomeno finché non scoppiò il caso Lewinsky. Per contro un’alta affluenza (come quella di cui noi italiani eravamo orgogliosi ai tempi della Prima Repubblica) in generale nel mondo non è ben vista, spesso è un indizio di scarsa democrazia: è ai tiranni che piace far sfilare compatto alle urne il 99% degli aventi diritto.
Forse dietro al movimento astensionista militante c’è un equivoco, nato con la deriva dei referendum abrogativi: quando, a partire dagli anni ’90, l’astensionismo è diventato così importante che accanto ai comitati per i Sì e per i No sono nati veri e propri comitati per l’Astensione (come quello dei vescovi al tempo del referendum per la fecondazione assistita), che per 15 anni hanno vinto a man bassa tutte le consultazioni referendarie. Ma astenersi dalle elezioni non ha lo stesso peso politico: chi non si reca alle urne, semplicemente, si chiama fuori. Governeranno gli altri, e lo faranno anche in nome suo. Meglio spargere l’idea, perché in giro c’è chi davvero non lo sa, chi è convinto che si possano invalidare anche le elezioni politiche.
L’astensionismo, in effetti, ha un che di diabolico. È riuscito a spacciarsi per rivoluzionario, quando alla fine è una resa bella e buona alla famigerata Casta, che con una riduzione dell’elettorato avrà anche meno spese da affrontare per campagne e voti di scambio. E mentre lorsignori si votano e si governano da soli, all’Astensionista resterà la gran consolazione di poter urlare “non nel mio nome”. Come se davvero gli importasse qualcosa, a chi ti frega il futuro, di come ti chiami. http://leonardo.blogspot.com
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Ma i cattolici progressisti esistono?

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Di solito il punto interrogativo nel titolo si mette per retorica; è un banalissimo trucco per incuriosire il lettore. Stavolta no, la domanda è sincera: esistono? Se qualcuno lo sa, per favore, risponda.

Ho iniziato a chiedermelo qualche giorno fa, mentre leggevo delle suore americane che con le loro prese di posizione stanno mettendo in serio imbarazzo la Congregazione per la Dottrina della Fede. E, come tanti, ho pensato: forti, però, queste suore americane. Avercene. Ovviamente stavo già facendo un confronto con le religiose nostrane, di cui non si sente mai parlare (ce l'hanno, loro, un'associazione che le rappresenti?) Ma poi mi sono reso conto che non era una questione di ordini religiosi femminili. E nemmeno maschili. Quand'è l'ultima volta che ho sentito una voce di dissenso all'interno della Chiesa cattolica italiana? L'unica che mi viene in mente negli ultimi anni è quella di Don Gallo. Padre Zanotelli è ancora una figura universalmente rispettata a sinistra, ma onestamente non conosco le sue posizioni sulle questioni che hanno messo nei guai le suore americane (aborto, eutanasia, omosessualità). I cattolici poi non sono soltanto preti e suore: ci sono anche i 'laici', i semplici praticanti. Così come è naturale pensare che ce ne siano di tradizionalisti, di moderati, di reazionari, penso che da qualche parte dovrebbero essercene anche di progressisti, no? Ma com'è che non li sento mai?

Eppure ho l'empirica certezza che i cattolici progressisti sono esistiti, almeno fino al 1981. (Continua sull'Unita.it - H1t#125)

Molti di loro votarono no al referendum che voleva abrogare la legge sul divorzio nel 1974: erano cattolici, credevano nell’indissolubilità del matrimonio, ma al contrario di Fanfani non ritenevano giusto imporla agli altri che non ci credevano. Parecchi di loro votarono no anche al referendum che intendeva modificare in senso restrittivo la legge 194 nel 1981: erano cattolici, ma ritenevano che quella legge fosse un progresso rispetto alle mammane. Entrambi i referendum ebbero un quorum altissimo. Malgrado la vulgata radicale, che ormai ci dipinge divorzio e aborto come due doni benignamente concessi agli italiani da Marco Prometeo Pannella e i suoi seguaci, i numeri ci dicono che senza il consenso di una larga fetta dei cattolici non avremmo avuto né l’uno né l’altro, perlomeno non così ‘presto’ (in Irlanda il divorzio è arrivato nel 1995).
Cattolici progressisti dovevano sicuramente essercene fino a tutti gli anni ’80. Posso dirlo con una certa sicurezza perché in quel periodo lo ero anch’io. Ero piccolo, d’accordo, ed era piccola la mia parrocchia: ma ricordo abbastanza bene l’atmosfera: la sensazione diffusa che su certe questioni il clero – partendo dal nostro Don su su su fino a Papa Wojtyla – fosse su posizioni arretrate, posizioni che prima o poi sarebbero scattate in avanti, perché il mondo andava avanti. A pensarla così erano tranquilli parrocchiani e parrocchiane, alcuni laureati, ma in maggioranza con la terza media: gente che aveva vissuto il Concilio Vaticano II, assistito al passaggio dalla Messa in latino a quella in italiano. Per molti di loro non era difficile immaginare ulteriori evoluzioni: non era difficile sentire discussioni sul sacerdozio alle donne, o sui metodi di contraccezione che prima o poi la Chiesa avrebbe dovuto tollerare. Discorsi del genere ne ho sentiti almeno fino a metà anni Novanta.
Poi mi sono stancato io, ma questo non fa testo. Ero insofferente nei confronti di una setta che si era installata nella mia parrocchia e lavava il cervello a gente che conoscevo. Me ne sono andato. Per un po’ ho continuato a sentirmi cattolico, anche se m’infastidivano un po’ le adunate mondiali della gioventù e il culto della personalità del vecchio Papa: espressioni di una comunità che il dissenso non è che non lo sopportasse; proprio non lo concepiva. Quando arrivò il nuovo Papa ci restai male, e poi mi diedi del fesso: cosa mi ero aspettato? Un papa progressista? Da dove sarebbe dovuto saltar fuori? Così ho tagliato i ponti. Ma non ho mai smesso di pensare che ci sia gente che la pensa più o meno come me, dall’altra parte. Però non li sento mai. Veramente mai. Sono sicuro che è colpa mia, probabilmente non so dove orientare l’antenna (si prende sempre e solo radiomaria). Così ho deciso di lasciare qui un punto interrogativo: cattolici progressisti, ci siete? Come vi butta? Battete un colpo. http://leonardo.blogspot.com
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Chetati, grillaccio!

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Il 25 aprile dunque Beppe Grillo ha lasciato scritto sul suo blog che se i vecchi partigiani vedessero come è ridotta l'Italia di Napolitano "metterebbero mano alla mitraglia". È una cazzata? Sì, lo è per molti versi; nessuno dovrebbe permettersi di piantare le proprie bandiere sulle tombe dei partigiani, che peraltro non ci hanno tutti già lasciato (ad esempio Giorgio Napolitano è vivo). Ma bisogna essersi dimenticati di molte cazzate degli ultimi vent'anni, dalle migliaia di fucili bergamaschi alle toghe rosse passando per Mussolini più grande statista del '900, per lasciarsi scandalizzare da Grillo che arruola i partigiani morti. A me, sarò di bocca buona, ma sembra addirittura che ci sia un progresso.

Sarà che ormai ne ho viste tante: pornostar in parlamento, tastieristi da balera al Viminale, ex giovani fascisti in Campidoglio, Bondi ministro alla cultura; e poi ho visto Scajola (Scajola soprattutto sarà difficile da spiegare ai nipotini). Ma per quanto mi sforzi non riesco a vedere Grillo e il *suo* movimento come una minaccia alla democrazia, perlomeno alla democrazia che ancora ci possiamo permettere in questa primavera 2012. Sì, è populista; sì, è un confusionario apocalittico. Ma siamo sopravvissuti a Bossi e a Berlusconi: con tutti i suoi difetti Grillo mi sembra meno pericoloso e soprattutto meno avido; allo stesso modo mi sembra una buona notizia che un po' dei sostenitori delusi di Lega e PDL stiano passando al Movimento Cinque Stelle. Altri elettori Grillo li recupererà all'astensionismo, il che è una ulteriore buona notizia; altri ancora li prenderà dal PD e dalla sinistra, ma è una sfida che PD e sinistra devono saper raccogliere.

Il grillismo non è un fulmine a ciel sereno come ci piace rappresentarlo in questi giorni. Così come la Lega diventò in breve tempo il partito più anziano della Seconda Repubblica, il M5S è praticamente coetaneo del PD ed è più anziano del già moribondo PdL (continua sull'Unita.it, H1t#124).

L’estate del Vaffanculo Day fu la stessa in cui Veltroni lanciò la sua candidatura alle primarie. Ancora prima erano nati i MeetUp, sorti intorno al blog che Grillo cura dal 2005, due legislature fa. Al Quirinale c’era Ciampi, il candidato del centrosinistra era Prodi, quello della sinistra Bertinotti, ma Grillo era già più o meno lo stesso Grillo e gridava più o meno allo stesso modo, cambiando qualche volta idea (legittimamente: solo ai cretini non succede) ma non il tono, che alla fine è la cosa più importante. Tra i tanti accostamenti storici, da Caio Gracco a Bossi, quello che il M5S si merita meno è probabilmente quello con l’effimero Uomo Qualunque di Giannini. Malgrado sia nato in rete, come altri fenomeni degli ultimi anni (Onda viola, Indignados) il M5S è riuscito a darsi un’organizzazione anche sul territorio, o perlomeno in alcuni territori più ricettivi di altri.
La differenza l’ha fatta proprio il non-leader, la figura carismatica che gli altri movimenti orgogliosamente rifiutavano. Anche da un punto di vista economico. Già ai tempi del Vaffanculo Day Grillo era sostanzialmente un leader politico: l’unico in Italia capace di far pagare un biglietto a chi veniva ad assistere a un suo comizio. Nessuno ha mai pagato per ascoltare Berlusconi, magari viceversa. Per questo quando dice che non si candiderà mai io stranamente gli credo. La parte del tribuno non gli è solo più congeniale, ma è probabilmente anche più fruttifera. I rimborsi elettorali si possono dimezzare o anche cancellare, ma l’indotto di libri e dvd nessuno glielo tocca e bisogna riconoscere che se lo sta sudando, non sta fermo un attimo.
Grillo è stato bravo, diciamolo ogni tanto. Tra i pochi in Italia a non avere nessun timore reverenziale per il mezzo televisivo, forse proprio perché da lì veniva, e ne conosceva i punti di forza ma anche i limiti, Grillo ha capito che star fuori dal circuito dei talk nel lungo termine gli avrebbe reso il servizio migliore: mentre gli altri battibeccavano senza costrutto lui si è rifatto una verginità. È stato abile a non trasformare sé e i suoi sostenitori in macchiette: ambientalisti ma non fricchettoni, antiberlusconiani ma senza farne un feticcio, dalla parte dei disoccupati ma anche dei poveri imprenditori costretti a chiuder bottega. Può sembrare una sintesi impossibile, ma se è per questo, in certi giorni, anche il PD. Ha intercettato gli elettori verdi che in Italia non hanno mai avuto un leader non dico carismatico, ma credibile; ha traghettato qualche postcomunista deluso dal postcomunismo, qualche antiberlusconiano perplesso dalla svolta di Veltroni; è stato ricettivo, il concetto di Casta non l’ha inventato lui ma lo ha rilanciato con prontezza. Da qualche tempo si tratta di rilevare i delusi di PdL e Lega: Grillo ha argomenti anche per loro, è scettico sulla cittadinanza ai migranti, vuole rilanciare la produzione interna anche se non sa come si fa, ma siamo onesti: non lo sa nessuno.
E la democrazia interna? Senz’altro il M5S ha qualche problema di democrazia interna, ma guardiamoci attorno: l’altro giorno l’UDC si è sciolto, pare sia nato il Partito della Nazione. Chi lo ha annunciato? Pierferdinando Casini. Chi era Casini nell’UDC, il segretario? No. Il presidente? No. Un giorno lo ha fondato e qualche anno dopo lo ha sciolto, e l’intendenza seguirà. Quanto al PdL, non perdiamo neanche tempo a parlarne. La Lega non fa un congresso federale da dieci anni. Di Pietro non so se li faccia o no – l’IdV, volevo dire l’IdV, a volte mi confondo. Chi accusa Grillo di trattare il suo movimento ancora come un padre padrone preferisce non vedere che per la media dei partiti politici italiani Grillo è un padre fin troppo tollerante: quando il figlio crescerà e metterà un piede in parlamento probabilmente litigheranno, è nella natura delle cose. Si fa molta più fatica a immaginare l’IdV che litiga con Di Pietro: quanto alla Lega, per trinciare il cordone ombelicale col clan Bossi ci sono voluti trent’anni.
Io non ho intenzione di votare il M5S, almeno in tempi brevi. Raramente mi trovo d’accordo con quello che dice Grillo, e in generale non mi piace il suo tono, che alla fine è la cosa più importante. Quando dice che l’Italia non può più permettersi l’euro, mi domando se davvero è convinto che possiamo permetterci di uscirne. Ma almeno sta parlando di euro, e non di tutte le priorità farlocche con cui Berlusconi e Bossi ci hanno fatto perdere tempo in questi anni, le toghe rosse e i ministeri al nord. Io non sono euroscettico, ma trovo assolutamente comprensibile che qualcuno oggi lo sia: ci sono partiti euroscettici in tutti i parlamenti d’Europa. Si tratta di batterli: di convincere gli italiani che l’euro è stato davvero una buona idea, che senza di esso saremmo rimasti stritolati. Grillo è un populista, ma almeno punta le dita su problemi veri, e non sui mondi artificiali che ci hanno incantato per vent’anni, case della libertà o Padanie libere. Considerarlo un sintomo della degenerazione della politica mi sembra ingiusto: la politica era già degenerata da un bel po’, il grillismo al confronto mi sembra una febbre benigna. Ci sta facendo bene. Faccio un esempio.
Una settimana fa Alfano, Bersani e Casini dichiararono come un sol uomo che i rimborsi elettorali non si toccavano. La febbre grillina è scoppiata allora: il M5S nei sondaggi schizzò oltre il 10%. Quattro giorni fa Bersani ha proposto di dimezzare subito i rimborsi. Forse la cosa si poteva gestire un po’ meglio, ma quel che conta è il risultato: il PD ha cambiato rotta. C’è voluto Grillo. Non male, per un comico che sette anni fa ha aperto un blog. http://leonardo.blogspot.com
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Il leghista di bronzo più perenne

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Lo so che probabilmente non è né il luogo né il momento, ma in fondo all'Unità mi hanno sempre lasciato scrivere tutto quello che volevo, e stamattina voglio scrivere qualcosa che mai avrei immaginato: un elogio a Matteo Salvini, leghista infaticabile.

E dire che di tutti i leghisti era quello che a pelle sopportavo di meno. Forse perché suo coetaneo, ero portato a sottostimarne la consistenza. Mi indisponeva soprattutto quel suo eterno corruccio da malmaturo, provato e riprovato allo specchio: quella smorfia da camionista incazzato al bar, lui che in realtà veniva da un liceo classico e che probabilmente capiva più il greco antico che certi dialetti bergamaschi. Quando era europarlamentare davo per scontato che non riuscisse a capire dove si trovava e perché: amavo immaginare lui e il suo collaboratore Franco-fratello-di-Umberto Bossi che vagavano per Bruxelles senza riuscire a decifrare la mappa bilingue della metro, con grande scorno dell'Europa delle Regioni. Tutti pregiudizi, i miei, tutti parti dell'invidia. C'è voluta una congiuntura mondiale, il crollo del berlusconismo e l'esaurimento del bossismo, perché me ne accorgessi. Del resto è nella tempesta che si vedono i veri capitani, e Matteo Salvini questo è, un capitano coraggioso che non lascerà la Lega finché non sarà salva l'ultima donna, l'ultimo bambino, e poi calerà a picco con lei - ma non è detto.

Non è affatto detto. Gli ultimi sondaggi, vatti a fidare, dicono che regge sul sette per cento. Davvero niente male per un partito terremotato. Le ragioni della tenuta le hanno messe per iscritto in tanti: la Lega ha uno zoccolo duro, la Lega ha sempre un piede nell'antipolitica, la Lega non si è sporcata col governo Monti eccetera. La Lega, aggiungo io, può contare su cavalli di razza come Salvini, che in questi giorni in tv ci sta mettendo la faccia senza mollare, non indietreggiando davanti al ridicolo, regalando al suo partito performance assolute come quella di ieri da Giletti... (continua sull'Unità, H1t#123, speriam bene).

Gothenburg_Wreck

Elogio del leghista Salvini










Di fronte al tiro incrociato di qualunquisti e governativi, Salvini si è messo in faccia la solita smorfia e ha tirato dritto coi suoi soliti slogan, ormai dei mantra, ma perdio, funzionano. I-Leghisti-Che-Sbagliano-Pagano-Due-Volte. Cosa significhi non si sa, per ora non ha pagato niente nessuno, ma ormai quando lo dice ci credo anch’io. Congeliamo-La-Rata-Dei-Finanziamenti, una cosa tecnicamente impossibile, ma nessuno in sala osa farlo presente. La grande sceneggiata di Bergamo, nel suo racconto, è già Storia, è già Mito: una sala della Pallacorda, un soviet supremo, una cerimonia di purificazione, solo i leghisti sono capaci di spazzare via lo sporco dai loro vertici; forse perché solo i leghisti sanno dove si comprano ancora le vecchie scope di saggina (geniali! Per favore, politici italiani, licenziate tutti i comunicatori che vi tengono aggiornati gli inutili profili twitter, e assumete il leghista che ha avuto l’idea di sprayare la Ruota delle Alpi sulla scopa di saggina).
Mentre capitan Salvini lotta con tutte le sue forze sul ponte mediatico, in cabina di comando regna il caos. Il padre annebbiato del Trota blatera di complotti e minaccia di portarsi via il simbolo (sai che perdita: i leghisti un simbolo se lo reinventano in tre settimane, non sarebbe la prima volta). Maroni gongola troppo per tenere in mano il timone, Tosi sta già calando le scialuppe ché non si sa mai. In futuro sapremo se liquidare come unico capro espiatorio una signora che è al fianco di Bossi da sempre, e che sa tutto di tutti, sarà stata la manovra geniale che a prima vista non sembra. Forse alla fine la Lega colerà a picco, perché in realtà di manovratori capaci non ne ha molti. Ma sul piano della comunicazione, giù il cappello: c’è tantissimo da imparare.
Ieri da Giletti c’era anche un’esponente del PD a fare da sfondo all’eroico Salvini. Non importa quale; non ha fatto una figura altrettanto memorabile e non era nemmeno previsto che la facesse. Nemmeno il Veltroni dei giorni migliori, nemmeno un redivivo Berlinguer riuscirebbero ad apparire convincenti in questo momento, se l’ordine di scuderia è difendere i rimborsi elettorali a pioggia e la riformina proposta di concerto con UDC e PDL. Onore a chi ci prova, ma davvero l’impresa è impossibile. Tanto che ci si domanda se ne valga la pena.
Va bene, non facciamo i qualunquisti. La storia la sappiamo. Il PD non è un partito azienda, né un movimento d’opinione; è un partito di quadri, che non vivono solo della parola di Dio o di Bersani. La contrapposizione ventennale con Berlusconi non consentiva di andare per il sottile in materia di finanziamenti: il nemico era un tycoon, bisognava arrangiarsi. Ma c’era modo e modo, e Lusi probabilmente non è stato l’unico ad approfittarne. È andata così: però è inconcepibile che quella faccia di bronzo di Matteo Salvini dia lezioni al PD. È imbarazzante che Renzo Bossi, dimettendosi, mostri la via a Filippo Penati. Non è una questione di correttezza, non è una questione morale: è una pura e semplice questione di comunicazione. Quelli hanno scialato molto più di noi, ma ne stanno uscendo a testa alta, o perlomeno ci provano. Il PD è l’unico partito che si faceva controllare i bilanci, e in questi giorni si sta presentando come il difensore dei privilegi della casta partitocratica. C’è qualcosa che non va. Forse ci manca qualche faccia tosta, ma tosta veramente. Come quella di un Salvini. http://leonardo.blogspot.com
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Quel che non si può più dire, tanto ormai

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Intorno alla poesia di Günter Grass il dibattito mondiale si è inviluppato in una specie di ciclone. Si discute animatamente sui trascorsi nazisti di Günter Grass, sull'antisemitismo vero e presunto di Grass, sui meriti e sulle responsabilità di Grass, sulle reazioni più o meno razionali dei politici e dei letterati israeliani all'intervento di Grass, sull'opportunità di ritirare il premio Nobel a Grass, insomma si parla di tutto... meno che del contenuto della poesia di Grass. Come se di tutto il dibattito il testo che lo ha scatenato fosse l'oggetto meno interessante. Se ne sta nell'occhio del ciclone e non lo legge più nessuno. Peraltro almeno qui da noi c'è un problema di traduzione, che rende i ragionamenti di Grass più arzigogolati di quanto probabilmente non suonino in originale. Detto questo, non è escluso che una reazione del genere sia esattamente quello che Grass si aspettava. La stessa poesia sembra fatta apposta per stimolare un dibattito centrifugo: la maggior parte dei lettori (sempre più distratti, su internet soprattutto) perde l'attenzione molto prima di arrivare al nocciolo di quel che Grass ritene "debba esser detto": e in effetti sul finale Grass ha in mente una proposta concreta, ma non è di quella che si discute in giro. Si discute dei trascorsi di Grass diciassettenne nelle SS. Sul fatto che Israele lo dichiari persona non grata, tra l'altro in base a una legge che permette di impedire l'ingresso a chi abbia aderito al nazismo (la stessa norma si potrebbe applicare anche a papa Ratzinger, coi suoi trascorsi nella Gioventù Hitleriana?) Insomma tutto il dibattito di questi giorni ruota intorno a un gigantesco argumentum ad hominem: non si discute più di tanto delle idee di Grass, ma del fatto che sia Grass ad averle. Per molti israeliani, ma persino per i socialdemocratici tedeschi, sarebbe meglio che non le avesse: non su questo argomento.

Che l'opinione pubblica israeliana possa nutrire diffidenza per un intellettuale che ha impiegato mezzo secolo a riconoscere i suoi trascorsi nazisti, mi sembra del tutto comprensibile. (Continua sull'Unità, H1t#122).

Che Netanyahu possa speculare su questa diffidenza durante una campagna elettorale in fondo ci sta, e non è certo la cosa più criticabile che ha fatto in questi anni Netanyahu. Magari qui in Italia se ne potrebbe parlare con più calma, visto che non siamo in campagna elettorale e Ahmadinejad non minaccia di toglierci dalla cartina. Scopriremmo così che quel che propone Grass non ha veramente nulla di nuovo o eccezionale: sono le normali richieste che potrebbe fare un intellettuale socialdemocratico, se avesse ancora voglia di parlare di queste cose, appunto. La Germania, secondo Grass, non dovrebbe fornire un sommergibile di ultima generazione a Israele, che potrebbe impiegarlo per un attacco missilistico all’Iran. Più in generale, nella penultima strofa Grass propone che gli impianti nucleari israeliani e iraniani siano messi sotto il controllo di un ente internazionale. Nulla di sconvolgente: esiste un trattato di non proliferazione nucleare, e Israele non l’ha sottoscritto. Per Grass evidentemente dovrebbe farlo (per voi no?), e consentire che la controversia con l’Iran sia affidata ad un’autorità sopra le parti. La soluzione proposta può apparire un po’ irrealistica, specie dopo che l’11 settembre ha messo in crisi una certa idea di multilateralismo; ma è antisemita? Non mi pare, non lo so, ma se lo dice uno che era antisemita a 17 anni forse sì.
Viene il dubbio che Grass lo abbia fatto apposta, che anche a lui più che la proliferazione nucleare interessi la reazione prevista e prevedibile a quel che scrive. Nei primi versi si vedono i bagliori dell’antica fiamma dell’intellettuale engagé, quello del J’accuse, dell’”Io so”, quello che non sa trattenersi di fronte al passaggio dell’imperatore nudo, certe cose sono evidenti, devono essere dette e pazienza se poi la folla lo lincerà. Poi però il ritmo rallenta, assume un andamento sornione: l’autore se la prende comoda, si domanda perché scrive quel che sta scrivendo, perché ha aspettato tanto a scriverlo, ne approfitta per rammentare le sue colpe indelebili… e intanto sa benissimo che il rilevatore di antisemitismo di molti lettori sta già ticchettando intensamente. Sia loro che i loro avversari si attendono un’invettiva finale che non arriva, anzi le proposte finali sono piuttosto modeste. Una poesia-trabocchetto che magari non aiuta a risolvere la questione israelo-iraniana, ma che ci mostra come funziona oggi la battaglia delle idee.
Non funziona. Perlomeno su Israele, non c’è più nessun vero dibattito, non c’è nessuno scambio di idee, ammesso che le idee ancora ci siano. O Israele è un criminale, o chi lo critica è antisemita, in mezzo non c’è nessuna opinione pubblica da conquistare, l’opinione pubblica si è annoiata e parla d’altro. L’arma non convenzionale in questo caso non è l’ordigno nucleare, ma appunto l’argomentum ad hominem: chiunque parla di Israele o è un agente della propaganda ebraica o è un antisemita: anche se non scrive cose antisemite di sicuro le ha scritte da giovane, oppure le avrà scritte un suo amico o suo nonno. Prendi un blog, per esempio: puoi usarlo per parlare di qualsiasi cosa, ma se ti metti a discutere di Israele, e di Palestina, e di Iran, sai che si fermeranno a commentare soltanto i troll. Sono argomenti interessanti, e drammatici, e attuali; e non c’è nessun motivo al mondo per cui la minaccia di un conflitto atomico a poche migliaia di chilometri di distanza non dovrebbe farci discutere, tirandoci fuori anche la rabbia, la paura, la partigianeria quando c’è. È vero che discutere non risolve, ma sarebbe pur sempre un segno che siamo reattivi, che sappiamo che c’è un problema, e ne discutiamo. Invece no, non ne discutiamo più: ogni fazione conta i suoi morti e li rinfaccia agli avversari; nei momenti in cui morti per fortuna non ce ne sono, si strologa su sciocchezze come le dimensioni del naso di Fiamma Nirenstein. Del resto ormai si sa, scambiare opinioni con quelli che la pensano come noi è inutile, con quelli che la pensano diversa è frustrante.
Forse Grass voleva semplicemente farcelo notare. (Poi, certo, vendere sommergibili a una nazione che non ha firmato il trattato di non proliferazione non mi sembra il massimo, ma forse sono antisemita io, o lo ero in una vita precedente). http://leonardo.blogspot.com
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I Bossi e gli allori

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Sono i giorni della passione di Umberto Bossi: storia straziante, che nasce già intrecciata ad aneddoti leggendari. Si racconta per esempio che a far crollare il Capo non sia stata la confessione di questa o quella ruberia, ma la scoperta che il figlio non si stava laureando, come pure aveva solennemente promesso al patriarca. L'episodio sembra scritto da uno sceneggiatore geniale, che la politica italiana non si è mai meritata: se le cose fossero davvero andate così, Renzo Bossi avrebbe deluso Umberto Bossi proprio mostrando di essere degno figlio di suo padre, che i libretti universitari li truccava 40 anni fa, millantando coi famigliari lauree in medicina e inesistenti impieghi all'ospedale.

Bossi era quel personaggio lì, il boccalone pieno di inventiva che nei bar della Valpadana conosciamo bene; in seguito ha fondato una lega che è diventata un movimento che è diventata un partito che ha cambiato la Storia d'Italia e gli ha fruttato anche qualche soldino, ma non ha mai smesso di essere quello lì: uno che non ha bisogno di titoli per fiutare dove va il vento, uno che non lo freghi. E invece l'han fregato i figli, che Bossi in un qualche modo avrebbe voluto diversi da lui: lui ci ha provato a farli studiare, ma niente da fare. È il problema della seconda generazione, anche questo in Valpadana lo conosciamo bene: il padre ignorante ma di cervello fino fonda un'azienda, in questo caso un partito: i figli crescono svogliati, il padre li manda all'università e loro si comprano la laurea: se nostro padre non ne ha avuto bisogno per fare fortuna, perché dobbiamo perdere tempo noi? La crisi dell'imprenditoria italiana si può anche raccontare così: giovani virgulti che non hanno studiato ereditano aziende a conduzione famigliare che erano innovative e concorrenziali vent'anni prima. Non resta che piangere miseria, dare la colpa ai cinesi e abolire l'articolo Diciotto. Nel frattempo si vota Lega, il partito che non ti fa sentire ignorante. Ma forse c'è un equivoco. (Continua e si commenta sull'Unita.it, H1t#121)

Il nord operoso ha un problema con la scuola, e con l’università in particolare. Per molto tempo non ci ha creduto; tuttora in molti distretti industriali la scuola dell’obbligo viene scambiata per un comodo parcheggio sulla via del laboratorio dei genitori, e l’estensione dell’obbligo alla prima superiore per un’odiosa imposizione statale, paragonabile alla leva militare: che senso ha passare un altro inutile anno sui banchi quando chi si mette a lavorare a 16 anni a 20 guadagna già il doppio di un laureato? Chi la pensa così non ha tutti i torti, anche se spesso vota Lega.
Però Bossi non la pensava proprio così. Lui davvero ci teneva che Renzo e Riccardo studiassero. Anche a lui sarebbe piaciuto avere un titolo di studio serio, se è vero come si racconta in giro che organizzò ben tre feste di laurea (senza laurearsi mai). Tutta la sua parabola famigliare e familista mostra una vera ossessione ben poco settentrionale per il ‘pezzo di carta’: lo stesso Belsito, ex buttafuori e poi tesoriere che nelle intercettazioni parla di tre lauree pagate alla “famiglia”, aveva ritenuto necessario procurarsi una maturità privata (in un istituto di Frattamaggiore, provincia di Napoli!) e due lauree tra Londra e Malta. Tutto questo magari non ha nessun senso. Ma potrebbe anche dirci qualcosa sul gruppo dirigente della Lega, che anche se era votata da operai e piccoli imprenditori, non era stata fondata da un operaio, né da un piccolo imprenditore: bensì da un boccalone con un libretto finto e un diploma preso per corrispondenza, sposato in seconde nozze con una maestra elementare di origini siciliane. Uno che quando il Nord tirava davvero, e portava l’intera Italia fuori dalla povertà, stava al bar, suonava la chitarra, e in casa raccontava di avere un posto in ospedale. Di uno così, nordisti laboriosi, vi siete fidati per vent’anni, perché? Forse perché non avete studiato abbastanza. http://leonardo.blogspot.com
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Trionfo di Fede

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Ora che Emilio Fede se n'è andato - forse - incrociamo le dita - potremmo anche riconoscere la sua grandezza. E invece qua e là continuano a spuntare le solite interpretazioni concilianti, minimizzanti: è vero, era fazioso, ma lo era in modo manifesto. E poi era un grande professionista, ci mostrò per primo Bagdad bombardata eccetera eccetera. Vedi l'"onore delle armi" che Aldo Grasso gli tributa sul Corriere: citando Cacciari, Grasso parla di "informazione di parte, ma .. senza infingimenti". Intanto sulla Stampa Mimmo Càndito si domanda se la spudoratezza di Fede non abbia una sua "innocenza" (virgolette sue) "che lo assolve".

Io non sono qua per assolvere o condannare nessuno, grazie al cielo non è il mio mestiere. Dico solo: smettete di offendere Fede. Smettete di considerarlo un burattino, un pagliaccio, uno che faceva il fazioso però lo faceva in modo spudorato quindi ok. Fede è stato davvero un grande professionista, salvo che la sua professione non era più il giornalismo, perlomeno dal '94 in poi. E la sua grandezza non sta certo nell'averci mostrato gli infrarossi dei bombardamenti con qualche minuto di anticipo. Poche persone possono dire di aver davvero cambiato la Storia d'Italia degli ultimi vent'anni con il loro lavoro quotidiano, e tra questi c'è Emilio Fede, che è stato cruciale nella costruzione, e soprattutto nella conservazione del consenso berlusconiano. Gli araldi del MinCulPop fascista svaniscono al confronto, con la loro retorica magniloquente che la stragrande maggioranza della popolazione illetterata nel ventennio recepiva poco o male. Non così Fede: lui sì che ha avuto il polso del suo pubblico.

Probabilmente non c'è mai stato in Italia un agit-prop più bravo di lui (continua sull'Unita.it - H1t#120 - e mi sembrava un pezzo abbastanza semplice, ma leggendo i commenti forse no).

Probabilmente non c’è mai stato in Italia un agit-prop più bravo di luiun ministro della propaganda così concentrato sul suo target, sul suo segmento di riferimento: dai sessantenni in su. E vi par poco? Berlusconi le elezioni le ha vinte anche coi vecchietti; forse quando un po’ del polverone di questi ultimi anni si sarà depositato scopriremo che le ha vinte soprattutto grazie a loro, e che non è stata né Angela Merkel né Ruby Rubacuori a decretarne la fine, ma il normale esaurimento di una generazione che in Berlusconi non ha smesso di credere. Quella classe di ferro che a partire dagli ’80 si mise a guardare Canale 5 non perché ci trovava nuove idee o volti nuovi; al contrario, una capsula del tempo in cui Berlusconi aveva apparecchiato per lei Corrado, Sandra e RaimondoMike Bongiorno, tutti i vecchi volti della Rai che come i loro spettatori stavano avviandosi verso la pensione: così, quando finalmente si poté fare un tg, era normale che Berlusconi scovasse anche Emilio Fede e lo rimettesse sotto i riflettori.
Tra i membri della vecchia guardia, Fede si è dimostrato il più dinamico. L’”eroico Emilio Fede”, come lo chiamava il suo padrone, ha saputo reinventarsi totalmente, scivolando dolcemente dall’informazione all’infotainment alla propaganda pura. Chiamarlo giornalismo era ormai una tripla offesa: al giornalismo, che è ben altra cosa; a noi stessi, che dovremmo essere capaci di riconoscere la differenza; e a Emilio Fede, alla sua arte, alla sua fatica quotidiana. Non era un pagliaccio innocuo, chi continua a dirlo forse non ha proprio capito. La sua faziosità non era manifesta – forse lo era a Cacciari o ad Aldo Grasso, ma non a milioni di pensionati che di lui si fidavano, e alla minaccia comunista di Romano Prodi ci hanno creduto davvero. Perché gliela raccontava Fede, e Fede li conosceva: ben più di Grasso o Cacciari, o degli stessi Veltroni e D’Alema, che prendendo la tessera del Fede Fans Club mostrarono decisamente di sottovalutare il problema. O forse credevano che la loro indulgenza per Fede sarebbe stata ricambiata, quando anche a sinistra sarebbero spuntati agit-prop altrettanto bravi.
Il che non si è avverato. Nessuno a sinistra si è mai anche solo avvicinato all’efficacia propagandistica di Emilio Fede. Forse perché la sinistra italiana è matura, vaccinata, dotata persino in abbondanza di senso critico (che troppe volte rivolge su sé stessa). Forse. Perlomeno, a me piace pensarla così. Oppure semplicemente nessuno era bravo quanto Fede, e lui non poteva che andare al miglior offerente. http://leonardo.blogspot.com
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Un pastrocchio con nomi e cognomi

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Tra tante cose discusse e discutibili che troveremo nella nuova legge elettorale, c'è una clausola che rischia di passare inosservata, mentre forse è la chiave di volta della repubblica che ci attende (la terza? la seconda? Abbiamo perso il conto). Le prossime elezioni del 2013 saranno elezioni "quasi" presidenziali. Non sceglieremo più una coalizione (d'altro canto si è già visto che le coalizioni non sempre reggono), ma sulla scheda troveremo i nomi che ogni partito candiderà alla presidenza del consiglio. In fondo si tratta di formalizzare qualcosa che i principali partiti facevano già: sulle schede del 2008 si leggevano molto evidenti i nomi "Berlusconi", "Veltroni", "Casini", "Di Pietro", stampigliati nei rispettivi bollini. Eppure oggi non siamo governati né da Berlusconi, né da Veltroni. La caduta di Berlusconi ha provvisoriamente interrotto il tentativo di trasformare la repubblica parlamentare in semipresidenziale, senza modificare la Costituzione formale (perché il tempo e il consenso non si trovano mai), ma semplicemente truccando le schede. Un tentativo più che mai berlusconiano, non solo perché Berlusconi ne era tra i fautori (del resto anche a sinistra l'idea non dispiaceva a tutti), ma soprattutto per il metodo: cambiare la Costituzione è troppo complicato? E allora cambiamo il bollino: se modifichi la forma, prima o poi anche la sostanza si adegua (continua sull'Unita.it, H1t#119)

Quando però la prassi del nome diventerà ufficiale sarà difficile continuare a parlare di Repubblica parlamentare. Sul piano formale, la nomina del Presidente del Consiglio continuerà a spettare al Capo dello Stato; sul piano sostanziale, al termine di mesi di campagna elettorale ovviamente personalizzata, gli elettori avranno la sensazione di avere eletto il loro presidente. Anche in una situazione di crisi, un governo tecnico di fine legislatura come quello di Monti diventerà praticamente impossibile: la legislatura legherà il suo destino a quello del premier ‘eletto’ dal popolo. Non sarà nemmeno necessaria la maggioranza assoluta dei consensi: chi riuscirà a farsi crocettare almeno una scheda in più, Alfano o Bersani che sia, sarà autorizzato a formare qualsiasi governo con qualsiasi coalizione, senza tradire nessun mandato elettorale né formale né sostanziale. Si capisce che la cosa possa piacere sia ad Alfano, sia a Bersani, sia all’UDC che come ago della bilancia potrebbe veder raddoppiato il suo potere contrattuale: specie se Lega, SeL e IdV (e 5 Stelle) non riuscissero a superare lo sbarramento.
E in caso di emergenza? Quando un leader non riesce più a governare e la situazione economica o geopolitica rende rischioso il ricorso a elezioni anticipate? Non è un caso così impossibile, come abbiamo visto negli ultimi due anni. E dunque sappiamo che il capo di un governo senza più maggioranza né consenso nel Paese ha davanti a sé due strade. Può tirare a campare, forte del sostegno degli italiani che hanno crocettato il bollino col suo nome, comprandosi letteralmente la fiducia di parlamentari eletti in altri schieramenti: è quello che ha fatto Berlusconi tra gli autunni 2010 e 2011, un intero anno buttato via a inseguire i capricci di Scilipoti e compagnia. Oppure il premier può farsi da parte e lasciare che una maggioranza diversa prenda forma ed esprima un governo diverso. Direi che i fatti hanno mostrato quale delle due vie dia risultati e quale sia quella fallimentare. Ecco, dal 2013 questa potrebbe diventare l’unica praticabile. Come se dagli errori i nostri statisti non riuscissero a imparare nulla. Forse soltanto come commetterne più spesso, e più grossi ancora. http://leonardo.blogspot.com
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Guida al suicidio responsabile

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Ma ammettiamo pure che abbiano ragione Monti e la Fornero; che davvero i lavoratori italiani non si possano più permettere il diritto di reintegro; che in questa congiuntura europea e mondiale l’Italia abbia bisogno, più che di una riforma del lavoro, di una sua decostruzione; che i licenziamenti facili siano la scossa positiva di cui le imprese hanno bisogno. Ammettiamo, per amor di ipotesi, che questa riforma di destra abbia un senso. Ma perché la dobbiamo sostenere noi che di destra non siamo?

Non potevano scriversela e votarsela loro, quelli che dicevano di essere di centrodestra e che hanno avuto governo, maggioranza parlamentare e largo consenso nel Paese per otto anni degli ultimi dieci? Dovrebbe invece sostenerla il PD di Bersani, a costo di alienarsi una larga fetta del suo elettorato, che andrà a ingrossare le file del nuovo massimalismo antieuropeo e complottista? E perché va sempre a finire così, che il centrodestra governa e non fa nulla finché non arriva la crisi, e quando arriva la crisi le misure punitive deve intestarsele anche il centrosinistra? (continua sull'Unità - H1t#118, niente di originale ma mi sembra che funzioni ancora).

Il sospetto è che in Italia, più che tra sinistra e destra, si assista a una finta dialettica tra il principio di realtà e il principio del piacere. Chi ha votato Berlusconi o Bossi – scrivevo qualche tempo fa – non è di destra in senso storico, o liberale, o perfino fascista: Lega e PdL si votavano per la soddisfazione immediata che garantivano, promettendo ogni volta di tagliare le tasse e ridisegnare fantomatici confini federali. Allo stesso modo, chi vota centrosinistra ormai ha ben poco di comunista o di socialdemocratico (anzi ha contribuito più volte al varo di riforme di sapore liberale); di solito lo fa per un senso più o meno consapevole di responsabilità individuale o collettiva; per entrare in Europa, o restarci, per salvare il bilancio, il buon nome del Paese, eccetera eccetera. Il Centrodestra regala sogni, il centrosinistra interviene ogni cinque anni a salvare i conti. Da questo punto di vista non si tratta di due schieramenti contrapposti, quanto piuttosto complementari: se Berlusconi ha potuto folleggiare (ma gli italiani non è che abbiano folleggiato parecchio, nemmeno durante i suoi mandati), lo deve agli odiatissimi Amato, Ciampi, Visco, Padoa Schioppa, che al momento giusto arrivavano a salvare i conti e a porre le basi per una nuova trionfale campagna anti-oppressione-fiscale.
Nei fatti anche questa manovra sembra un prendere-o-lasciare: il PD lascerà? O farà qualche distinguo, tenterà di concertare qualche contentino, metterà il musetto, ma in sostanza voterà una manovra che è una botta dura al suo bacino elettorale? Se cederà sarà in nome del supremo valore della “responsabilità”: l’unico paletto rimasto saldo nel cedimento ideologico circostante. Il PD è un partito che se c’è da sacrificarsi, lo fa. In fondo è nato dal sacrificio di due identità (democristiana e postcomunista) che Veltroni sanciva in nome del bipartitismo di domani e di una vittoria nel futuro remoto. Ma l’idea di sacrificarsi per il bene del Paese viene più da lontano: è l’eredità di Prodi, l’idea che l’Italia possa pensare di rivolgersi al centrosinistra soltanto quando è con l’acqua alla gola e deve essere salvata da sé stessa. Dovevamo entrare nell’Unione Europea, ce l’abbiamo fatta, poi dovevamo entrare nell’Euro, missione compiuta, ora dobbiamo restarci a dispetto dello spread: e ogni volta c’è sempre un professore che fa due conti, e un partito che fa un po’ di manfrina e poi si adegua. Il canovaccio è così vecchio che i protagonisti di oggi sembrano recitarlo istintivamente.
Una volta questa tendenza della sinistra responsabile italiana a farsi responsabilmente male la si chiamava tafazzismo. Io però sarei per eliminare questa parola di cui i giovani d’oggi (spero) ormai ignorano l’etimo. Preferisco raffigurarmi il PD come una mamma sollecita che con le sue continue attenzioni e autoimmolazioni non fa che ritardare il momento in cui gli altri membri della famiglia cominceranno a sviluppare una qualche forma di responsabilità, o anche solo di dignità. E mi chiedo se non è ora di mollare il pupo, e che si voti la sua Thatcher da solo se davvero ne ha il coraggio.http://leonardo.blogspot.com
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e lascia pur grattar dov'è la rogna

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"Vengono insegnati testi antisemiti, sia nella forma che nel contenuto, sia nel lessico che nella sostanza, senza che vi sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo. Un esempio emblematico è la Divina Commedia, caposaldo della letteratura italiana". (Dal documento "Via la Divina Commedia dalle scuole" del comitato per i diritti umani Gherush 92).
Li hanno criticati in tanti, ma in realtà quelli di Gherush92 hanno capito tutto: in effetti io quando spiego l'Inferno di Dante in classe gliela metto giù proprio così. “È tutto vero”, dico ai miei pupilli, “lui c'è stato e la sua è una testimonianza oculare: se vi comportate male ci andrete, se fate la spia finirete conficcati per l'eternità in una calotta glaciale sotterranea al centro dell'universo (perché la Terra, vi rammento, è al centro dell'Universo, circondata da nove cieli di cristallo concentrici, e da Dio primo motore immobile); se nell'intervallo seminate la zizzania andrete nello stesso girone di Maometto e vi fate sbudellare tutti i giorni da un demonio preposto”. O pensavate che la spiegassi diversamente?

“Ma prof mi scusi, come fa la terra a essere al centro dell'universo se deve girare intorno al sole che è nella zona periferica di una galassia tra tante?”
“Chi è che ti ha raccontato queste cose?”
“La prof di scienze”.
“La prof di scienze sta seminando zizzania” (continua sull'Unità, H1t#117)

Sto scherzando, meglio dirlo subito. La questione è seria, invece. È vero, quell’atto di denuncia sembra provenire da un altro pianeta: un mondo in cui gli abitanti a furia di prendersela col relativismo etico devono aver rinunciato a qualsiasi forma di relativismo. Il passo successivo sarà smettere di leggere l’Iliade: per apprezzarla davvero bisogna convertirsi agli Dei dell’Olimpo e forse non vale la pena. Ma è proprio perché Gherush sembra venire da un pianeta diverso, che il suo sguardo sulla Commedia è interessante. La illumina da un lato diverso dal solito, un lato che a scuola e nelle università spesso non guardiamo, o fingiamo di non vedere. La Divina Commedia, e l’Inferno in particolare, è un edificio immaginario di inestimabile valore letterario, ma è un edificio costruito sull’odio.
Poco importa che gran parte dei destinatari di questo odio, più che le comparse ebraiche e musulmane, siano i compatrioti di Dante, e i toscani più di tutti; poco importa che la vera città diabolica, quella che sembra aver letteralmente colonizzato l’inferno, sia Firenze stessa; rimane il fatto che Dante abbia scritto cento canti, ripartiti in tre cantiche, tutti fondati sull’incredibile, sfacciata presunzione di conoscere la lista celestiale dei Buoni e dei Cattivi; quella che a norma di Vangelo solo Gesù stilerà a tempo debito. Nessun scrittore si era mai spinto così in là, nessuno aveva raggiunto simili livelli di autostima (lo stesso Dante sapeva che sarebbe restato a lungo nel girone dei superbi). Il titanismo di un poeta che si sostituisce al Cristo del giudizio e descrive in dettaglio regno dei morti e regno dei cieli: ce n’era abbastanza per scomunicarlo – tanto più che, com’è noto, nemmeno per i papi del suo tempo Dante aveva molta simpatia. Invece tutto sommato se la cavò: a differenza di altre opere dantesche la Commedia non finì nemmeno nell’Indice dei Libri Proibiti. E tutto questo per un motivo semplice, sul quale secondo me a scuola non si riflette mai abbastanza: Dante si salvò perché non fu mai veramente preso sul serio.
Lui voleva fare il profeta, voleva che nel suo Inferno ci credessimo veramente; con le sue cantiche intendeva dare il suo contributo a un progetto di restaurazione dell’Impero; noi abbiamo messo in secondo piano il messaggio di fondo e ci siamo concentrati sui dettagli, sulla sapienza narrativa, sull’abilità linguistica, sui versi memorabili, sulle sue doti visionarie… insomma abbiamo fatto finta che fosse semplicemente un poeta. Lo era, ma intingeva il pennino nel sangue delle battaglie del suo secolo: è il figlio di un mondo violento, superstizioso, intollerante. Questo Gherush92 lo ha capito, ben più di Benedetto Croce che trattava la Commedia come una vecchio mobile incrostato di gemme di poesia pura: se la struttura del mobile medievale era ormai inservibile, le gemme si potevano ancora estrapolare dal contesto e apprezzare oggi come nel Trecento, perché la poesia quando è pura è fuori dal tempo. Questo almeno pensava Benedetto Croce; ma mi chiedo se in fondo non lo pensiamo ancora noi, quando pretendiamo di leggere la paginetta di Paolo e Francesca come “poesia”, magari poesia amorosa, ignorando che Dante non voleva semplicemente commuoverci al pensiero di un amore tragico; Dante voleva spaventarci, Dante ci descriveva l’inferno in cui potevamo cadere se avessimo letto o scritto poemi galeotti, Dante voleva che nessuno li scrivesse più e che nessuno s’innamorasse più.
“L’arte forse è il più raffinato e subdolo strumento di comunicazione, il più potente veicolo di diffusione e il mezzo più suadente per l’incitamento all’odio” scrive Gherush92 nella sua controreplica; e io sono d’accordo. Se poi coi secoli ci ricordiamo solo dell’arte, e ci dimentichiamo dell’odio che l’aveva ispirata, non siamo veramente buoni lettori, e dobbiamo essere grati a Gherush e al suo sguardo così alieno dal nostro. Non si può capire Dante se non si capisce la rabbia che c’è dietro: una rabbia con coordinate precise, storiche geografiche e sociali, che a scuola dovremmo fornire ma non sempre riusciamo a farlo. Una rabbia magari più anti-guelfa e anti-fiorentina che anti-islamica o antisemita. Ma pur sempre rabbia.
Resta a questo punto da spiegare “perché i ragazzi delle scuole dovrebbero studiare un’opera che offende e denigra popoli, gruppi e categorie di persone”. Ebbene, proprio per questo motivo: per lo stesso motivo per cui a scuola studiamo la Shoah, nel suo contesto storico, proiettando immagini di nazisti sterminatori senza essere nazisti, di solito, né sterminatori. Perché odio e intolleranza sono una componente importante di quella cosa che si chiama umanità e che noi umanisti riteniamo di poter studiare (quando ancora non andiamo in cerca di gemme fuori del tempo, come Croce e i crociani pretendevano di fare). Perché se togliessimo la violenza e l’intolleranza dai programmi scolastici, alle medie non ci resterebbe che studiare la Melevisione (con la strega censurata) e al liceo, con calma, Moccia. Perché non crediamo più, non abbiamo creduto mai che l’Inferno e il Purgatorio e il Paradiso danteschi fossero resoconti di viaggi veri: ma ancora oggi crediamo che siano notevolissimi viaggi nel mondo interiore di un uomo che è straordinariamente rappresentativo della sua epoca e civiltà. Perché è fondamentale non solo spiegare che la terra è all’insignificante periferia di una galassia tra tante, ma anche che per millenni abbiamo pensato che fosse una Casa del Grande Fratello al centro dell’universo e che Dio spiasse ogni nostra mossa per giudicare se valesse la pena o no di torturarci per l’eternità. Se la insegniamo così – e in Italia dovremmo insegnarla così – allora sì, ne vale la pena, più di tante poesiole e prose edificanti. Sennò forse davvero sarebbe meglio studiare qualcos’altro. http://leonardo.blogspot.com
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"Né domani né mai"

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Per quanto possa essere parso inelegante o semplicemente rozzo, non si può dire che il riferimento di Alfano alle "nozze gay" non abbia ottenuto un risultato: a distanza di 48 ore i dirigenti del PD - che sulla questione TAV avevano dato prova di una certa inedita compattezza - stanno litigando; addirittura la presidente Bindi contro il vice Scalfarotto. La prima dice che il no ai matrimoni gay è un "punto molto fermo"; per il secondo "il matrimonio è l'unica soluzione razionale per le coppie omosessuali". Le posizioni, come si vede, sono piuttosto lontane da qualsiasi compromesso, che è esattamente quello che dovrebbe formulare un partito.

Non è un caso. Lo si era già capito ai tempi del disegno di legge sui DiCo: c'è una questione che più di ogni altra riesce a mostrare in controluce i punti di massima fragilità del Partito Democratico, ed è precisamente la questione del matrimonio gay. Niente riesce a polarizzare altrettanto bene laici e cattolici di centro-sinistra, che su tanti altri argomenti hanno opinioni assolutamente sovrapponibili. Alfano poteva dire tante cose e forse le ha dette, ma la piaga su cui poteva mettere il dito è una sola: tutto il resto è indolore e ce lo siamo già scordati. Le nozze gay invece fanno male: mettono contro i cattolici e i loro "valori non negoziabili" e i gay a cui è negato un diritto civile. In mezzo, una buona percentuale di elettori che forse sull'argomento non hanno una posizione chiara ma che legittimamente si aspettano che il loro partito ne formuli una, invece di trovarsi a leggere di battibecchi tra presidenti e vice.

Chi scrive è abbastanza convinto che al matrimonio omosessuale ci si arriverà... (continua sull'Unità, H1t#116Se l’Italia riuscirà a restare agganciata alle economie e alle società più avanzate, non c’è motivo perché quello che è successo in Spagna non avvenga anche da noi. Non è tanto un problema di “se”, quanto un problema di “quando”. A tal proposito non ho motivo di dubitare della fermezza della Bindi: finché lei conterà qualcosa (e conta ancora molto) di matrimoni gay non si parlerà. Ovvero, se ne parlerà, ma soltanto per litigare, e gli ultimi ad approfittare di questi litigi saranno le coppie gay. Bisogna sempre tener conto che la Bindi non è su quella sedia di Presidente per caso: che alle primarie del 2007 fu l’unica seria avversaria di Veltroni, con una piattaforma che per certi versi era più progressista di quella del vincitore. Non è mai stata una baciapile alla Binetti, però è cattolica e i cattolici, di matrimonio gay, non intendono sentir parlare: non è un mistero, lo dicono apertamente da anni.

Tornano in mente le parole che un altro ex esponente della Margherita, Pierluigi Castagnetti, si fece sfuggire tre anni fa“Noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, come per Franceschini, per tutti noi cattolici, insomma, il vero “capo” è lui: il Papa. Per noi è il vicario di Dio in terra, e questo gli ex diesse dovrebbero alla fine comprenderlo”. In realtà non c’è nessun segreto: Castagnetti, la Bindi, Franceschini, non hanno mai fatto mistero di avere “due appartenenze”. Gli “ex diesse” dovrebbero comprenderlo: si può discutere di tante cose; perfino di Chiesa, finché si parla di determinati aspetti laici della questione (l’ICI, l’otto per mille) ma di sacramenti no: e per i cattolici il matrimonio in primo luogo è un sacramento. Per questo lascia perplessi l’attacco di Paola Concia alla Bindi (“non sei una buona cristiana se non metti al centro la dignità umana, il rispetto di tutti, la felicità di tutti”) : s’intende, la Concia ha tutti i diritti di sentirsi offesa, ma se pensa di poter dare lezioni di ‘buon cristianesimo’ alla Bindi casca un po’ male. Non c’è nessuna possibilità che tra l’insegnamento del Papa e i consigli di un’omosessuale sposata in Germania la Bindi possa dare maggior peso a questi ultimi. E allora che si fa?
Ci sono due strade – fermo restando che secondo me prima o poi ci arriveremo – per non arrivare al matrimonio gay nel tremilaedodici. Il primo consiste nel far uscire la questione dal PD, e in generale dal centrosinistra: dopotutto è una questione bipartisan, molti gay votano legittimamente a destra o non votano affatto. Anche nel resto del mondo, quella per i diritti civili non è necessariamente una battaglia di sinistra: vedi le aperture di Cameron sull’argomento. Invece di intestardirsi a negoziare con chi non intende negoziare (la Bindi e compagnia), i gay del centrosinistra potrebbero provare a creare una lobby trasversale ai partiti. La principale obiezione a un’ipotesi del genere è: te li immagini deputati pidiellini o leghisti sensibili a un argomento del genere? Onestamente no, almeno in questa legislatura non me li immagino, ma nemmeno mi immagino che all’improvviso la Bindi cambi idea perché la Concia le fa il catechismo. Invece una persona che dopo averne discusso con la Concia ha cambiato le sue idee è stata l’ex ministro Mara Carfagna…
La seconda strada ce l’aveva già mostrata la Bindi stessa, con la bozza sui DiCo. In sostanza si trattava di questo: visto che per i cattolici il matrimonio è in primis un sacramento, proviamo ad aggirare la questione, trasformandola in un mero problema di terminologia: inventiamo un’altra istituzione, chiamiamola Pacs o Dico o Xswf, mettiamoci dentro tutti i diritti che si aspettano i gay, e dopo un po’ nessuno farà caso alla differenza. Secondo me non era una cattiva idea, almeno per cominciare: Scalfarotto però dice che non se ne parla più: “troppi anni sono passati dal 2007″, dice, “troppo il mondo ha proceduto per poter farci ingollare una legge in cui le coppie non diventano tali perché esprimono di volerlo ma perché possono provare di aver già passato un tot di anni insieme”. Su una cosa ha ragione: non si è mai capito perché per fare un DiCo una coppia dovesse certificare qualcosa come tre anni di felice convivenza, mentre per sposarsi no. E tuttavia la legge avrebbe avuto effetto retroattivo, e avrebbe semplificato la vita di migliaia di persone: certo, non si sarebbe chiamato “matrimonio”, ma nel giro di una generazione quanti avrebbero notato la differenza?
Scalfarotto dice che è passato troppo tempo, ma per la verità sono passati appena cinque anni: cinque anni in cui tante altre coppie avrebbero potuto migliorare oggettivamente la propria condizione. Può anche darsi che il mondo abbia fatto progressi inimmaginabili, in questi cinque anni, ma nel frattempo l’Italia non sembra aver fatto alcun passo in avanti, né sul piano sociale, né su quello politico: e di questo il muro contro muro tra presidente e vicepresidente del PD mi sembra una prova eloquente. http://leonardo.blogspot.com
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Vedetta valsusina

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In questi giorni ho letto un po' dappertutto che, d'accordo, la TAV può essere un'idea discutibile, i NO-TAV possono avere la loro parte di ragione: però salire sui tralicci è sbagliato, salire sui tralicci è semplicemente stupido. Io non so bene cosa pensare, ci metto un po' a formare i miei giudizi. Sto ancora riflettendo su un episodio di 152 anni fa.

Siamo a Montebello, nell'Oltrepò pavese, a duecento chilometri di distanza dal fronte della Val di Susa. Anche a quel tempo c'era un conflitto in corso, che forse nessuno aveva ancora osato chiamare Seconda Guerra d'Indipendenza. In sostanza Napoleone III mira a cacciare gli austriaci dalla pianura padana, e a formarvi uno Stato satellite dell'Impero francese, da affidare alla dinastia dei Savoia e alle cure del conte di Cavour. È il venti maggio e nella zona cominciano a prendere posizione truppe francesi e piemontesi; ma si è capito che anche gli austriaci sono in zona. Un ragazzino del luogo, Giovanni Minoli (nessun grado di parentela col giornalista), sale su un frassino per dare un'occhiata. Un cecchino austriaco lo colpisce di striscio. Minoli viene prontamente soccorso dai soldati francesi e piemontesi, che lo ricoverano a Voghera, ma la medicina del tempo è quel che è, e insomma Minoli muore per un'infezione polmonare, dopo sette mesi di agonia.

Probabilmente i Sallusti dell'epoca, perché in tutte le epoche ce ne sono (anche se forse a noi è toccato il peggiore) lo avranno definito un "cretinetti": cosa c'è in effetti di più cretino che salire su un albero in un campo di battaglia? Se ti prendi una palla a un polmone te la sei meritata tutta. E poi cos'è questa frenesia di voler aiutare i soldati: non poteva salirci uno di loro, sull'albero, ché la guerra sarebbe il loro mestiere? Ne avranno fatti, di discorsi del genere, ai tavolini dei caffè.

Ma presto c'è stato altro di cui parlare. (Continua sull'Unita.it, H1t#115)

Ma presto c’è stato altro di cui parlare. Altre battaglie terribili, come Solferino; e poi l’armistizio di Villafranca che fa infuriare e dimettere Cavour; l’anno dopo l’impresa dei Mille e, in breve, l’Unità d’Italia. In mezzo a tante vittorie e tanto eroismo, la memoria di Minoli si perde completamente; tanto più che era orfano, e nessuno ne aveva reclamato il corpo, sicché ancora oggi ignoriamo dove sia sepolto. Il silenzio è tale che quando Edmondo De Amicis, un quarto di secolo più tardi, infila in Cuore la storia della “Piccola vedetta lombarda” (sostituendo alla lunga agonia una più spiccia morte in battaglia), i lettori la scambiano per la solita leggenda edificante e patriottica: la classica figurina da additare agli studenti dell’epoca umbertina come esempio di coraggio, eroismo, dedizione alla causa eccetera eccetera.
Però, prima di diventare una figurina, Giovanni Minoli è esistito davvero: perlomeno a questa conclusione sono giunti, qualche anno fa, i ricercatori Fabrizio Bernini e Daniele Salerno. E ora che non è più un personaggio di carta ci possiamo porre il problema: eroe o cretinetti? Cretinetti senz’altro, dal punto di vista degli austriaci, legittimi difensori dell’autonomia del regno Lombardo-veneto dalle mire espansionistiche di Napoleone III e dei suoi lacché piemontesi. Se avessero vinto loro, di Italia unita per un altro po’ non si sarebbe più parlato. Nessuno scrittore avrebbe mai additato agli studenti del Granducato di Toscana o dello Stato della Chiesa il modello di un un ragazzaccio che sale su un albero per fare una spiata. Ma i piemontesi la guerra l’hanno vinta (con qualche complicazione): l’Italia è unita e Minoli è uno dei suoi eroi.
La guerra del TAV non è ancora finita, e non saranno nemmeno i confronti tra la popolazione e le forze dell’ordine a risolverla. Quella in Val di Susa è soprattutto una guerra di idee: le due fazioni in campo hanno in mente due modelli di sviluppo diversi, hanno fatto calcoli diversi, e da molto tempo non si capiscono più. Se dovessi scommetterci sopra, probabilmente direi che il TAV si farà, mi basta vedere da che parte stanno i manganelli. Ma se il TAV sarà veramente un successo lo sapremo solo nei prossimi venti, trenta, cinquant’anni.
E allora forse potremo rispondere serenamente alla domanda di questi giorni: salire su un traliccio dell’alta tensione come ha fatto Luca Abbà; mettere a repentaglio la propria vita per salvare un territorio da un modello di sviluppo che in coscienza si reputa sbagliato, è un atto di eroismo o di stupidità? Se tra vent’anni la TAV funzionerà a regime, se avrà ridotto il traffico su gomma e ripianato le enormi spese che sosterremo, il problema nemmeno si pone. Se invece si sarà dimostrato un monumento inutile, se altre evoluzioni l’avranno già reso superato, i Sallusti del futuro la vedranno in un modo diverso. E Abbà si ritroverà anche lui in una figurina, come quello studente cinese davanti al carro armato in piazza Tienammen.
In fondo è facile riconoscere gli eroi: basta aspettare qualche tempo, e ogni cosa diventa ovvia e necessaria come la trovi scritta sui libri. Ma gli eroi non ce l’hanno tutto quel tempo: quando arriva un nemico si fa la prima cosa che ti viene in mente, sali su un albero oppure su un traliccio, e poi la Storia va come deve andare. Io spero che Abbà ci metta ancora un bel po’ a passare alla Storia; che si rimetta e abbia ancora tante battaglie, da vincere o perdere, ma tante. http://leonardo.blogspot.com
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Bastardi senza Loria

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Io ho avuto tante fortune nella vita, e una è questa: a un certo punto nella mia città, che è minuscola, è spuntata una delle biblioteche più belle d’Italia. Proprio nel centro pedonale, in una ex scuola elementare, ex fabbrica del truciolo, rimessa a nuovo e rivestita di dischi, videocassette, dvd, postazioni internet, e soprattutto libri… Però se vi dico che è bella, non è tanto ai libri che penso. Ci sono senz’altro biblioteche con più libri, ma non importa: basta avere un prestito interbibliotecario che funziona, dei bibliotecari che sanno il loro mestiere, e ogni biblioteca diventa quella di Babele. Ne ho viste di più grandi in città grandi, di più fornite in città universitarie, ma il mio è un centro piccolissimo senza università – anche se ce ne sono quattro tutt’intorno. Quello che fa della nostra biblioteca una delle più belle d’Italia è il suo pubblico.

Studenti, pensionati, lavoratori, stranieri, nella nostra biblioteca vengono tutti: è il luogo più condiviso di tutta la mia città. La varietà di persone che ci trovi dentro non la vedi da nessun’altra parte: né in parrocchia, né in palestra, nemmeno al pronto soccorso. Forse a scuola, tra i bambini, ma gli adulti anche in piazza si tengono separati, ognuno nel suo capannello. La biblioteca è l’unico posto in cui tutti troviamo qualcosa che ci serve, la dimostrazione più bella di cos’è la cultura: non un castello che svetta nelle tenebre dell’ignoranza, ma il posto dove puoi entrare per guardare un film comico in lingua originale, e scoprire a pochi metri un romanzo di cui non avevi mai sentito parlare, un disco di Beyoncé, una fuga di Bach. Le persone che vengono qui anche alla domenica, dove sarebbero altrimenti? Allo stadio, al cinema, in un internet point? Probabilmente non rischierebbero mai di incontrarsi. Qui il rischio c’è, tutti i giorni, ed è fantastico.

Io ho avuto gran fortuna nella vita, ma forse non me la meritavo... (continua sull'Unita.it, H1t#114).

Io ho avuto gran fortuna nella vita, ma forse non me la meritavo. Ho avuto una biblioteca meravigliosa a pochi passi da casa, e adesso sto qui a guardare mentre va in malora. Lo stesso Comune che ha deciso di aprirla, investendoci cinque milioni appena cinque anni fa, sta per lasciare a casa i 17 dipendenti che l’hanno fatta funzionare fin qui. La cosa che fa più rabbia è che non lo si può nemmeno chiamare licenziamento, perché i 17 non erano dipendenti, bensì “soci” di una cooperativa che aveva vinto già due appalti. Erano persone capaci, selezionate in base al loro profilo professionale: per diventare “socie” avevano dovuto superare la scrematura di un esame. Hanno gestito una situazione non facile, hanno lavorato per sette euro e mezzo all’ora anche il sabato e la domenica senza straordinari, dal momento che il loro contratto non ne prevedeva. Quando nel 2010 il Comune ha iniziato a ridurre l’orario, con la chiusura del lunedì, loro hanno continuato a darci dentro e il servizio è rimasto agli stessi livelli. E dal primo aprile se ne staranno a casa. Pessimo scherzo, ma com’è potuto succedere?
L’impressione è che al Comune non si siano tutti resi conto che non rinnovare una convenzione equivale a licenziare un personale molto qualificato: in fondo il contratto multi-servizi che si fa con le cooperative è lo stesso con cui si gestiscono le pulizie. Qualcuno ai piani alti era convinto che fossero ventenni, belli giovani e (dal primo aprile) disoccupati: gente che al posto fisso non ci tiene, se non c’è più posto tra gli scaffali si può sempre trovarne in un fastfood. E invece molti sono laureati, sopra la trentina, con famiglie a carico, e mutui accesi, eccetera eccetera. Quando dico che la nostra biblioteca è la più bella d’Italia, mi riferisco anche a loro, che riuscivano a portarti sempre tutto quello che cercavi, anche se era in deposito e altrove ti avrebbero detto di ripassare tra qualche ora, o il giorno dopo. Questo era fondamentale, in una biblioteca bella ma piccola, con poco spazio per gli scaffali: erano loro i nostri scaffali viventi, e senza di loro difficilmente la biblioteca funzionerà.
Al Comune dicono che saranno sostituiti da sei dipendenti che vengono da altri settori, e che il servizio continuerà allo stesso livello. Faccio i miei auguri a chi arriverà dal primo aprile, ma posso essere scettico? Non credo che potranno affrontare la stessa mole di lavoro che oggi gestivano in diciassette. Ma il Comune da qualche parte deve stringere – il solito problema – e forse la biblioteca non è così strategica dopotutto: tanto più che forse la nostra squadra di calcio sarà promossa, e quindi bisognerà rifare lo stadio. Ma il pubblico mescolato che popolava la nostra biblioteca, uomini donne e bambini, italiani e stranieri, studenti e lavoratori… chissà se allo stadio alla domenica ci va. Probabilmente molti torneranno ai loro capannelli, o se ne staranno ognuno a casa propria, senza più il rischio d’incontrarsi e magari qualche volta di piacersi.
Ultimi dettagli, di non ultima importanza: il mio Comune si chiama Carpi (MO), la biblioteca multimediale si chiama Arturo Loria, la giunta che ha preso queste decisioni è di centrosinistra. Lo è sempre stata, ma questo alla fine non è che cambi molto la questione. La metto giù semplice: per me è di sinistra chi fa cose di sinistra, e il primo esempio che mi viene in mente è una biblioteca bellissima che forse tra un mese non funzionerà più, dove la cultura non si vergognava di essere una cosa popolare.http://leonardo.blogspot.com
(Su esuberanti.altervista.org si trovano tutte le informazioni aggiornate giorno per sul caso della Biblioteca Loria di Carpi, con una rassegna stampa curata dai bibliotecari. Si può anche firmare la petizione in loro sostegno. Della biblioteca dovrebbe parlare anche la puntata di domani di Ballarò).
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Anche peggio della vera tv

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Il sospetto orribile è che il giorno in cui avremo finalmente un Festival della Canzone con belle canzoni, presentato da professionisti che conoscono il mestiere, uomini e donne naturalmente affabili, eleganti e di bella presenza con alle spalle mesi di preparazione di ogni benché minimo dettaglio, ma anche in grado di improvvisare a sangue freddo nel momento dell'inevitabile imprevisto, gente insomma che l'ingaggio se lo guadagna col sudore e con l'ingegno - ecco, il giorno che avremo un Festival così, non perfetto ma fatto molto bene, il sospetto orribile è che cambieremo canale dopo pochi minuti. Perché a noi, poi, delle canzoni italiane, non è che interessi così tanto in fondo. (Continua sull'Unità - H1t#113)

Un festival ben fatto, chi se lo guarderebbe?



Basta riflettere su quanta poca musica italiana c’è per il resto in tv: pensate a chi rimarrebbe a guardarsi gli Amici di Maria se invece di ballare e litigare tra loro cantassero soltanto, e cantassero soltanto canzoni italiane. Pensate a chi resterebbe a guardarsi X-Factor (che già non è questo schiacciasassi dell’auditel) se i concorrenti non potessero pescare da un repertorio anche anglosassone, e se Morgan ogni tanto non sbroccasse un po’. Così forse il problema è tutto qui: a un certo punto, non si sa bene perché, si è deciso che una cosa intrinsecamente un po’ noiosa come una competizione canora dovesse diventare l’evento televisivo dell’anno, e offrire a ogni edizione folgoranti metafore a tutti gli apprendisti Severgniniche in una mutanda di Belen o in uno sbrodolamento di Celentano si affannano a trarre auspici sull’andamento del Paese.
Il problema è che gli spettatori a guardare i cantanti si annoiano: si annoierebbero anche se lo spettacolo fosse impeccabile: e allora l’unico modo per tenerli lì (e piazzare inserzioni pubblicitarie) è sfruttare il fascino del disgusto, l’istinto primordiale che ci porta a rallentare per guardare gli incidenti stradali, che per altro sono molto spesso anche esteticamente più interessanti degli incidenti diplomatici che organizza Celentano. Ci sono stati senz’altro festival meglio riusciti, ma hanno fatto meno ascolti, e forse non ce li ricordiamo perché abbiamo guardato altro. Stavolta no, stavolta l’imbarazzo, lo stupore, l’incredulità, la rabbia ci hanno fatto restare lì davanti.
Questo non è comunque un buon motivo per fare di Sanremo una tendenza, o una metafora di come stanno andando le cose nel Paese in cui per attirare i telespettatori intorno a una vecchia competizione canora si manda tutto in vacca speculando sull’imbarazzo che suscitano i vecchi cantanti e le vallette che non hanno studiato. Probabilmente ci meriteremmo una televisione migliore, ma persino la nostra tanto bistrattata televisione è quasi sempre migliore di Sanremo, di questo Sanremo. Non che ci voglia tanto, ehhttp://leonardo.blogspot.com
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Perché poi sempre battutisti al governo

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Sapete qual è il problema con questo governo?
Che ci abbia alzato le tasse? No, noi non siamo così banali.
Che sia l'espressione dell'Unione Europea anche se l'Unione Europea non ha nessun piano? No, non è mica colpa di Monti, lui fa quel che può.
Che tra le sue priorità non ci sia la pace sociale? No. Forconi e tassisti sembrano rientrati.
Che parli sempre di sistemi per licenziare e mai di sistemi per assumere? Eh, ma non è mica il solo.
E insomma, allora, qual è il problema?



Sono le battute. Le gaffes. Non ci piacciono. Quasi quasi era meglio... no, non lo dirò mai. Però qualcuno forse comincia a... Ma le gaffes di Monti & co. sono così interessanti? è sull'Unita.it, e si commenta laggiù (H1t#112).

E insomma, la luna di miele dell’elettore di sinistra con il governo Monti è finita. Più che dai giornali lo si capisce su facebook, persino su twitter se non fosse ancora un po’ di nicchia. Era inevitabile, Monti è sensibilmente migliore del suo predecessore, ma non è un leader di centrosinistra e nemmeno ci tiene a sembrarlo: ha altre idee, altre priorità. La delusione era prevedibile, ma è interessante notare le forme in cui si esprime. Cos’è di Monti e dei suoi ministri che non ci piace più? Qualche proposta di legge, qualche scelta in materia economica? Non esattamente. Quel che non ci piace davvero sono le frasette.
Quelle piccole battute che magari non vogliono nemmeno strappare un sorriso, ma soltanto vivacizzare una conferenza stampa. Monti ha detto che il posto a vita è monotono, beh, non sempre ma a volte sì. Probabilmente non si aspettava questa ondata di indignazione.  Né pensava di scatenarla la Fornero, irridendo i figli che non vogliono allontanarsi da mamma e papà. Sono stati ingenui, bisogna dirlo. Ma lasciamo stare un attimo loro. Cosa ci sta succedendo? Perché invece di concentrarci sulle politiche di Monti & co. ci attacchiamo alle frasette? Io ho una teoria.
C’era una volta, pochissimo tempo fa, l’Antiberlusconismo. Era un movimento di massa, oddio, movimento, diciamo che era una massa che ogni tanto ondeggiava. Qualche frangia più o meno importante ogni tanto mostrava più definiti segni di vita, organizzando anche girotondi, cortei, raccolte di firme, boicottaggi: ma lo zoccolo molle dell’Antiberlusconismo seguiva a distanza, con prudenza. Ogni tanto, a intervalli quasi regolari, lo si osservava ribollire e fremere: erano le avvisaglie dell’unica vera ritualità degli antiberlusconiani, l’Indignazione Condivisa. Di solito funzionava così: Berlusconi andava in tv, o in una conferenza stampa, o al parlamento, e sparava una cazzata. No, chiedo scusa, Berlusconi adesso è a riposo e non posso più nascondermi dietro di lui per indulgere al turpiloquio. Insomma ogni tanto Berlusconi diceva una sesquipedale corbelleria, raccontava una barzelletta spinta, commetteva una gaffe monumentale… e la grande balena berlusconiana fremeva di sdegno, schizzava getti d’acqua dai pori, e correva a fotografare l’immagine di sé stessa indignata per la gallery di Repubblica. Tra tanti esempi, mi viene in mente quando prima di una tornata elettorale Berlusconi a un comizio disse che avrebbe vinto, perché gli italiani non erano così coglioni da votare contro i loro interessi – ecco, in quell’occasione molti si fecero fotografare col cartello IO SONO UN COGLIONE, che in alcuni casi risultava pleonastico. Eravamo così, noi antiberlusconiani. Avevamo bisogno di questi sussulti di indignazione per riconoscerci, svegliarci, ricordarci che quell’uomo ci stava rovinando l’esistenza – e poi tornare alle nostre occupazioni un po’ più leggeri.
C’era una volta l’Antiberlusconismo e c’è ancora, da qualche parte sotto le ceneri. Ma è confuso. In fondo ce l’abbiamo fatta, siamo sopravvissuti a Berlusconi. E però non vorremmo abbassare la guardia, vorremmo riuscire a opporci alle cose che non ci piacciono del governo Monti. Il problema è che non sappiamo come fare, perché Monti e i suoi ministri tecnici fanno una cosa alla quale non siamo più abituati. Politica. Niente a che vedere coi teatrini messi su da Berlusconi e Bossi negli ultimi anni. Ma la politica è complicata, e l’Antiberlusconismo è una creatura semplice, assuefatta alla semplicità. Sa solo fremere e sbuffare. Non gli resta che trovare qualcosa di Monti & co. che lo faccia fremere e sbuffare. Possibile che non dica mai una battuta scema? Possibile che i suoi colleghi non facciano mai qualche gaffe?
Dai e dai qualcosa si trova. Un sottosegretario che dica “sfigati” agli studenti fuoricorso. Cosa che in realtà è capitato a tutti di dire, pensando ad almeno uno dei fuoricorso che abbiamo conosciuto: però il sottosegretario non si doveva permettere. Un ministro che dice che il lavoro a vita è un’illusione. Un’altra che biasima quelli che vogliono lavorare “nella città di mamma e di papà”. E l’indignazione è esplosa, finalmente! Ne sentivamo un po’ la mancanza. Adesso però l’effetto è finito e magari c’è tempo per chiedersi: ma perché quelle frasette ci hanno fatto arrabbiare tanto?
Non è una domanda retorica. È davvero così importante sapere cosa pensa il sottosegretario Martone dei fuoricorso? Chi conosceva Martone fino alla scorsa settimana? Monti è stato indelicato a parlare di monotonia del posto fisso, ma è davvero questo il problema che abbiamo col governo Monti, le sue gaffes? O le scelte non sempre tecniche sul lavoro, sull’economia, sulla scuola? Perché ci concentriamo su frasette infelici, spesso estrapolate da un contesto? È come se fossimo in crisi d’astinenza dalle figuracce di Berlusconi: forse possiamo sopportare le manovre di Monti, ma non che B. si sia ritirato lasciandoci senza un gaffeur par suo.
Forse stiamo semplicemente guarendo, forse tra qualche mese le battute infelici di un governante che non ci rappresenta non ci faranno più sobbalzare e nemmeno discutere. Avremo cose più importanti a cui pensare. Saremo finalmente fuori dal berlusconismo, e dall’anti-medesimo. http://leonardo.blogspot.com
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Fuori le pale!

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La neve divide gli uomini in due categorie: chi tira fuori la digitale e chi tira fuori le pale.


Ed è questo il vero problema con la mia generazione, altro che Renzi. Il pezzo in cui si compie la mia mutazione definitiva in accigliato umarell si legge sull'Unita.it (H1t#111). Buon disgelo.

A questo punto probabilmente ne avete abbastanza della neve sui giornali, delle foto di neve degli amici su facebook, della neve in generale, e vi capisco. Racconto solo la mia storia, sperando che abbia un senso anche per voi.
Mercoledì avevo messo la sveglia presto, perché volevo spalarne il più possibile finché era leggera. Non è che temessi di restare bloccato nella banchisa, ma volevo evitare che il più del lavoro lo facesse il signore del piano terra, che si sveglia presto, ma non dovrebbe fare sforzi alla sua età. Poi purtroppo la Creatura aveva altri progetti, e insomma mi è rimasta soltanto una mezz’ora per farmi strada verso il cancello e spazzare il mio pezzo di marciapiede. A un certo punto, mentre spalavo, è arrivata la signora del piano terra a scusarsi del fatto che non fosse uscito suo marito, che purtroppo era febbricitante. Le ho risposto che non c’era problema, che io avrei fatto quel che potevo prima di andare a scuola, e che si riguardasse, ché anche mio padre era a letto con la febbre. Però la signora era uscita con la pala del marito (grossa il doppio della mia), e ci teneva a darmi una mano. Abbiamo pulito il nostro marciapiede, e anche quello della vicina anziana, che ha una badante simpatica che spazza sempre le foglie anche per noi. La mia è una città minuscola dove le foglie cadono tutto l’anno, tranne quando nevica.
Tutto intorno strade e marciapiedi erano in uno stato disastroso, ma d’altro canto aveva fioccato tutta la notte, non si poteva pretendere. In un qualche modo ho raggiunto la scuola: verso la fine delle lezioni il bidello è venuto ad avvisarci che la scuola avrebbe chiuso per due giorni. Nel giubilo generale, ho raddoppiato i compiti e ho ricordato a tutti di aiutare i genitori con le faccende, anche spalando il cortile se necessario. Poi sono tornato a casa anch’io. La strada era ancora una lastra di ghiaccio, ma non mi stupiva. Il Comune fa quel che può. A sorprendermi sono stati i marciapiedi: quasi tutti avevano ancora le orme che ci avevo lasciato al mattino. Ho dovuto camminare sulla rotta incerta delle automobili, finché non ho trovato l’unico marciapiede un po’ decente, che era quello che avevo spazzato io (ho scoperto poi che la badante della mia vicina aveva dato una ripassata). Ho pensato che in fondo erano passate poche ore, e la maggior parte dei bravi cittadini non aveva semplicemente avuto il tempo di spalare: erano al lavoro, o bloccati nel traffico da qualche parte. Sono salito, ho dato un’occhiata a internet. Foto di neve un po’ dappertutto.
Internet è l’unico vero contatto che conservo con la gente della mia età. Al lavoro ho a che fare con preadolescenti e con colleghi un po’ più avanti con gli anni (tranne i precari che di solito hanno fretta). Su internet invece sapete come va, uno anche se non vuole finisce per trovarsi le compagnie che merita. Le persone che trovo sui social network fanno parte della mia generazione. La generazione che mercoledì avrebbe dovuto prendere la pala e pulire almeno il marciapiede, un lavoretto di mezz’ora: invece stavano pubblicando le foto su Instagram. Non è che voglio fare del moralismo, anche se mi viene spontaneo. Però dopo due giorni di bufera, stasera, guardando i marciapiedi intorno al mio ancora coperti da quella che ormai è una lastra di ghiaccio dura, pericolosa per i bambini e per gli anziani… mi è venuta rabbia, certo, per aver sudato inutilmente: a cosa serve un marciapiede pulito in un angolo, se prima e dopo il ghiaccio invade tutto? Ma sotto la rabbia c’è il panico. Fino a qualche anno fa sapevo che ai marciapiedi ci avrebbe sempre pensato qualche pensionato che non chiedeva meglio che mostrarsi utile. Quella generazione ormai si vede che non ce la fa più, è a letto con la febbre e ne ha il diritto: e noi?
La mia generazione, quella che chiede a gran voce di ereditare il mondo e per carità, giustamente, di fronte alle banali difficoltà di una bufera di neve, reagisce come se fosse di nuovo l’Ottantasei: andiamo a giocare e a farci le foto. Io a dire il vero l’Ottantasei me lo ricordo proprio perché per la prima volta i miei mi diedero una pala in mano: niente di speciale, forse una mezz’ora, e poi facemmo anche noi il pupazzo di neve: però ricordo meglio la pala, era il segno tangibile (e pesante) che stavo crescendo, e che ci si aspettava che facessi anch’io qualcosa.
Poi magari mi sto rincoglionendo: magari è un problema della mia città minuscola, o del mio quartiere, magari a due isolati da qui c’è una strada coi marciapiedi perfetti, puliti da trentenni responsabili. Magari avrei dovuto scrivere un pezzo su Monti, o su Renzi. Volevo però spiegare che la mia sfiducia nei confronti dei miei coetanei non ha a che vedere con Renzi. È una cosa che mi viene da più lontano, e si nutre di tante delusioni quotidiane, come uscire di casa e trovare il ghiaccio sui marciapiedi. Qualcuno si farà male. Daranno la colpa al Comune. http://leonardo.blogspot.com
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Dove comincia il tuo naso?

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Non è una domanda retorica, sul serio, dove? Per colpa di Facci, e di Vauro, e di Peppino Caldarola, mi è capitato di passare alcuni preziosi minuti della mia vita a contemplare foto di Fiamma Nirenstein per capire che naso avesse veramente. Senza neanche riuscirci, peraltro.


Vi sembra un bel modo di prepararsi al Giorno della Memoria? A me non sembra un bel modo. Vauro e il naso di Fiamma si legge sulla nuova, fiammante, Unita.it, e si commenta laggiù, possibilmente senza fare troppo gli antisemiti che ci ho famiglia, grazie.

In occasione del dodicesimo Giorno della Memoria è scoppiata una polemica, su quotidiani e blog, a proposito di un naso, per la precisione il naso della deputata Fiamma Nirenstein. La cosa, benché abbastanza delirante, è meno buffa di quanto possa sembrare, anzi per certi versi è mortalmente seria. Ci sono anche 25000 euro in ballo. Cercherò di raccontarla senza offendere nessuno, ma credo sia difficilissimo (qui c’è un buon riassunto di Filippo Facci).
In principio ci fu una vignetta che Vauro Senesi pubblicò sul Manifesto il 13 febbraio 2008: si era in piena campagna elettorale e la filoisraeliana Nirenstein aveva annunciato che si sarebbe candidata con il Popolo della Libertà: lo stesso partito di postfascisti come Alemanno o Giorgia Meloni, o di semplici nostalgici come Ciarrapico. Vauro commenta la notizia disegnando il mostro Fiamma-Frankenstein, che riprende le fattezze della Nirenstein, e sul vestito porta tre simboli: la stella di David, il fascio littorio, e il logo del PdL. Non è senz’altro la vignetta meglio riuscita di Vauro, ma il significato sembra chiaro. Io, perlomeno, ci vedevo un’allegoria del PdL: un mostro composto con pezzi di corpi che non avevano nulla in comune: il fascismo e Israele.
La Nirenstein la comprese in un altro modo, e protestò indignata per  “l’immancabile attacco demonizzante e disumanizzante”, “piuttosto prevedibile nell’uso che fa degli stereotipi, gli stessi che portano a raffigurare i soldati israeliani con la stella di Davide e la svastica”. Insomma, Vauro l’aveva dipinta come un mostro col fascio littorio perché ebrea, fine. Sono polemiche e semplificazioni inevitabili durante una campagna elettorale. Otto mesi dopo, quando sia la Nirenstein che Ciarrapico sedevano già in Parlamento (e avevano già avuto modo di litigare), un giornalista già amico di Vauro, Peppino Caldarola,scrive un trafiletto satirico sul Riformista in cui immagina una riunione di redazione di Annozero. Tra le varie battute, nessuna particolarmente esilarante, scrive questa:
Vauro non accetta di censurare la vignetta, che ha fatto tanto ridere Gino Strada, in cui chiama Fiamma Nirenstein “sporca ebrea”. 
No, non fa ridere. Ma non meritava nemmeno una multa di 25.000 euro. Invece capita che Vauro decida di querelare Caldarola: lui infatti non ha mai chiamato Fiamma Nirenstein Sporca Eccetera. E su questo non ci piove, ma è abbastanza chiaro che Caldarola scherzava: nello stesso pezzo scriveva “Marco Travaglio non vuole tornare dalla Transilvania dove era andato a trovare suo nonno il conte Dracula”. Quattro anni dopo capita che un giudice dia ragione a Vauro e infligga a Caldarola e al suo ex direttore Polito una multa spropositata. Caldarola la prende male: sul suo blog scrive di preferire il carcere; ma soprattutto dimostra dopo quatto anni e un processo di non avere ancora capito il senso della vignetta.
Al punto che comincio a domandarmi se non ho capito male io. Per il giornalista la vignetta contiene due indizi di flagrante antisemitismo: la stella di David e il naso di Fiamma-Frankenstein. Sulla stella Caldarola non ha dubbi: “È il simbolo della malvagità nazista”. Per me era un semplice richiamo all’identità da sempre rivendicata dalla Nirenstein. Ovviamente non si può guardarlo e non pensare ai deportati, ma appunto: si può rivendicare la difesa di Israele e militare nello stesso partito di Ciarrapico e di Alessandra Mussolini?
Ma il vero problema è il naso. Quello disegnato da Vauro, scrive Caldarola, è adunco. Casomai lo ignorassimo, “il naso adunco è la tipica rappresentazione che si dà degli ebrei” nelle vignette antisemite. Ergo, Vauro è antisemita. Ora, basta confrontare una qualsiasi vignetta di accertato antisemitismo per notare una certa differenza: di solito la forma del naso assume dimensioni caricaturali. Viceversa, nella vignetta di Vauro le dimensioni del naso non risultano particolarmente esagerate.  La mia sensazione – ma a questo punto potrei sbagliarmi, per favore non mandatemi gli ispettori – è che Vauro non abbia particolarmente calcato la mano nel disegnare un naso che ha qualche somiglianza con quello della Nirenstein. È un disegnatore satirico, che ha a disposizione pochi tratti e un solo colore per rendere una fisionomia: se deve disegnare un nero lo colora di nero, è razzismo? Il suo Arafat aveva il labbro sporgente e sproporzionato, è islamofobia? Può essere interessante anche confrontare la sua vignetta con quelle che un altro autore satirico ha dedicato alla Nirenstein, Stefano Disegni: se non altro perché Disegni è uno dei disegnatori satirici meno caricaturisti in circolazione: eppure anche la sua Fiamma ha un naso simile, come mai? Forse è antisemita anche Disegni? Oppure quello è semplicemente il suo naso? La stessa idea è venuta a molti commentatori sul blog di Caldarola, che gli hanno scritto in sintesi: guarda che ti sbagli, guarda che Vauro lo ha disegnato così perché lei ha davvero un naso più o meno così. Lui ha reagito dando dell’antisemita a tutti quanti. Pare che sia sufficiente questo, nel 2012, per prendersi un’accusa di antisemitismo: manifestare un’opinione sul naso di Fiamma Nirenstein.
Al punto che – dopo aver visionato una ventina di foto, di tre quarti e di profilo – ho deciso di gettare la spugna. Non ho la minima idea di che forma abbia il naso di Fiamma Nirenstein, anche se mi piace raffigurarmela con un nasino alla francese. Però anche scrivendo così, lascio intendere che se la Nirenstein non avesse un naso alla francese, se avesse un naso un po’ più pronunciato, mi piacerebbe meno… allarme antisemitismo! No, meglio tornare all’affermazione precedente: non ho la minima idea di che naso abbia l’onorevole Nirenstein.  Mi dispiace che Caldarola in quattro anni non sia riuscito a capire una vignetta che a me tutto sommato sembrava semplice; mi dispiace che Vauro lo abbia querelato, proprio lui che dovrebbe saper riconoscere uno scherzo, anche di dubbio gusto. Mi piacerebbe vivere in un mondo migliore, dove fosse possibile scherzare un po’ su tutto, compreso le barbe di alcuni profeti e le forme dei nasi di alcuni gruppi etnici, ma evidentemente non è così, e non sta nemmeno migliorando. http://leonardo.blogspot.com

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Don't feed the Pannella

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Allora, di quelli che sputano addosso a Marco Pannella, di persona o su facebook, o sul sito dei Radicali, o dovunque, sappiamo già cosa pensare: vergogna, villani, un uomo anziano, dopotutto ci ha le sue idee, senza di lui avremmo divorziato e abortito ugualmente ma ci saremmo divertiti meno eccetera.



Ma cosa pensare invece di Marco Pannella che va in un corteo apposta per farsi sputare, e poi carica il video su internet? Dei suoi seguaci che passano ore a collezionare i commenti infamanti sul suo profilo facebook e poi li recitano, ci montano un video, scelgono il Bolero di Ravel come sottofondo manco fosse la vhs di un bukkake, lo caricano su youtube, ne approfittano per una riflessione su internet e la democrazia? Che fenomeno è esattamente? Secondo me è un fenomeno interessante. La politica come prosecuzione del trolling con altri mezzi. Pannella e il Partito dei Troll si legge e si commenta sull'Unita.it (ma diciamo che si commenta anche qua sotto, vah. H1t#109).

L’ondata di messaggi volgari e violenti che giovedì hanno inondato il profilo facebook di Marco Pannella, o il sito dei Radicali Italiani, è tutto tranne che uno tsunami inaspettato. Certo, è il risultato di una combinazione micidiale: nelle stesse ore in cui i cinque seguaci pannelliani votavano contro la carcerazione dell’onorevole Cosentino (decisione assolutamente prevedibile e coerente con la loro storia), la Corte costituzionale bocciava il referendum contro la legge elettorale. Come dire: non solo abbiamo un parlamento corrotto e inetto, incapace di distinguere tra infiltrazioni camorristiche e fumus persecutionis: ma siamo condannati a tenercelo com’è, sapendo che anche il prossimo che eleggeremo entro il 2013 sarà altrettanto imbottito di incapaci che non devono rendere conto a nessuno, inseriti in lista dai leader di partito per motivi e dinamiche che a noi poveri elettori spesso sfuggono.
Di queste dinamiche i Radicali sono un esempio classico. Se tanti elettori di sinistra mostrano di avercela con loro, in modi che spesso su internet oltrepassano i limiti dell’educazione e della decenza, è anche perché nel 2008 li hanno votati, e tuttora si domandano il perché. Non fu certo una scelta condivisa e partecipata, bensì l’esito di una trattativa tra due segreterie, quella dei radicali e quella del loft, al termine della quale i radicali accettarono di sostenere il PD in cambio di nove posti sicuri in lista (più un po’ di rimborsi elettorali). Veltroni, il segretario di allora, che giovedì su twitter si stracciava le vesti “per il voto su Cosentino“, accettò: già ai tempi alcuni blogger incazzosi si domandavano che senso avesse imbarcare un partito che rifiutava di sciogliersi nel PD e rivendicava una storia diversa, i cui esponenti avevano già dato diverse prove di inaffidabilità. Ma nel loft avevano deciso che i radicali valevano tot seggi in Parlamento, ed ebbero tot seggi in Parlamento. Quello che non ebbero mai fu la simpatia degli elettori PD a cui furono imposti. Questa simpatia non è che abbiano fatto molto per conquistarla, anche in seguito. D’altro canto che bisogno c’è di piacere ai propri elettori, se i seggi sicuri te li garantisce già un accordo privato col Veltroni di turno?
Con questo non intendo giustificare le minacce di morte e le perle scatologiche che internet ha prontamente recapitato agli indirizzi dei radicali. Mi sembrano tristemente prevedibili, un effetto collaterale del Porcellum. Quel che invece è interessante è l’atteggiamento assunto da Pannella e compagnia in questi e in altri casi. Perché un sito si può sempre ripulire: i commenti esagitati e violenti si possono sempre moderare e cancellare, o bloccare nel momento in cui infuriano più numerosi. Non è un lavoraccio, e ai radicali il tempo e i fondi non dovrebbero mancare. Quel che invece hanno fatto è prendere gli insulti più violenti, farli leggere a un paio di oratori inespressivi con notevole effetto straniante, confezionarci un video e caricarlo su youtube. Ecco, questo sì che è un lavoraccio: però evidentemente dal loro punto di vista ne valeva la pena. Che a nessuno sfuggisse la “valanga di insulti” rovesciata sui poveri radicali.
Tornano in mente alcune uscite dell’anziano patriarca. Quando poco più di un anno fa si mise a flirtare apertamente col Berlusconi azzoppato dal Bunga Bunga e dalla fuoriuscita di Futuro e Libertà: il Pannella che avvisò Luca Telese di essere pronto a fare l‘“escort” di Berlusconi, anche se almeno in quel caso Berlusconi evidentemente declinò. Lo stesso Pannella che in autunno si presentò a un corteo antiberlusconiano, salvo che i suoi deputati avevano appena ostacolato in Parlamento un tentativo del PD di sfiduciare il governo. Ci voleva insomma una bella faccia tosta a venire lì, e bisogna riconoscere a Pannella che non gli è mai mancata. Sappiamo tutti come andò: gli sputarono in faccia. Lo sappiamo anche perché Pannella fece tutto il possibile per farsi sputare in faccia, e non mancò di farsi inquadrare mentre veniva bersagliato, e di esibire poi il filmato. Chi in quell’occasione si indignò per come veniva trattato un anziano signore, non colse del tutto il punto: l’anziano signore è e rimane un grandissimo professionista della provocazione.
La sensazione è che i radicali, su queste manifestazioni incivili di odio e intolleranza, ci stiano un po’ campando. Su quello, e sui cospicui fondi stanziati ancora una volta per la loro emittente radio, una presenza che Internet rende ogni anno più anacronistica. Però su Internet, si sa, c’è l’odio, ci sono quelli che ti infamano, ti linciano, ti sputano… nulla che non succedesse già ai tempi in cui Radio Radicale apriva i microfoni al pubblico, per la verità. Del resto chiunque viva e lavori un po’ su internet, ne conosce una delle più elementari norme di comportamento: Don’t Feed The Troll, non dare corda al commentatore violento, incivile e vigliacco. Proprio quel che invece Pannella & co. sembrano voler fare da qualche anno in qua, con comportamenti e messaggi che gridano a gran voce ‘sputateci addosso’: una paziente e deliberata opera di allevamento di troll. A che scopo? Beh, i troll tornano utili ogni volta che si serve dimostrare di essere una minoranza minacciata, e non una mini-lobby foraggiata e super-rappresentata in Parlamento.
Poi, dal momento che entro il 2013 si voterà con questa legge elettorale, e che i vertici attuali del PD non danno l’idea di voler comprare lo stesso pacco che si prese Veltroni… in un qualche modo bisogna proporsi alla concorrenza: senza però dare troppo l’aria di offrirsi al migliore offerente. Il giorno che Pannella e compagnia dovessero spiegare l’ennesimo, ormai prevedibile voltafaccia, la folla di linciatori anonimi di questi giorni tornerebbe loro molto utile: un modo per dire ‘Vedete, non siamo noi che ce ne siamo andati, erano loro che non ci sopportavano’. Vabbe’, diciamo che questa è solo una mia teoria.http://leonardo.blogspot.com
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Certi gatti sono più bigi di altri

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Ma voi mettetevi nelle squame del direttore del Giornale, che finalmente aveva trovato la campagna giusta, e probabilmente pregustava di farci prime pagine su prime pagine, Malinconico Dimissioni, Malinconico Vergogna!, Malinconico ancora lì? Gli ozi di Malinconico... più tutti i più vieti giochi di parole che il triste cognome può suggerire al fantasioso titolista, insomma immaginatevi l'eccitazione, l'entusiasmo, il brio col quale si stava apprestando a scrivere per cinquanta giorni in cinquanta diversi modi "chi non ha mai peccato scagli la prima pietra"...


...e invece al primo titolo, Malinconico che fa? Si dimette davvero. E adesso? Ci si ributta su Fini, ovviamente. Le dimissioni che spiazzano Sallusti (e Ferrara) si leggono sull'Unita.it e si commentano là (H1t#108).

Tutta la mia solidarietà allo sfortunato direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, che probabilmente già pregustava una lunga campagna per chiedere le dimissioni del sottosegretario Malinconico: gli è andata male, il sottosegretario si è dimesso subito. Ora toccherà inventarsi qualcos’altro per dimostrare che tutti sono corrotti, tutti sono inquisibili, eccetera. Mal che vada ci si può ributtare sui vecchi classici, per esempio le dimissioni di Gianfranco Fini – è da un po’ che non si sente parlare del suo interessantissimo appartamento a Montecarlo (NB: scherzo. Sul famoso appartamento monegasco Feltri e Sallusti ci fecero prime pagine per un mese, nell’autunno 2010. Bei tempi. Belle notti. Tutti i gatti erano bigi, tutti erano inquisibili, nessuno si dimetteva…)
Un po’ di solidarietà anche per lo sfortunato opinionista di Rai1, Giuliano Ferrara, che ieri sera è andato in onda in uno stato un po’ più confusionale del solito, perlomeno mi è parso così. Dopo averci riassunto l’affaire Malinconico per sommi capi, ci ha spiegato che i giornalisti dovrebbero smetterla di cercare storie del genere e di gioire, addirittura, quando le trovano, perché nessuno è mondo dal peccato(mi sembra che abbia detto proprio detto così), tutti possono fare degli errori, anche il presidente della Repubblica Federale Tedesca ne ha fatti, eccetera eccetera, ci vediamo domani, ah no scusate domani c’è la Champions, boh. Forse Ferrara è semplicemente nei postumi dell’Epifania, la maledetta festa che spazza via le altre e ci lascia soli davanti a un terribile anno nuovo.
O forse è rimasto anche lui spiazzato da questo governo, che fa cose incredibili. Questi sottosegretari, per esempio, che si dimettono per cosucce da nulla, vacanze non pagate, appena i giornalisti se ne accorgono… E a proposito, maledetti giornalisti, ma perché indagano? E addirittura, quando qualcosa salta fuori, gioiscono? Ferrara non se ne capacita, evidentemente secondo lui il giornalismo dovrebbe servire a qualcos’altro. Probabilmente a spiegarci che tutti pecchiamo, come Berlusconi, e quindi non dobbiamo attentarci a scagliare la prima pietra contro il prossimo, che in nove dei dieci casi che interessano a Ferrara è Berlusconi. Ecco, magari ieri pomeriggio Ferrara aveva già pronta una predica di questo tenore. Anche Malinconico si faceva offrire le vacanze, tutti si fanno offrire le vacanze, tutti sono corrotti, anche voi, anche io, e il presidente della Germania Federale, e quindi non prendetevela (con Berlusconi). Poi però Malinconico si è dimesso – e a Ferrara è toccato cambiare la forma della predica in fretta e furia. Non la sostanza, che rimane la stessa: siamo tutti peccatori. Difficile dargli torto. Abbiamo tutti qualcosa negli occhi: chi travi, chi pagliuzze, nessuno ha la vista del tutto sgombra.
Ma non siamo nemmeno del tutto ciechi; perlomeno, la differenza tra l’ultimo governo Berlusconi e quello guidato da Monti la notiamo. Magari non è il governo che vorremmo o voteremmo, ma è un governo decente. Se emergono storie non chiare su di un sottosegretario, quello se ne va senza troppe manfrine. Com’è giusto che sia. Perché forse è vero, di notte tutti i gatti sono bigi. Ma alcuni sono molto più bigi degli altri, più della notte stessa; forse senza di loro tra i piedi si comincerebbe a vedere un po’ d’alba.http://leonardo.blogspot.com
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Lettera a un vecchio Ichino

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Insomma capita che la mia letterina (ina ina) al giovane ichino con la i minuscola abbia fatto il botto sull'Unità. Capita che l'abbia letta anche il professore Ichino con la I maiuscola, che a differenza di Renzi(*) l'Unità la legge ancora. Capita che non vi si sia riconosciuto - e giustamente. E così mi ha risposto, il giuslavorista. Perché di Ichino si possono dire cose brutte, ma se lo tirano in ballo lui risponde. Risponde anche ai bruchi, ai vermi e a me.


E allora io gli ho chiesto scusa. Più o meno. Sull'Unità. (H1t#107). E si commenta là.

Devo le mie scuse al professor Ichino per averlo coinvolto in una polemica superficiale, che in realtà non aveva come obiettivo lui. L’ambiguità era palese sin dal titolo: la mia “Lettera a un giovane ichino”, con la i minuscola, non era indirizzata a lui, ma a un certo tipo di commentatori in cui mi capita spesso di imbattermi su blog e social network, che usano il professore un po’ come bandiera per uno scontro generazionale con la “casta” dei protetti dall’articolo 18. In realtà il titolo originale avrebbe dovuto essere “lettera a un giovane ichiniano”, ma suonava proprio male, o “ichinodulo”, ma non lo avrebbe letto nessuno: e così mi sono permesso il dubbio omaggio di fare del cognome del professore un nome comune. Non mi aspettavo che l’Ichino, con la I mi replicasse sul suo blog, ma questo è un errore mio: continuo a pensare di scrivere per un pubblico di poche centinaia di persone. Invece il mio post è stato ripreso dall’Unità, sei giorni dopo la pubblicazione, e a quel punto ha fatto veramente il giro di Internet. Il professore ha tutto il diritto a non riconoscersi nel “giovane ichino” di cui parlo, e di respingere la caricatura delle sue idee.
Questo non significa che io non abbia diverse riserve su queste idee, di cui magari un’altra volta scriverò, con maggiore cognizione. Confesso subito però che non si tratta di riserve tecniche – non sono un giuslavorista, e come ho anche scritto in quel pezzetto, ritengo che in linea di massima potrebbe anche aver ragione lui. Quello che mi manca per abbracciare l’ichinismo è una grande dose di ottimismo della volontà, che non manca invece al professore, né a tanti suoi difensori. Me ne sono convinto definitivamente leggendo i commenti di molti “giovani ichini”, che mi assicuravano che la flexsecurity avrebbe aumentato i diritti, aumentato i posti di lavoro, trasformato l’Italia in una grande Danimarca eccetera. Anch’io, quando leggo Ichino con la I, devo ammettere che tutto sembra tornare: soltanto, non ci credo.
Non credo che il modello danese sia alla nostra portata, per una serie di parametri culturali e banalmente geografici su cui magari un’altra volta mi dilungherò; non credo che i sussidi di disoccupazione ridurranno gli sprechi – temo viceversa che molti lavoratori (e imprenditori) sommersi ne profitteranno; non credo, per usare le parole del professore, che ai lavoratori oggi privi di tutele verranno davvero estese “le altre protezioni essenziali, secondo i migliori standard internazionali (maternità/paternità, malattia, ferie retribuite)”: suona molto bene, ma purtroppo non ci credo. Non credo che il progetto del professore sarà realizzato nella sua totalità, come quello del povero Biagi prima di lui. Credo invece, da pessimista qual io sono, che la Confindustria avrà buon gioco a far passare le cose che le interessano (libertà di licenziare, non “per capriccio”, ok, ho esagerato: diciamo che basta affermare che altrove si possono fare affari migliori, come Marchionne a Detroit) cassando quelle che la impegnerebbero, visto che gli impegni nei confronti dei lavoratori i nostri industriali proprio non se li sanno prendere; credo che la flexsecurity sarà usata come una bandiera per togliere altre speranze ai giovani – e quasi soltanto ai giovani (anche se Ichino ha ragione, a livello di pensione qualcosa è stato rosicchiato anche ai cinquanta-sessantenni). Insomma, per dialogare alla pari con lo stimato giuslavorista non mi manca soltanto la dottrina, ma soprattutto la fede.
Nella sua risposta Ichino ribadisce che con la flexsecurity i diritti dell’articolo 18 non verranno eliminati, ma estesi: quando però scrissi il pezzetto (il ventun dicembre) non era di estensione dei diritti che si discuteva tra ministro e sindacati, ma di abolizione dell’articolo 18. La polemica poi rientrò, forse per farci passare almeno le feste tranquilli. Stamattina però ci siamo alzati con Libero che titolava “Più assunti solo se aboliamo l’articolo 18″. E dàgli. Però questo non è Ichino, d’accordo, è Belpietro… poi abbiamo scoperto che il governo pensa di sospendere l’articolo 18 per alcune categorie di neoassunti. Ora il professore ha un bel da dire che sospendendo l’articolo in realtà i diritti non diminuiscono, ma aumentano: probabilmente ha un senso, probabilmente se tutto andasse come vuole lui la cosa funzionerebbe.  È interessante tuttavia che si prenda sempre come punto di partenza (o come titolo in prima pagina) l’abolizione dell’articolo, non l’estensione dei diritti. Magari saremo prevenuti; del resto stiamo ancora aspettando di vedere gli ammortizzatori sociali che sarebbero dovuti seguire alla legge Biagi (e al pacchetto Treu). Certo, se è per questo stiamo ancora aspettando pure l’aumento dei posti di lavoro che Treu e Biagi auspicavano. Forse arriverà tutto assieme con la Fornero-Ichino. Forse. In fondo essere ottimisti non costa nulla e migliora l’appetito. Però poi bisogna anche avere qualcosa da mettere sotto i denti.

Devo infine altre scuse al professor Ichino per quello che lui chiama “il colpo basso finale”: l’aver cioè malignamente insinuato che “lui non lo licenzia nessuno”. Ecco, pare che io sia stato ingiusto, pare che anche il professor Ichino abbia vissuto, nel passato, l’esperienza scioccante (ma anche molto stimolante, non lo nego) del licenziamento. O perlomeno, è convinto di essere stato licenziato dal PCI, che nel 1983 gli fece il grosso torto di non riproporlo alle elezioni. Neanche adesso ha la garanzia che il PD lo ricandidi, dice. Sì, ammetto di avere una visione un po’ limitata, basata sulle mie limitate esperienze. Io per licenziamento intendevo quelle situazioni in cui un boss ti chiama e ti fa firmare una letterina, oppure quando lavori per un anno nello stesso posto tutti i giorni e alla fine dell’anno hai firmato quindici contratti diversi, anzi uguali. Per Ichino, invece, essere licenziati è perdere uno spazio sull’Unità senza “neppure un rigo di commiato” (solidarietà), ed essere prontamente ripresi dal Corriere della Sera. Posso capire che dal suo punto di vista un licenziamento non sia insomma una tragedia. Mi resta il dubbio di quanti giornalisti e pubblicisti che in questi giorni stanno temendo per il loro posto possano davvero sperare in un destino simile, ma è soltanto il solito dannato Pessimismo che parla per me. Mi scuso quindi, ho scritto una cosa cattiva. Mi perdonerà se allo stato attuale faccio tuttora fatica a immaginarmi il Corriere della Sera che lo licenzia, ecco. http://leonardo.blogspot.com
(*) via Soncini.
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Monsignori, cacciate la grana

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Stavo per titolare così sull'Unità, ma poi ad Avvenire si mettono a piangere e dicono che c'è un complotto massonico per fare pagare le tasse ai poveri preti, tutta colpa di Francesco Crespi o giù di lì.


L'ICI e i piagnistei dei monsignori (H1t#106) si legge laggiù.

A nessuno piace pagare le tasse: nemmeno ai monsignori, è comprensibile. Così come è comprensibile che sui loro giornali facciano tutto quello che possono per dimostrare l’utilità sociale di possedere canoniche e appartamenti esenti ICI, scuole private con rette cospicue esenti ICI, oratori con benefici statali (legge 206/2003) e così via (e nel frattempo le scuole pubbliche cadono a pezzi, e nei quartieri disagiati mancano centri di aggregazione non confessionali). Ognuno tira l’acqua al suo mulino, e non vi è in Italia un mulino altrettanto antico e nobile di quello della Chiesa cattolica.
Sono meno comprensibili le bugie: questa insistenza a ribadire che la Chiesa l’ICI la paga – e intanto ogni anno mezzo miliardo di euro non entra nelle casse dello Stato: è un miracolo? Ma Gesù i pani e i pesci li moltiplicava, mica li sottraeva. Sono meno comprensibili i piagnistei. L’idea che qualsiasi critica alla Chiesa non possa che essere una calunnia ordita da qualche salotto laicista. Io non so nemmeno com’è fatto, un salotto laicista: in compenso ho vissuto in una parrocchia per vent’anni, mi ci sono trovato molto bene, e proprio per questo ritengo che la Chiesa debba cominciare a pagare le tasse. Con qualche arretrato. Senza bugie squallide e senza piagnistei indegni della sua storia millenaria. Mi addolora che Giuseppe Dalla Torre su Avvenire vada a scomodare “la famigerata legge Crispi del 1890″, come se davvero in Italia non si possa criticare la Chiesa senza far parte di un complotto ottocentesco (immagino anche un po’ massone) quando la realtà è tanto più banale: in questa crisi stiamo tutti pagando tanto, e vorremmo che la Chiesa facesse la sua parte. Né di più né di meno.
Dalla Torre si domanda perché la polemica, “tanto aspra e violenta” (mamma mia), abbia riguardato “solo la Chiesa cattolica”. Certo, potrebbe trattarsi di un complotto laicista che si trascina dal 1890. Oppure la Chiesa potrebbe essere l’obiettivo delle critiche più aspre perché è quella che con le esenzioni ottiene di più: mezzo miliardo, tutti gli anni, senza contare naturalmente otto per mille, cinque per mille, e tante altri generosi aiuti. O dovremmo prendercela con gli avventisti del settimo giorno? Coi sindacati? Vero, anche certe associazioni sindacali ottengono esenzioni. Ma non gestiscono che io sappia scuole private, cliniche private, catene alberghiere. Possono gestire dei doposcuola, questo sì. E – questo è il punto fondamentale – saranno doposcuola aperti anche a chi cattolico non è. Perché a mio parere è questa la vera posta in gioco: il pomeriggio dei ragazzi italiani. Dove possono andare? Cosa possono fare? La parrocchia, l’oratorio, non possono essere le uniche risposte.
Quando due settimane fa mi sono permesso di scrivere questa cosa, ho ricevuto molte risposte critiche(civili, non sdegnate: cerchiamo di abbassare un po’ i toni) da parte di gente che, come me, in parrocchia ci è cresciuta, ma che a differenza di me ci vive ancora e ci fa volontariato. In sostanza mi hanno detto quasi tutti che non esiste apartheid tra ragazzi cattolici o non cattolici, che un musulmano può fare un percorso nell’AGESCI fino in fondo, che nessuno più in oratorio guarda il certificato di battesimo. Sono convinto che in molte realtà sia così. Ma non credo che sia così dappertutto, e non credo nemmeno che sia giusto. I cattolici hanno il diritto di fare apostolato. Non è giusto considerarli dei supplenti dei servizi sociali. Soprattutto se, come i loro esponenti politici non mancano di ricordarci, hanno dei valori non negoziabili che vengono prima delle stesse leggi dello Stato.
Se in un quartiere non c’è un consultorio, non mi posso affidare al consultorio cattolico, perché banalmente per i cattolici certe pratiche legali in Italia equivalgono all’omicidio: e hanno tutto il diritto di pensarla così, ma io ho tutto il diritto di avere nel mio quartiere un consultorio pubblico, pagato con le mie tasse: non voglio pagare le tasse per quello cattolico. E il famigerato Crispi del 1890 in questo problema non c’entra nulla. Se un padre musulmano vuole che suo figlio viva i suoi pomeriggi in un contesto relativamente protetto, ha il diritto che questo genere di contesto gli sia fornito dallo Stato, con le tasse che paga; non dovrebbe doversi fidare dell’oratorio cattolico, delle assicurazioni di un prete (ma voi vi fidereste di un Imam?), e soprattutto non dovrebbe essere costretto a pagare, lui musulmano, per un servizio confessionale. Non è solo ingiusto: c’è qualcosa di empio, in questa situazione, che un uomo di Chiesa dovrebbe capire. Se accanto ai suoi valori non negoziabili ha anche una coscienza.http://leonardo.blogspot.com
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Un', nessun', centomil'

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Forse siete distratti dalla manovra Monti o dalla bozza Ichino o dal solstizio invernale, che ne so: comunque nel mondo vero in questa settimana è successo che Saviano ha sbagliato un apostrofo su Twitter, e da lì è partito un dibattito con Severgnini Riotta e pure lui.


E alla fine insomma anch'io ho scritto cinquemila battute su un apostrofo. Che faccio, mi vergogno? Sull'Unita.it (H1t#105), e si commenta là.

Il 2011 è stato davvero l’anno in cui l’Italia è arrivata su Internet. Sì, d’accordo, alcuni c’erano da vent’anni. Io da dieci, e già mi sento un nonno. Il grosso delle truppe è sbarcato verso il 2009, con Facebook. Ma il 2011 è stato una boa importante. Nel 2011 i vip italiani hanno scoperto Twitter. E da qui in poi non si torna indietro. Nel 2010 Internet lo usavamo ancora per condividere pensieri e foto di gatti con amici e sconosciuti. Nel 2011 ci sediamo comodi e guardiamo Fiorello che litiga con Sabina Guzzanti. È internet, la cosa di cui tutti parlano in tv. Fino all’anno scorso succedeva l’esatto contrario.
Il 2011 è stato l’anno in cui abbiamo visto certe dinamiche tipicamente internettiane trasferirsi sui quotidiani. Per esempio: un dibattito sull’apostrofo. Ecco, chi bazzica soprattutto Facebook e si è fatta l’idea di Internet come di un club di bimbominkia forse non lo immagina, ma ci sono luoghi su internet dove se sbagli un apostrofo ti massacrano; i grammar nazis (“nazisti della grammatica”) hanno molta meno pietà di chi la grammatica la studia e la insegna. In molti casi sono semplicemente dei troll, disturbatori che attaccano l’errore per distogliere l’attenzione sui contenuti di una discussione. Alcuni sono molesti, altri perfino benigni: ci aiutano a conservare la concentrazione, a non sottovalutare la grammatica.
Da qualche giorno i Grammar Nazis sono approdati su un quotidiano nazionale. Sul GiornaleAlessandro Gnocchi ha attirato l’attenzione su Roberto Saviano che, udite udite, osa scrivere “qual” con l’apostrofo. È sbagliato, no? Se ne è discusso su Twitter, con ospiti di eccezione come Beppe Severgnini e Gianni Riotta. Questo può anche servire a darci un’idea di cosa ci attende nel nostro futuro deberlusconizzato: di cosa parleremo quando non potremo più parlare di Lui? Di infinite cose, per esempio di dove mette gli apostrofi Roberto Saviano.
Quest’ultimo, dopo una consultazione popolare, forte dei nobili precedenti di Pirandello e Landolfi, ha concluso che non è un errore, e che continuerà a scrivere “qual” con l’apostrofo. E questo, Gnocchi, non lo può assolutamente consentire. Bisogna dire che qualche ragione ce l’ha: penso di poterlo dire con cognizione di causa, visto che la grammatica la insegno, e di manuali ne ho sfogliati parecchi. Non concordano sempre su tutto, ma l’apostrofo su “qual” è unanimemente rigettato, di solito in una delle prime pagine, che i ragazzini studiano e si dimenticano immediatamente. L’apostrofo su “qual” rimane infatti uno degli errori più gettonati fino all’esame di licenza media: oltre non vado, ma ho il sospetto che molti continuino ad apostrofare anche al ginnasio e al liceo. Secondo Gnocchi un giornalista che avesse fatto lo stesso errore sarebbe stato licenziato in tronco. E a me viene un po’ da ridere, mentre penso a quante volte ho trovato apostrofi del genere in tutti i quotidiani che mi è capitato di leggere: magari non nel “Giornale”, ma solo perché lo leggo davvero molto poco. Fa sorridere pure Severgnini, che da un apostrofo deduce che Saviano i tweet se li scrive da solo, senza ufficio stampa: come se li sapessero maneggiare davvero così bene, gli apostrofi, gli uffici stampa.
Insomma l’argomento di Gnocchi si può tranquillamente rovesciare: non è che un errore del genere si perdona soltanto a Saviano. L’apostrofo su “qual” è qual tipo di errore che commettono tutti nell’indifferenza generale, fin quando non ci casca, appunto, Roberto Saviano, con tutto il fardello di polemiche letterarie ed extraletterarie che si trascina con sé. Per gli altri scrittori i cecchini nazi grammar non perdono neanche tempo ad appostarsi: se qualche altro autore sbaglia un apostrofo, la colpa è sempre del correttore di bozze.
Quanto a me, devo confessare una certa stanchezza. Se penso agli errori dei miei compagni di internet, l’apostrofo di “qual” mi sembra uno dei meno importanti: non influenza in nessun modo la ricezione del contenuto, al massimo distrae chi ha la deformazione professionale del correttore. Se dipendesse da me, preferirei che internauti e giornalisti curassero più la punteggiatura, senza la quale persino un breve tweet a volte diventa ambiguo o incomprensibile.
Come insegnante naturalmente continuo a correggerlo, quell’apostrofo: a cancellarlo e a farlo notare con vigorosi segni di penna rossa, anche se ho la sensazione di sprecare tempo che dovrei dedicare a correggere errori più interessanti. Come appassionato di fatti linguistici invece mi sento di poterlo dire: quella regola è spacciata, non sopravviverà a un’altra generazione di utenti di internet. Se davvero continueremo a scrivere così tanto (il che per quanto mi riguarda è una buona notizia), ci sono fatiche mentali che presto o tardi rimuoveremo, come quella di dover distinguere ogni volta tra “quell’” con l’apostrofo e “qual” senza. E presto o tardi anche l’orribile “pò” senza apostrofo e con l’accento entrerà sui dizionari – dopo essere passato attraverso i quotidiani, che non ce ne hanno mai veramente fatti mancare. La lingua cambia un po’ ogni giorno; i grammatici lo sanno e presto o tardi si adeguano. Può sorprendere il fatto che alcuni dei più accaniti conservatori resistano proprio su internet. Ma chi ci bazzica già da qualche tempo lo sa: è la jungla ideale per qualsiasi giapponese ancora in attesa di ordini dall’imperatore Hirohito. Anzi, in certi contesti la regola più apprezzata è proprio la più inutile e astrusa: nel momento in cui i network sono diventati “sociali”, è diventato fondamentale dimostrare di saper stare in società. Più che filologia, si tratta di galateo: disporre gli accenti come le posate in tavola. Inutile chiedersi perché qui no e lì sì: sarebbe come chiedersi il motivo della forchetta dell’insalata (e comunque alle elementari tutti questi perché non ce li fornivano)… http://leonardo.blogspot.com
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Vi rifaccio Benito?

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Berlusconi ha detto di nuovo che sta leggendo i diari di Mussolini. Al di là di ogni dibattito sull'autenticità, quei diari han da essere una vera palla: è da un anno e mezzo che dice che li sta leggendo, ci hanno messo meno tempo a scriverli.



E insomma, lui racconta sempre le stesse storielle, io riciclo i vecchi pezzi. Dovrei aggiungere qualcosa? Anzi, ho tolto parecchio. Il Mussolini triste sul comodino di Silvio B. è sull'Unità.it.

«Sto leggendo i diari di Mussolini e le lettere della Petacci, e devo dire che mi ritrovo in molte situazioni. Anche con le lettere della Petacci», dice l’ex premier, che ricorda come Mussolini si lamentasse del fatto di non potere neppure raccomandare una persona. «Che democrazia è questa?», si chiedeva Mussolini. E infatti, fanno notare a Berlusconi, non era una democrazia quella di Mussolini. «Beh, era una democrazia minore», aggiunge Berlusconi.
Più che indignare fa tristezza, Berlusconi che si paragona a Mussolini; se non altro perché si ripete, e forse nemmeno se ne accorge. I (finti) diari del duce, per esempio, li stava già leggendo nel maggio del 2010, quando erano ancora inediti nelle mani di Dell’Utri. Insomma la lettura non è che stia proprio procedendo spedita. L’altra ipotesi è che i diari siano diventati il suo livre de chevet: li tiene sul comodino e ogni sera ne rilegge un po’. Devono avere ormai soppiantato la sua antica passione, l’erasmiano Elogio della Follia.
Il fatto che all’ironia e al vitalismo di Erasmo sia subentrata la stanchezza di uno Pseudo-Benito, che contempla lo sfascio della sua nazione e non riesce nemmeno a raccomandare un’amica, ci dice molte cose: e nessuna di queste cose riguarda Mussolini, che quei diari non li ha mai scritti. Il duce è ormai un mito più patetico che tragico: il grande uomo (tanto buono) che si prende sulle spalle la responsabilità di una nazione, ma nonostante i titanici sforzi non riesce a spostarla di un passo. Né lo Pseudo-Benito né il vero Silvio sono verosimili, quando confessano la loro impotenza: entrambi potevano fare e disfare ministeri, godevano di consenso popolare, controllavano i mezzi d’informazione. Eppure non ce l’hanno fatta: l’Italia è un corpo inerte che non si lascia possedere. Perlomeno, il finto Benito e il vero Silvio la pensano così. Il primo illumina il secondo di una luce crepuscolare: il Berlusconi che legge lo Pseudo-Benito è un potente affaticato, esaurito, che cerca nei fallimenti degli uomini illustri una consolazione ai propri, e si domanda cosa resterà di lui. http://leonardo.blogspot.com
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La tartaruga non ha visto niente

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Quasi scordavo di segnalare la teoria di ieri, scritta a caldo, su questo fenomeno strano per cui se un attivista di destra, che scrive cose di destra su siti di destra, frequenta centri sociali di destra, improvvisamente apre il fuoco su dei senegalesi, ecco, in quell'esatto momento smette di essere di destra, le cose che ha scritto le ha scritte a titolo personale e sul sito di Casapound le cancellano immediatamente.


Ritirata strategica, camerati. Sei fascista solo se ti beccano (H1t#103) è sull'Unita.it, si commenta là.

Quando tre anni fa Nicola Tommasoli fu ammazzato, in una via di Verona, da quattro ragazzi che indossavano bomber neri, che andavano ai cortei di Forza Nuova, che alla domenica erano spesso in curva, accadde un fenomeno piuttosto curioso. Si scoprì che non erano di destra. Il sindaco Tosi affermò che la politica non c’entrava niente, il presidente della Camera Fini ammise che forse la politica poteva entrarci un po’, ma che a Torino quello stesso giorno a un corteo di sinistra avevano bruciato una bandierina d’Israele e questo era ugualmente grave, uno a uno palla al centro. Il coordinatore di Forza Nuova negò. Il Fronte Veneto Skinheads si dissociò, insomma quei quattro ragazzi che si vestivano come ragazzi di destra, che frequentavano ritrovi di destra, che menavano i capelloni come da decenni usano fare i ragazzi veronesi di destra… improvvisamente nessuno li conosceva più. Smisero di essere di destra nell’attimo esatto in cui furono beccati.
Ieri, nel momento esatto in cui Gianluca Casseri – che frequentava gruppi di destra, che scriveva cose di destra – l’ha fatta finita, a Casa Pound improvvisamente si sono dimenticati di lui. Non lo avevano mai conosciuto. Nel giro di pochi minuti sul sito della Casa non c’erano più i suoi lunghi articoli, deliri molto dettagliati, che ricordano per certi versi il testamento di Breivik. C’è da dire che Breivik nella scelta del luogo e del momento ha rivelato una lucidità ben più spaventosa di Casseri, che si è limitato a sparare nel mucchio. Però non era un matto: sapeva scrivere ed era molto apprezzato a Casa Pound. Dove c’è gente svelta, se non ad agire perlomeno a cancellare.
E insomma circolare, non c’è niente da vedere: si tratta solo di aspettare la prossima bandierina bruciacchiata, la prossima vetrina scheggiata, la prossima orda di editoriali accigliati sull’emergenza terrorismo, sulle nuove BR che senz’altro stanno nascendo nei pericolosi centri sociali di estrema sinistra.  http://leonardo.blogspot.com
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Ce ne vogliamo almeno andare dall'Afganistan?

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Ok, sembra proprio che quei diciotto miliardi in cacciabombardieri ci tocchi spenderli. Però non è vero che non si possa fare proprio nessun taglio. L'Afganistan, per esempio.
Loro a un certo punto se ne sono andati. Dovremmo esserne capaci anche noi. Sull'Unità (h1t#102), anzi, comunita.it, vi imploro non fate troppo caso alla foto del pirla.

Sarà una crisi di crescita: se non economica perlomeno morale. Diventeremo tutti un po’ più adulti, ci sta già succedendo. Per esempio, siamo già passati nel giro di poche settimane da popolo di Commissari Tecnici della Nazionale a popolo di Ministri dell’Economia: abbiamo tutti qualche rilievo da fare alla manovra Monti, abbiamo tutti critiche costruttive e competenti. Mi piace pensare che sia un progresso; un anno fa passavamo il tempo a chiacchierare delle Olgettine. Ora invece su Facebook scopriamo che il governo potrebbe far cassa semplicemente sospendendo l’acquisto di 131 cacciabombardieri per un totale di diciotto (o tredici) miliardi di euro: più o meno mezza manovra, quanto basta per rimettere in sicurezza i pensionati. A un certo punto l’appello è stato raccolto da Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell’IdV – a proposito, secondo me non è così che dovrebbe funzionare, la politica sui social network. Piuttosto il contrario: i leader politici dovrebbero cercare di servirsi dei social network per far conoscere e diffondere le proprie idee: invece in questo caso l’idea ce l’ha messa facebook, Donadi l’ha presa da lì ed è andata a diffonderla in parlamento. C’è da stupire che poi i conti non tornino?
Comunque è sempre meglio che parlare di Ruby Rubacuori: adesso sappiamo (anche grazie alla discussione che è nata in rete, soprattutto sul blog Noise From Amerika, a cui ha contribuito con molta franchezza lo stesso Donadi) che sì, quei 131 cacciabombardieri li compreremo davvero, e ci costeranno davvero almeno 13 miliardi… ma spalmati in un intervallo di tempo che va dal 2013 al 2026. Se anche decidessimo di annullare la commessa (i nostri Tornado sono comunque ormai mezzi obsoleti), il risparmio sarebbe dunque relativo. Il discorso a questo punto dovrebbe spostarsi sulla nostra spesa militare: ha un senso che una nazione senza nemici dichiarati, inserita stabilmente in un sistema di alleanze militari e politiche, continui ad armarsi così? Ma quanto si sta armando l’Italia? È veramente difficile da calcolare:però almeno se ne può parlare serenamente, ora che non siamo più distratti dalle scenette dell’ex ministro La Russa.
Io devo dire che sono un po’ in affanno: fino a due settimane fa bastava abbaiare un po’ contro Berlusconi e il pezzo era pronto. Invece adesso bisogna fare conti, interpretare tabelle, non credo di essere la persona adatta. Ho solo una modestissima proposta: non mi azzardo assolutamente a quantificare il risparmio che ne deriverebbe, ma per me varrebbe la pena in ogni caso. Quand’è che ce ne andiamo dall’Afganistan?
Siamo arrivati lì nel 2003, senza davvero volerlo (fu una delle decisioni meno popolari del secondo governo Berlusconi). La guerra, appena dichiarata finita e vinta dal commander in chief Bush, in realtà è proseguita a bassa intensità per tutti questi anni, più o meno come ai vecchi tempi delle “pacificazioni” coloniali. Abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo fugato col nostro atto di presenza la sensazione che l’occupazione dell’Afganistan fosse un gesto unilaterale del gigante americano ferito dall’11 settembre. Abbiamo avuto una quarantina di perdite. Ci siamo invischiati in una situazione tutt’altro che chiara: tra Pakistan e Nato in questi anni sono successe cose che soltanto gli storici della prossima generazione riusciranno a vedere con chiarezza. Magari nel frattempo avremo anche fatto qualcosa di buono, non lo so, non è di questo che si parla adesso. Ora dobbiamo semplicemente chiederci: vale la pena di restare?Possiamo davvero permetterci di aiutare gli afgani, mentre in Europa a chiedere aiuto siamo noi?
Alla conferenza internazionale sull’Afganistan, che si è appena tenuta a Bonn, il ministro Terzi ha riaffermato che nei prossimi dieci anni non lasceremo l’Asia centrale. Ridurremo soltanto il nostro contingente, che in questo momento ammonta a 4200 unità, man mano i reparti locali che addestriamo diventeranno operativi. Speriamo soltanto che non diventino operativi contro di noi (non sarebbe la prima volta). Terzi ci ha anche spiegato che negli ultimi dieci anni (in realtà un po’ meno) abbiamo “impegnato 570 milioni di dollari in cooperazione allo sviluppo e interventi umanitari”: forse il margine per risparmiare qualcosa c’è. Più che lamentarsi con Terzi, che nella democratizzazione dell’Afganistan mostra di crederci ancora seriamente, bisogna rivolgersi con franchezza ai leader del PD: nei primi mesi del nuovo anno si voterà, presumibilmente, il rifinanziamento della missione. In tutti questi anni il PD, sia quand’era al governo sia quando preferiva l’opposizione, ha sempre votato responsabilmente. Adesso si tratta semplicemente di individuare qual è la scelta più responsabile: continuare a sostenere il regime di Karzai, o salutare, ringraziare americani e altri alleati per la bella occasione che ci è stata offerta di aiutarli a salvare il mondo, e riportare i ragazzi a casa? http://leonardo.blogspot.com
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101 teorie

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Ed eccoci qua. Ormai sono due anni che scrivo all'Unità, e in effetti non mi ero ancora presentato.


(È che detesto l'autoreferenzialità, sapete). La teoria numero centouno è sul mio nuovo blog sull'Unità (Sì! Abbiamo cambiato di nuovo la piattaforma! E per ora wordpress mi taglia le immagini! Ma il peggio è passato).

Come avrete notato, qui sopra è cambiato qualcosa – ogni tanto succede. Nel gergo dei blog si chiama “cambio di piattaforma”, io da quando scrivo sull’Unita.it ne ho cambiate già tre – a proposito, da quando scrivo sull’Unita? Ormai sono due anni, ho iniziato nel dicembre 2009. E siccome la settimana scorsa ho pubblicato il post numero 100, ne approfitto per festeggiare parlando un po’ di me. Lo so che è una cosa imbarazzante, ma i blog lo fanno (anzi qualcuno dice che non facciano altro).
A volte diventa quasi indispensabile. Me ne sono accorto una volta mentre leggevo i commenti (sì, li leggo, tutti. E cancello solo i doppioni e le parolacce, neanche tutte). Sotto a non mi ricordo più quale fondamentale riflessione, c’era un lettore che diceva qualcosa del tipo: ‘interessante, però scusa, tu chi sei?’ Dove il “chi sei” si può leggere in tanti modi: chi sei tu per dire una cosa del genere? Hai un qualche tipo di autorità, hai studiato l’argomento, hai titoli, un curriculum qualunque? La risposta a queste domande in generale è no: non sono un esperto di niente. Se non avevate mai sentito parlare di me è perché io in buona sostanza sono un insegnante di scuola media con l’hobby della scrittura on line, tutto qui. E quindi, insomma, con che titolo mi metto a parlare di Berlusconi o di scuola media o di qualsiasi altro argomento?
Con nessun titolo, appunto. Per molti anni non mi sono nemmeno firmato col cognome, cosa di cui molti mi rimproveravano (la querelle tra anonimi e cognomi va avanti da sempre). In realtà quando alla fine scoprivano come mi chiamavo spesso ci rimanevano male, perché non corrispondeva appunto a nessuna persona di qualche importanza: e insomma avevano perso tempo a polemizzare con uno sconosciuto, credendo che magari dietro il nick ci fosse chissà chi. Le cose che scrivevo erano più interessanti della persona che le scriveva.
Ho sempre pensato che le cose avrebbero dovuto restare così: non chiedetevi se chi scrive è un esperto, leggete soltanto se trovate che ci sia qualcosa di interessante. Se parlo di scuola, è perché ci vado quasi tutte le mattine. Se parlo di Berlusconi è perché anche lui in un qualche modo fa parte della mia esperienza quotidiana da venti e più anni; credo che dopo averlo subito per così tanto tempo il minimo che ci meritiamo tutti è una laurea in berlusconologia ad honorem. Se parlo di qualsiasi altro argomento, ne parlo da dilettante: cerco di partire da dati oggettivi, osservazioni condivise; ci costruisco una teoria, il più possibile originale, qualcosa che ritengo non sia già stata scritta da qualcun altro sullo stesso argomento; e voi siete liberi di scannarmi nei commenti. Per inciso, all’inizio il blog (non era nemmeno un blog, era ancora una rubrica) si chiamava proprio “ho una teoria”, una specie di tormentone che mi capita di usare spesso, anche in modo involontario. È tutto quello che ho: teorie. Il più delle volte non reggono al collaudo, però restano interessanti. Cesare Buquicchio (che non smetto di ringraziare) invece mi aveva proposto di chiamarlo “Spero di sbagliarmi”, un’altra mia frase ricorrente, ma mi sembrava che rivelasse un po’ troppo di me. Sì, sono una persona fondamentalmente pessimista, che spesso teorizza catastrofi e poi aggiunge in calce, a mo’ di scusa, che spera di sbagliarsi. Qualche volta fortunatamente mi sbaglio davvero, anzi stavo quasi pensando di andare a contare la percentuale di errori nei 100 post che ho scritto, ma è un lavoraccio (e i primissimi sono un po’ difficili da reperire: comunque questo è il primo. È la risposta a un giornalista che si lamenta, ehm, dei commentatori che scrivono parolacce).
Quel lettore che mi chiese “chi sei”, magari aveva soltanto voglia di trovare o leggere altre cose mie. Anche questo è legittimo. Nella nuova piattaforma trovate foto e biografia minima. La foto è un’altra cosa che per molti anni non ho sopportato di vedere sopra le cose che scrivevo. Anche adesso mi dà un certo fastidio, in generale bisogna mostrarsi sereni e sorridenti, poi magari se frana una montagna è molto difficile riuscire a scrivere qualcosa di intelligente sotto un sorrisetto idiota (giusto ieri sul mio twit c’erano un paio di facciotte di opinionisti sorridenti che discettavano di suicidio assistito). Magari troverò una smorfia più seria. Comunque quello lì sono proprio io, senza occhiali. Se c’è una parola che mi dà fastidio è “cattocomunista”, ma forse è lo stesso fastidio che provo per la mia foto o la mia voce registrata, visto che io davvero sono nato cattolico e sono cresciuto un po’ materialista dialettico, e ho fatto in tempo, se non a conoscere Dossetti, almeno a stringergli la mano. Sono cresciuto e sto invecchiando nella provincia di Modena, nel famoso triangolo rosso; salvo che la mia era una famiglia di bianchi, a parte il nonno materno che leggeva l’Unità. In casa nostra invece passammo dal Resto del Carlino alla Repubblica mi pare verso il 1985, anche grazie all’inserto di vignette che si chiama Satyricon. Conservo da allora una deferente ammirazione per Scalfari, ma anche per Disegni e Caviglia. Sono stato scout cattolico dai lupetti fino a Capo-Reparto, più o meno come Matteo Renzi. Poi mi sono un po’ perso e adesso avrei qualche difficoltà a definirmi cattolico, anche se la storia del cristianesimo rimane uno dei miei hobby (da qualche tempo scrivo anche un blog sulle vite dei santi, dove nei commenti mi danno alternativamente del baciapile e del mangiapreti, è stimolante).
Mi sono laureato in Lettere, come milioni di altri umanisti frustrati, nel ’98, ma in un qualche modo mi sono messo subito a lavorare e, grazie anche a qualche sana botta di fortuna, non ho più smesso. Però sono un’eccezione; non fate come me, non laureatevi in lettere. Nel 2001, lavorando in un ufficio dove ero connesso per 8 ore al giorno, aprii un blog quasi per caso. Alcuni blog italiani esistevano già, ma in seguito hanno chiuso: il mio è uno dei più vecchi, e, a causa della mia verbosità, probabilmente uno dei più lunghi in assoluto. Secondo me ormai ho superato la Bibbia, anche se mi manca la forza di controllare.
Quando ci fu il g8 di Genova cercai di fare col blog quello che adesso tutti provano a fare con twitter, finché la polizia non troncò il cavo del mediacenter delle scuole Diaz e il resto della cronaca dovetti pubblicarmela da casa. È stata l’unica cosa vagamente giornalistica che ho fatto, perché io in realtà arrivo al blog da un percorso di scrittore frustrato. Alcuni pezzi che ho scritto sono stati raccolti in un volumetto che si chiama Storia d’Italia a rovescio (2006-2002), pubblicato da una casa editrice che ha chiuso i battenti immediatamente dopo. Ho anche scritto un libro serio, sull’unico argomento di cui sono un esperto, non scherzo, a livello mondiale: il futurismo letterario.
Veniamo alla politica, visto che è la cosa su cui di solito si litiga qui. Dunque io sono antiberlusconiano, come s’è capito: non credo che Berlusconi sia la fonte di ogni guaio dell’Italia, ma ne è un sintomo enorme, di cui non dobbiamo smettere di occuparci. Credo di essere stato antiberlusconiano ancora prima che Berlusconi scendesse in politica, forse ancora prima di captare Canale 5, può darsi che sarei stato antiberlusconiano anche in assenza di Berlusconi. Lo ero per vari motivi, a partire dalla violenza con cui interrompeva i cartoni animati per mostrare assurde pubblicità di bambole in rosa, il cui edonismo non condividevo. Ho odiato Craxi e il pentapartito di un odio che oggi faccio un po’ fatica a rievocare. Negli anni Novanta sono stato prodiano, avete presente quelli che dopo dieci anni ancora non perdonano Bertinotti (e Vendola) di aver fatto cadere il Prodi I, ecco, io sono uno di quelli. E ovviamente ce l’avevo con D’Alema, le sue barche, le sue bicamerali, il suoi calcoli astuti sempre sbagliati, eccetera. È buffo che adesso i lettori mi diano del dalemiano. Ma forse hanno ragione, e più che buffo è triste.
Durante e dopo il G8 mi sono trovato in una posizione abbastanza barricadera. Mi è capitato diraccogliere firme per la Tobin Tax, mentre confluivo nel Correntone e subivo (come tanti) l’infatuazione per Cofferati. A un certo punto, che non è chiaro nemmeno a me, devo aver ridimensionato di parecchio l’orizzonte delle attese, perché mi sono ritrovato a sperare nel secondo avvento di Prodi, e a soffrire molto per il suo governo nato zoppo. Veltroni, con tutta la sua valigia di sogni, mi ha sempre lasciato un po’ freddo, ma a un certo punto pensai che fosse un problema mio, che invece poteva essere l’uomo giusto per rilanciare un qualsiasi centrosinistra (però alle primarie votai Rosy Bindi). Sono diventato un antiveltroniano cocciuto quando mi sono reso conto che il problema non era soltanto mio, che l’uomo non riusciva a entusiasmare quasi nessuno. Alle ultime primarie votai Bersani e devo dire che non mi sono pentito, anche se in questi giorni mi è tornata in mente una cosa che avevo scritto un anno fa all’indomani di un insuccesso elettorale alle amministrative: “Bersani ha trenta mesi per mostrare che il suo partito non vuole cambiar pagina solo a parole. Siccome altri test elettorali per lui non ci saranno, e questo è stato deludente, forse è il caso di pensare a un altro turno di primarie nel giro di due anni. Se avrà fatto un buon lavoro sarà riconfermato”. In questa cosa ci credo ancora: invece non capisco perché dovremmo perdere tempo a fare primarie di coalizione, come se il problema sia decidere se il leader della coalizione è Bersani o Vendola. No, secondo me Renzi, o chiunque altro abbia un’idea del PD diversa da proporre, dovrebbe proporla agli elettori del PD, confrontarsi con Bersani, e lasciare che gli elettori del PD decidano. La butto lì, diciamo che è la teoria di uno che non ha nessuna voce in capitolo, nessun accesso a nessun retroscena, e non rappresenta altri che sé stesso. La mia teoria numero 101. Alla prossima settimana. http://leonardo.blogspot.com
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Il grande discorso che non ascolteremo

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Sempre a proposito di scrittori mediocri: Ferrara si è arrabbiato. Ferrara ha scoperto che intorno a Berlusconi c'è una classe dirigente penosa. Nel 2011. Se n'è accorto. Perché hanno stracciato il discorsetto che aveva preparato per Berlusconi alla Camera, chissà quale capolavoro ci hanno impedito di ascoltare. E lui si è arrabbiato. Con chi? Con Gianni Letta? No, macché.


Con Sandro Bondi. Le vere eminenze grigie dietro Berlisconi devono avergli detto "lascia perdere il panzone, si è intestardito con questa idea delle elezioni in inverno che non convengono davvero a nessuno", e Ferrara con chi va a prendersela? Con Sandro Bondi. Come il servo bastonato che esce nell'aja e molla due calci al cagnolino, siamo a questi livelli, popolo delle Libertà.

E io ci ho scritto una teoria sull'Unità, ed è la Teoria Numero Cento! Sempre a proposito di scrittori mediocri (ma costanti).
(Si commenta laggiù).

L'inutilità di Giuliano Ferrara


leonardo
Ma quanto ci è rimasto male Giuliano Ferrara, perché Berlusconi alla Camera non ha letto il suo discorso? È da due giorni che sbraita, ma contro chi esattamente? Già, perché ci dev'essere pure qualcuno che ha convinto Berlusconi a lasciar perdere, a non chiedere lo scioglimento delle camere proprio mentre annunciava di votare per il prolungamento della legislatura; insomma a non leggere un discorso da matto ('Voto Monti ma Monti non è democratico'), che avrebbe certificato in sede parlamentare e in diretta tv la sua dissociazione dalla realtà. E dire che a fare la sua figura da matto Berlusconi era già pronto: addirittura lo aveva già annunciato su facebook... Poi qualcuno (qualcuno abbastanza in alto, evidentemente) lo ha convinto a tacere, a mandare avanti Alfano. E Ferrara non ci ha visto più, ora se la prende con tutti – che è un modo come un altro per non prendersela con nessuno di preciso. Ieri mattina raddoppiava la dose addirittura contro Bondi, il mite Bondi, l'Orfeo di Fivizzano; ecco con chi si scaglia Giuliano Ferrara: sempre col più debole. E cosa non gli scrive:

Avete condotto al disastro una grande avventura politica (perché non hanno fatto leggere a Berlusconi un discorso di Ferrara...) “e alla fine avete anche ammazzato, imbavagliandolo, il suo e vostro padre, Berlusconi” (non facendogli leggere un intervento suicida di Ferrara). “Non siete una classe dirigente” (le classi dirigenti infatti tengono in gran conto la retorica di Ferrara). “Non leggete i libri e i giornali e i documenti giusti” (quelli che legge e scrive, par di capire, Giuliano Ferrara), “non leggete la realtà che confligge con la vostra vanità” (e non con la vanità del grande speechwriter Giuliano Ferrara), “siete stati ineffettuali e autoreferenziali” (invece di riferirvi a Giuliano Ferrara), non sentite il peso della opinione popolare (le masse che per esempio non si perdono una puntata della popolare trasmissione in prima serata di Giuliano Ferrara) “e non sapete trattare le élite” (Ferrara e i suoi quindici lettori paganti), “vi siete comportati da isterici in difetto di volontà” (e ve lo dice un tranquillissimo Giuliano Ferrara...)

Cose del genere si possono scrivere giusto a Bondi, l'unico forse non abbastanza dotato di spirito per rispondere a tono: caro Ferrara, il tuo discorso Berlusconi non l'ha letto perché probabilmente era un discorso da matto. Votare un governo e nel frattempo chiedere lo scioglimento delle Camere è un paradosso che solo i quindici lettori paganti del Foglio possono apprezzare, ma appunto, parliamo di gente che paga per leggere il Foglio. Magari il motivo è perfino più banale: magari era semplicemente un brutto discorso, visto che l'hai scritto tu che – rassegnati – non sei un buon scrittore; puoi inserire qualche vocabolo astruso ogni tanto e strascicare qualche periodo oltre il normale, ma da sciatto a prolisso non c'è tutto quel salto di qualità che ti immagini. Non sei un grande speechwriter all'americana, non lo sei mai stato; perfino i migliori discorsi di Berlusconi, sì, non erano un granché; e comunque non li hai scritti tu.

Così come non sei nemmeno quel grande stratega: hai avuto qualche importanza nella primissima fase di Forza Italia, quando Berlusconi appena insediato ti fece ministro: pochi mesi dopo era già dimissionario e tu esaurito in clinica. Da lì in poi sei rimasto nella cerchia dei simpatici confidenti; lui ha intestato a sua moglie il tuo giornaletto e ogni tanto magari ti chiedeva un consiglio, ma è una questione di cortesia, lui ha sempre fatto fatica a dire di no, magari ti ascoltava anche, ma se è per questo ascoltava pure Mara Carfagna - perché, sul serio credi di avere avuto, negli ultimi dieci anni di berlusconismo, una posizione più centrale di quella di Mara Carfagna? Tu volevi una moratoria contro l'aborto, la Carfagna pretendeva che le lucciole in tangenziale almeno si coprissero, non c'è davvero gara su chi sia stato più pragmatico, su chi si abbia cambiato le cose anche di un solo millimetro. Ti sei inventato la storia della fronda, per giustificare il fatto che Berlusconi non ti dava retta e probabilmente non ti leggeva neanche più; ti sei lanciato in avventure tutte tue, il neoconservatorismo, l'antiabortismo, alle elezioni pensavi di essere decisivo e invece si scoprì che valevi zero virgola; e il bello è che lui lo sapeva, Ferrara, lui di politica ne capiva un po' più di te.

La misura di quanto il Capo stia male, circondato ormai da gente dissociata quanto o più di lui, non sta tanto nella qualità delle ultime barzellette o nella statura delle accompagnatrici, ma nel fatto che abbia ripreso a dare un po' retta pure a te, o Giuliano Ferrara. In questi mesi non facevi che esaltare lo spirito del '94, come se il Berlusconi monopolista del '94 fosse in qualche modo diverso di adesso: quando l'unica differenza che hai davvero in mente è che nel '94 i tuoi consigli li seguiva. E non sei mai contento: ti pagava il giornaletto, tu volevi un posto in tv; hai piagnucolato finché non hai ottenuto la prima serata. Non basta, non basta mai: volevi pure la gorgiera da ciambellano, lo zucchetto da eminenza grigia; volevi che leggesse alla Camera la tua letterina contro Sarkozy cattivo, la BCE cattiva, Monti antidemocratico. Come se davvero qualcuno fosse ansioso di andare alle elezioni a Natale, come hai annunciato tu in diretta tv – ma sei sicuro che al tuo Capo convenga? Hai fatto sondaggi, o è come quella volta che pensavi di fare il sette per cento con la lista pazza e sei rimasto a quota zero virgola zero?

Dopodiché, non è che hai tutti i torti: quella intorno a Berlusconi non è una classe dirigente, basti pensare che tra loro alberga uno zero virgola della strategia politica come Giuliano Ferrara. Non leggono i libri e i giornali giusti: perdono ancora tempo con le versioncine malcopiate di Giuliano Ferrara. Non leggono la verità, che confligge con la smisurata vanità di primedonne tronfie come Giuliano Ferrara; non sentono il peso dell'opinione popolare, che appena vede Zero Virgola Ferrara cambia canale; quanto alle élites, c'è un grosso equivoco: credono che sia il fumoso club dei vecchietti che parlano strano, come Giuliano Ferrara. E in generale si comportano da isterici, basta vedere... quel giornalista grosso che c'è in tv, come si chiama... Ecco, io gli avrei risposto così. Meno male che non faccio lo speechwriter di Bondi. http://leonardo.blogspot.com
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Il peggio è che lo rimpiangeremo

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Che bello! Si è dimesso! La guerra è finita, quindi, no? No?



No, anzi, mi sa che tra un po' lo rimpiangeremo. Almeno è scritto sull'Unità (H1t#99), e si commenta là.


Rimpiangeremo Berlusconi? Non lo so. Quel che si può dire oggi è che forse siamo un po' troppo ansiosi di seppellirlo. Io non credo che le sue dimissioni sanciscano la sua morte politica, anzi potrebbero davvero rappresentare un rilancio: l'uomo stanco e prostrato dal bungabunga e dalla compravendita di parlamentari può ora riciclarsi come l'uomo del popolo contro i complotti dei banchieri mondiali. Su questa linea perlomeno Ferrara Sallusti e compagnia cantante si sono già sintonizzati: ed è una linea insidiosa, perché al complotto antidemocratico della finanza hanno voglia di credere anche molti telespettatori di Santoro, diversi elettori di PD, IdV, 5Stelle, persino di Sinistra e Libertà, oltre agli astensionisti di centro e di destra che con un po' di impegno e di populismo Berlusconi potrebbe recuperare nei prossimi mesi. Insomma l'uomo è tutt'altro che spacciato, e se è stanco può ancora trovare un suo degno erede tra i fedelissimi del suo partito o della sua famiglia o delle sue aziende – non che faccia molta differenza ormai. È Mediaset, soprattutto, che non può permettersi una sconfitta politica, e non si arrenderà senza combattere con ogni risorsa a sua disposizione, anche se forse non ricandiderà più il capofamiglia stanco e screditato.

L'eventuale fine di Berlusconi, quindi, non corrisponde alla fine del berlusconismo. Ma resta un dato importante: per lunghi anni abbiamo temuto, irrazionalmente, che sarebbe durato in eterno, che ci avrebbe seppelliti tutti. Non è andata così, ed è valsa senz'altro la pena di festeggiare. Ma da oggi ricominceremo a pensare ai nostri problemi e poi, col tempo, i nostri sentimenti nei suoi confronti cambieranno. E può darsi persino che lo rimpiangeremo.

Lo rimpiangeremo come si rimpiangono i dolori e i fastidi dell'infanzia, le ginocchia sbucciate e le veglie trascorse a studiare latino o matematica. Vivremo anni difficili, inutile fingere il contrario, e di fronte a tutti i nostri guai i crimini del berlusconismo ci sembreranno marachelle. È vero che ogni guasto suo o dei suoi lo pagheremo noi, con fior d'interessi: ugualmente, saremo troppo presi a lamentarci col governo di turno e con le sue misure di emergenza per coltivare rancore contro un tizio che ci ricorderà comunque un passato più confortevole. E col tempo certi suoi eccessi diventeranno pittoreschi, proprio come se li immaginava lui: le sue barzellette stupide diventeranno aneddoti simpatici, le sue gaffes internazionali non ci indigneranno più, ma sulla distanza sopravviveranno nel ricordo a tutte le cose serie che si dicevano a quei vertici, proprio come quelle figuracce che sono le uniche cose che ci ricordiamo di interi matrimoni. Insomma per quanto disastroso, Berlusconi avrà trovato un modo per farsi ricordare. E un po' rimpiangere.

Lo rimpiangeranno i giornalisti, a cui ha enormemente semplificato la vita. Come ha scritto Gramellini in questi giorni: “Senza di lui non mi annoierò, ma certo dovrò faticare di più. Mi toccherà tenere d’occhio un sacco di persone: un politico, un impresario, un presidente di calcio, un venditore di sogni, un comico, un playboy. Mentre prima, per averle tutte, me ne bastava una”. Lo rimpiangeranno comici e satiri, a cui ha fornito infiniti spunti, al punto che forse la satira professionistica in Italia è morta per inflazione, quando inventarsi battute su B. e soci è diventato troppo facile. Lo rimpiangeranno ovviamente i suoi amici, ma qualche lacrima di rimpianto la verseranno anche i suoi nemici, che non troveranno mai un avversario così vicino e concreto, sempre disponibile a essere ridicolizzato, di un'antipatia così rara. Denunciare i crimini della Finanza Mondiale (o i complotti dell'infernale Bilderberg Club) non è la stessa cosa.

Lo rimpiangeranno i figli che avremo e che non l'avranno mai visto. Lo rimpiangeranno come si rimpiangono epoche passate e fiabesche. L'Italia degli anni Ottanta è già diventata, nell'immaginario popolare, il Bel Paese dell'età dell'oro, quando tutto cresceva senza preoccupazioni (debito pubblico incluso). A quelle immagini patinate, già un po' sgranate nel riversaggio da VHS a digitale, Berlusconi sarà per sempre associato, come l'omino di burro del Paese dei Balocchi. Alla sua decadenza fisica e morale, poi, verrà naturale far corrispondere la decadenza del Paese tutto dalla fine degli anni Ottanta. Ma se avremo anni davvero difficili, anche i luccicori e le orge di Palazzo Grazioli rimpiangeremo, come per millenni abbiamo compianto e rimpianto la decadenza dei Romani, le crepe e le rovine di una civiltà che pure fu grande. E nei nostri nipoti sorgerà il sospetto che sotto a un odio così affettuoso si nasconda qualcosa di più.

Lo rimpiangeremo perché in fondo siamo italiani, cuccioli della democrazia, e rimpiangiamo istintivamente qualsiasi padrone. Anche quello che ci bastonava, figurati quello che ci riempiva di carezze lascive. Pensate all'imperatore Nerone, che gli storici di area senatoria ci hanno tramandato come un folle sanguinario, l'uomo che suona la cetra mentre guarda Roma bruciare. In realtà non fu più sanguinario di qualsiasi imperatore standard, senz'altro non appiccò il famoso incendio e addirittura nell'occasione ospitò i profughi nella sua villa. In generale dovette essere un imperatore molto più amato di quanto non si pensa. Almeno, sappiamo che ancora nel XII secolo i romani continuavano spontaneamente a portare fiori alla sua tomba, ogni nove di giugno (data della sua tumultuosa uscita di scena). Finché un Papa superstizioso non si decise a spianare il suo monumento funebre. Ecco, noi italiani siamo così: se ci affezioniamo a un despota siamo in grado di portare fiori alla sua tomba per mille e più anni. Così qualcosa mi dice che ad Arcore non mancheranno mai fiori, ne turisti. Ma è solo una mia teoria. http://leonardo.blogspot.com
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I funerali della volpe 876

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Lo so che non vediamo l'ora da anni, ma questa fretta è davvero perniciosa. C'è una troppa voglia di trenino qua in giro, troppa voglia di celebrare i funerali della volpe, e si sa di solito come vanno a finire, no?


Berlusconi non finisce mica oggi. Almeno, lo dice l'Unita.it, e si commenta di là (H1t#98).

Una volta le galline trovarono la volpe in mezzo al sentiero. Aveva gli occhi chiusi, la coda non si muoveva. - È morta, è morta - gridarono le galline. – Facciamole il funerale...

Credo che a questo punto nessuno, nemmeno l'on. Carlucci,
 dubiti più che Berlusconi sia un problema. Non è senz'altro il più grave – non lo è mai stato – ma è il problema che dobbiamo risolvere per primo, il primo nodo del groppo. Basta non credere che questo nodo si possa sciogliere domani, o posdomani, o comunque nel momento in ogni caso non molto remoto in cui Berlusconi accetterà di rassegnare le dimissioni. Quella sarà la fine di un governo (il quarto a portare il suo nome), non di Berlusconi. Che ha ancora diverse carte da giocare, e di sicuro non scomparirà dalla scena, come non è scomparso nel 1994 o nel 2006.

Se ormai possiamo parlare di ventennio berlusconiano è perché riconosciamo che anche nei periodi in cui non governava, B. è riuscito a mettersi al centro del dibattito politico e a trasformarlo in un eterno sondaggio su sé stesso. Non c'è motivo di pensare che non farà la stessa cosa anche stavolta: non gli mancano certo le risorse, né le strutture che in tutti questi anni hanno retto il suo consenso (tv, giornali, pubblicità). Le defezioni di questi giorni potrebbero certo indurci a pensare che gli mancano gli uomini (e le donne), ma in fondo sappiamo che non è vero: che per ogni Carlucci o Stracquadanio che se ne va, Berlusconi può trovarne altri tre, altri quattro aspiranti parlamentari ugualmente professionali e magari anche più piacenti. Mal che vada c'è il casting per il Grande Fratello.

Mettiamo pure che oggi (o domani, o tra una settimana, un mese) Berlusconi cada sul serio. A questo punto i commentatori ci mostrano due scenari: un governo tecnico fino alla fine della legislatura (sorretto da un inedito arco antiberlusconiano Fini-Casini-PD e forse anche dalla Lega) o un governo simile ma assai più breve che ci porti alle elezioni il più presto possibile, con o senza riforma elettorale (Maroni domenica sera sembrava possibilista: secondo lui si può abrogare il porcellum e andare a votare anche a gennaio con una legge decente; ma sembra fantascienza). In entrambi gli scenari c'è una zona d'ombra, ovvero: che farà, nel frattempo, Silvio Berlusconi? Se ne starà a guardare lo spettacolo dei suoi ex amici Fini e Casini che gli devono tutto e che tornano al governo coi voti dei suoi figuranti, scritturati dalle sue agenzie, lanciati dalle sue televisioni e coi suoi manifesti? Se abbiamo imparato un po' a conoscerlo in questi anni, sappiamo che non lo farà.

E che farà, quindi? Non importa quanti topolini abbandoneranno la nave del PDL nei prossimi giorni: Berlusconi continuerà a mantenere uno zoccolo duro di pretoriani in Camera e Senato, utili a mettere in crisi la composita maggioranza antiberlusconiana nei momenti in cui si troverà ad approvare decreti impopolari. Nel frattempo la vera artiglieria partirà da carta stampata e tv: di golpe si parlerà tutti i giorni sui canali Mediaset, su Libero, il Giornale, il Tempo, il Secolo d'Italia, il Foglio (Ferrara si accoderà, s'è sempre accodato). Ne parleranno anche i berlusconiani superstiti nei palinsesti Rai, visto che probabilmente la maggioranza antiberlusconiana sarà troppo timida per parlare di epurazioni.

Finché rimane al governo, Berlusconi è costretto a sfoggiare un europeismo d'ordinanza; una volta all'opposizione, non ci sarà più nessun attrito con la realtà e il partito-azienda potrà cavalcare gioiosamente l'ondata antieuropeista più becera che riterrà necessario per sopravvivere: tornerà quel vecchio ritornello mai veramente accantonato, “è colpa dell'euro”: qualche pseudointellettuale scritturato all'uopo chiederà a gran forza il ritorno della lira e di quel meraviglioso lubrificante del boom italiano che fu l'inflazione. Tutto assolutamente inverosimile, proprio come quando prometteva milioni di nuovi posti di lavoro. Del resto sono solo promesse, B. non ha mai avuto intenzione di mantenerle. È solo lo spettacolo che gli serve per presentarsi alle elezioni

Probabilmente gli italiani non la berranno come nel 1994 o nel 2001 o nel 2008, ma questo non ha molta importanza: l'artiglieria di Mediaset e dei suoi giornali gli consentirà comunque un buon piazzamento. E Berlusconi – anche questo dovremmo averlo capito – vince anche quando perde. La presenza di un suo partito in parlamento lo legittima, gli consente margini di trattativa, per non parlare dell'opportunità di comprarsi in aula i seggi che non è riuscito a vincere alle elezioni. Tanto più che mentre sta all'opposizione, sugli scranni della maggioranza siederà un'alleanza scarsamente coesa (sia che ne faccia parte l'UDC sia che ci entri la SEL di Vendola) costretta da Bruxelles e Fondo Monetario a scelte che deluderanno comunque gli elettori di centrosinistra – mentre a destra Lega e berlusconiani batteranno la grancassa dell'antieuropeismo. Avremo insomma un altro governo debole, come il Prodi 2, e forse perderemo altri anni – salvo che non abbiamo più anni da perdere. E allora?

E allora forse bisogna tornare da capo e avere il coraggio di mettere nero su bianco che Berlusconi è un problema, ma non perché sta al governo. Berlusconi è un problema perché da vent'anni occupa la scena politica col suo ingombrante partito-azienda. Quando osservatori stranieri certo non sospettabili di estremismo, come il Financial Times, ci chiedono di farla finita di Berlusconi, non intendono semplicemente di convincerlo a rassegnare le dimissioni da presidente del consiglio. Loro parlano esplicitamente di esilio, e forse qualcuno dovrebbe cominciare anche qui. http://leonardo.blogspot.com
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Ehi! Qualcuno è cretino sull'internet!

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Io posso morire per tante cause, ma per Nonciclopedia, mmm, ecco, facciamo che muoio di morte lenta, lentissima. Detto questo:


Vabbe', Fiorello, e una volta che l'hai visto in faccia? Lo fai menare? Perché è un infame? Vuoi eliminare l'infamità dalla terra una faccia alla volta? Ma lo capisci che internet non è che un bar come gli altri, dove si dicono cretinate come in tutti gli altri? Se sei entrato in un bar lo sai, no?

Ma aspetta. Tu sei Fiorello. Forse non sei entrato in tutti questi bar, dopotutto. Cioè, se entri in un bar tutti si voltano e ti dicono: "Fiorello!" e l'esperienza va a farsi indeterminare. Ma la sensazione di entrare in un bar e ascoltare sconosciuti che dicono fesserie, forse davvero non te la potevi permettere... finché non hai scoperto anche tu Twitter. E adesso forse ho capito perché ti piace così tanto cinguettare (continua sull'unita.it, H1t#97, e si commenta laggiù).

Internet è quel posto, ormai dovremmo averlo capito, né bello né bruttissimo, dove si possono incontrare notizie e persone straordinarie, e dove appena muore un personaggio famoso, da qualche parte scatta la gara a chi ci scherza sopra per primo. È legittimo? È indecente? È discutibile. In effetti non facciamo che discuterne, da quando siamo qui. Dieci anni fa ce lo domandavamo sui forum. Poi siamo passati ai blog. Oggi siamo più spesso sui social network. Ma forse abbiamo cambiato più piattaforme che argomenti.

Magari la vera novità è il fatto che oggi ne discutano personaggi come Fiorello o Vasco Rossi. Ed è probabilmente una buona cosa, la dimostrazione che internet sta prendendo sempre più piede anche qui in Italia – non necessariamente tra i cosiddetti 'giovani'. Vasco e Fiorello sono della generazione che era giovane ormai trent'anni fa: hanno in comune una enorme popolarità, rinsaldata dopo aver sconfitto una tossicodipendenza. A decenni di distanza sembrano avere sviluppato una dipendenza molto, molto meno nociva, per il web: Vasco ha aperto un incontenibile canale su Youtube, Fiorello si è generosamente riversato su Twitter. Le motivazioni che portano due personaggi del genere su internet sono molto diverse da quelle di quasi tutti noi, che ci tagghiamo e linkiamo e apprezziamo a vicenda nel tentativo disperato di farci notare per primi a noi stessi; che spesso cerchiamo di usare internet per quello che non è, uno sgabello su cui salire per farci sentire da più persone possibile.

Fiorello e Vasco non hanno certo bisogno di nessun piedistallo: sono saliti spesso su quello più alto (la tv) e hanno capito prima di altri che è meglio non restarci troppo tempo. Quello che oggi trovano su internet è la possibilità di farsi vedere da meno persone: non gli anonimi milioni di telespettatori, o le solite trentamila teste di San Siro, ma qualche centinaia di commentatori su Youtube, di seguaci su Twitter. Anche Fiorello, anche Vasco, devono aver capito che in fin dei conti i social network non sono altro che dei bar. Ma per due personaggi pubblici del genere, l'esperienza del bar dev'essere davvero qualcosa di inedito e prezioso.

E questo spiega forse anche le difficoltà di Vasco con Nonciclopedia, o la reazione scomposta di Fiorello per qualche battuta su Simoncelli. È sorprendente che esistano siti in cui si approfitta di un lutto per giocare a chi inventa la barzelletta più sconveniente? Formulerò la domanda in maniera più sintetica: è sorprendente che esistano degli imbecilli su internet? La risposta mi pare scontata: ne esistono ovunque – basta dare un'occhiata ai bar – quindi no, non dovrebbe sorprendere che alcuni si esprimano sul web, dove lo spazio non manca. Però, appunto, per rendersene conto bisognerebbe frequentare i bar, e forse Twitter è il primo vero bar che Fiorello frequenta da anni.

Quanto a Vasco, la cosa veramente triste è che un vecchio leone come lui, che ha sconfitto ben altri demoni, non riesca a togliersi la scimmia di Nonciclopedia, un sito che non ha mai fatto ridere nessuno nemmeno per sbaglio, e che grazie a lui ha ottenuto una visibilità assolutamente, smisuratamente immeritata. Visto che di battutine su Vasco e la droga se ne raccontano da trent'anni, in tutti i bar e perfino in molti oratori: Vasco forse non se ne rendeva conto (possibile?), ora grazie a internet lo sa. È il prezzo da pagare per poter di nuovo entrare in un bar dove nessuno ti conosce: scoprire che in quel bar danno ancora del drughè a Vasco Rossi, e ridacchiano, proprio come nel 1986.

E le battute su Simoncelli? Sono senz'altro sconvenienti: offendono la famiglia e la comunità dei tifosi (nonché chiunque passi di lì e voglia offendersi per le battute su un morto). Proprio per questo motivo è meglio non prestarsi a diffonderle, come Vasco e Fiorello ingenuamente hanno fatto. Se, come dice il primo, “Internet è una jungla come la vita”, cercare di evitare almeno le bestie più stupide dipende da noi e soltanto da noi. Che magari al prossimo funerale lotteremo contro l'umanissimo, atavico, cretino istinto di ridacchiare. Quel pezzetto di jungla che è nei bar, è su internet, ed è anche dentro di noi. http://leonardo.blogspot.com
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Ed invece venne il cervo

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C'è una strana storia che racconta Mattia Feltri, di Putin e Berlusconi che scannano un cervo (o meglio: Vlad lo scanna e Silvio sviene). Ma cosa significa?



Ho una teoria (#96). Sull'Unità. E si commenta là. Buona mitopoiesi.


C'è una strana storia che mi è tornata in mente in questi giorni, anche se potrebbe non essere vera, anzi credo proprio che non lo sia. Chiamiamola leggenda. La leggenda vuole Vladimir Putin e Silvio Berlusconi a spasso per la taiga, soli, senza testimoni o interpreti, in un freddo mattino russo. D'un tratto, mentre discutono in qualche misteriosa lingua comune, Putin estrae l'arma di precisione e abbatte qualcosa o qualcuno. Vanno a vedere cos'è: è un cervo. La leggenda descrive quindi Putin sventrare con una lama affilata e pochi gesti esperti l'animale, estrarne il cuore ancora caldo e porgerlo al Presidente del Consiglio, che a quel punto sbianca e forse sviene, come in fondo sarebbe potuto succedere anche a noi.

La leggenda la raccontò qualche mese fa sulla Stampa Mattia Feltri, senza spiegare da che fonte l'avrebbe ottenuta – del resto come si vede la vicenda non prevede terzi testimoni: in scena ci sono solo Vlad, Silvio e un cervo che nemmeno li vede arrivare. È una storia davvero suggestiva, ma negli ultimi tempi forse tra bunga bunga e telefonate ai latitanti di aneddotica sul nostro presidente ne abbiamo avuta fin troppa. Forse era destino che un episodio così ambiguo, di non immediata interpretazione venisse presto dimenticato: anch'io dopo qualche mese non ero nemmeno più sicuro di averlo letto davvero. Per fortuna c'è internet, che in pochi secondi me l'ha confermato: non me l'ero sognata, la leggenda del cuore di cervo esiste. Ma cosa significa?

A prima vista la leggenda parla dell'umanità di Silvio Berlusconi, descritta in contrasto con la ferinità del suo collega autocrate russo. Quest'ultimo è descritto più o meno come lui stesso ama presentarsi ai media: un uomo pronto a tutto, energico, dai riflessi pronti e duttile come un agente segreto: non sa solo ammazzare un cervo al primo colpo, ma è anche in grado di macellarlo seduta stante. Invece Berlusconi no. Berlusconi è disposto a seguire il suo collega ovunque, per amicizia e per ragion di Stato, ma è ancora un essere umano, con le sue debolezze. Feltri probabilmente aveva in mente qualcosa del genere quando sceglie di mettere la storia per iscritto.

Più in profondità c'è la simbologia dell'animale, che nelle culture indeuropee è spesso associato ai cicli stagionali di morte e rinascita. Possiamo immaginare come il pensiero di assicurarsi un nuovo ciclo di potere debba assillare i due vecchi cacciatori. Putin sembra già aver trovato una soluzione, annunciando che succederà al suo successore designato Medvedev – un Crono che mangia i suoi figli. Berlusconi, che non ha mai trovato un Medvedev, un figlio buono da mangiare, ha molte più difficoltà, e forse il dono del cuore allude a questo. Ma il cuore a sua volta porta con se altri garbugli di significato: per le antiche culture dei cacciatori era la sede dei sentimenti (e Putin la strappa via), del coraggio (e Putin la offre a Berlusconi). Sia come sia, la leggenda emette un giudizio: Berlusconi non è pronto, Berlusconi non è adatto. Ma a cosa?

Ecco la mia teoria. Nei boschi Putin ha voluto mostrarsi a Berlusconi per quello che è: un assassino svelto, spietato e competente. Questo significa essere tiranni, e questo Berlusconi non è mai riuscito ad accettarlo. Quando il suo capitolo sarà finalmente finito, avremo a disposizione infinite etichette per lui: lo chiameremo corruttore e forse ladro. Arriveremo a dire che fu un capitano d'industria senza scrupoli, ma sarà solo una metafora: non era un capitano vero, e scrupoli ne aveva, anche per i suoi nemici. L'enorme amore che nutriva per sé stesso finiva per rifrangersi su ogni oggetto vicino e lontano, impedendogli di odiare davvero qualcosa o qualcuno con la determinazione dei tiranni. Dovremo ammettere che aveva tanti difetti, ma non era un violento – fosse stato un violento, forse avremmo avuto quel regime che si è annunciato per vent'anni ma è sempre rimasto nell'aria, un progetto irrealizzabile, come il Ponte sullo Stretto.

Non era un violento, ma nel suo mestiere di presidente e ministro degli esteri ha preteso di trattare coi violenti senza scrupoli come Gheddafi, come Putin. Forse lo sorreggeva l'idea di aver trattato con successo, anni prima, con qualche capetto mafioso – ma un tiranno gioca in una serie diversa, e forse Putin, nel linguaggio dei simboli, ha voluto farglielo notare: tu, piccolo italiano che ogni tanto vieni a trovarmi, e dici di essere mio amico, ma hai capito di che amici ti devi circondare? Siamo assassini, è così che ci conquistiamo il futuro. Noi ogni giorno ci svegliamo con le mani lorde di nuovo sangue: perciò non stimiamo per forza lo straniero che col suo sorriso da venditore ce le viene a baciare.http://leonardo.blogspot.com


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La guerriglia prevedibile

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(Fermo così, sei perfetto).


D'altro canto chi poteva aspettarsi che una manifestazione al di sopra delle parti e dei partiti rigorosamente spontanea senza leader e senza servizio d'ordine potesse andare a finire con della gente vestita di nero e organizzata non si capisce da chi e da cosa che brucia le macchine e scrive sui muri e la polizia invece di fermarli carica la povera gente che non se lo poteva aspettare? Chi se lo poteva aspettare?
Mah, per esempio, tutti. La non imprevedibile vittoria dei Caschi Neri (H1t#95) è sull'Unità, e si commenta là. Venite senza casco.

Anche a me è capitato, come a tanti, di restare sbalordito di fronte alle immagini che sabato arrivavano da Roma. E però dopo un po' che guardavo caschi neri e camionette in fiamme mi sono chiesto: ma di cosa oso stupirmi, ancora? Non avrei dovuto aspettarmi tutto questo? Non è lo stesso copione delle marce in Val di Susa, non sono successe cose simili il 14 dicembre, per tacere del g8 di Genova, dopo il quale davvero non dovrei più essere autorizzato a stupirmi di niente? Non è in fondo il solito compitino sulla traccia impartita da Francesco Cossiga (“lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città...”)? No, io non credo di avere il diritto di stupirmi, e non credo che ce l'abbiano i manifestanti del movimento. Che rinasce ormai più volte all'anno con nomi e rivendicazioni diverse, dall'onda viola agli indignados, e ogni volta fa marcare la sua distanza da quello che c'era prima, e dai partiti e dai sindacati, e insomma rivendica il suo diritto a rinascere mondo di ogni peccato e inconsapevole di ogni dinamica di piazza – salvo poi inorridire davanti a disordini e situazioni che chiunque ha frequentato la piazza negli ultimi anni purtroppo non può fingere di non conoscere. E mentre rinasce vergine ogni sei mesi, i parassiti devastatori in casco nero si presentano a ogni appuntamento più organizzati e professionali. Alla fine non dovrebbe davvero sorprenderci se sono loro a prendersi le prime pagine. In fondo se le meritano, sono gli unici che hanno memoria e sanno imparare dai loro errori.

Tra sei mesi, quando soltanto qualche automobilista danneggiato si ricorderà più dei fatti di Roma, e le condanne o le assoluzioni per devastazione e saccheggio finiranno a pagina venti, è facile immaginare che sorgerà un nuovo movimento su facebook o altrove, che difenderà giustissime istanze e sacrosantissime recriminazioni colpevolmente fino a quel momento ignorate eccetera. I leader saranno ovviamente facce nuove, che rifiutano la vecchia politica dei partiti e la vecchia gestione della piazza dei sindacati. Resta da vedere se anche loro commetteranno l'errore di accogliere, nella propria piazza, dietro ai propri slogan, chiunque vorrà venire, pur di far numero. Perché l'errore sta tutto lì. Gli indignados avrebbero potuto mantenere un'identità forte, una piattaforma precisa, e puntare più sull'ostinazione che sul numero: come i loro ispiratori di Wall Street, o gli egiziani di piazza Tahrir che prima di essere migliaia furono centinaia. Ma in Italia non si fa così. In Italia prima si rimarca la distanza tra partiti e associazioni; e poi si fa entrare allegramente chiunque, pazienza se hanno il casco. I dieci anni da Genova avrebbero potuto insegnarci qualcosa, ma noi ci ostiniamo a rinascere tutti gli anni dimentichi degli errori dei padri, o dei fratelli maggiori, o di noi stessi quando invece di essere indignados eravamo noglobal o qualcos'altro.

Nel frattempo Libero e il Giornale festeggiano con la stessa, identica prima pagina. Ieri, come un anno fa, le immagini di Roma in fiamme soccorrono Berlusconi proprio quando ha bisogno di mostrare che l'unica alternativa a sé stesso è il caos. Ora, tagliamo corta la dietrologia. Il metodo Cossiga è pur sempre un metodo, che per essere applicato necessita di risorse e intelligenze, ed è lecito a questo punto domandarsi se al Viminale queste risorse, queste intelligenze ci siano. Ed è pure vero che i tagli hanno colpito anche le forze dell'ordine.

Però non potete venirci a raccontare che gli stessi organi di polizia che riescono ad arrestare boss di mafia e camorra non siano in grado di capire chi siano i caschi neri né quando e dove colpiranno. Va bene, non sono tutti ragazzini; non sono tutti di estrema destra; non sono tutti ultras; non sono tutti dei centri sociali. Ma sono tutti lì. Comunicano con sms e forum, mica pizzini. Non dovrebbero essere così difficili da intercettare o infiltrare. Allora i casi sono due: o li avete intercettati, e magari infiltrati, dando loro una mano a devastare il devastabile; o avete deciso di non intercettarli e infiltrarli, permettendo loro di devastare il devastabile.

Non so quale delle due prospettive mi piaccia meno, ma entrambe portano alla stessa conseguenza: questa è la devastazione che serviva al governo per tenersi in sella e dissodare l'imminente campagna elettorale, questa è la devastazione che i caschi neri prontamente gli hanno servito, questa è la devastazione che le forze dell'ordine si sono ben guardate dal reprimere, contentandosi come sempre di sparare fumogeni e manganellare un po' a casaccio. Tutto stupefacente, se non fosse già successo fin troppe volte. E può darsi perfino che succeda ancora, ma per favore, che nessuno si senta più sbalordito da qui in poi.http://leonardo.blogspot.com
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L'Itaglia senza wikipedia

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Coraggio, è andata, Wikipedia è tornata on line. Possiamo ricominciare a fingere di sapere cose.
Certo che è stata dura, eh. Anche se in fondo non è l'unica enciclopedia on line, no? Per esempio c'è la Treccani, potevamo usare la Treccani, no?



No, non potevamo. E dire che non è affatto male. Ma Wikipedia funziona meglio (H1t#94). Lo dice l'Unita.it, io mi fiderei (si commenta laggiù).

Martedì, come probabilmente già sapete,Wikipedia Italia ha sospeso il suo servizio in segno di protesta contro quel comma del disegno di legge anti-intercettazioni che prevedeva per ogni sito web l'obbligo di rettifica entro le 48 ore (ne avevo già parlato un anno fa). Ieri il testo è stato modificato: l'obbligo di rettifica dovrebbe riguardare soltanto le testate giornalistiche on line, risparmiando quindi wikipedia e i blog. Ma nel frattempo abbiamo sperimentato in tanti il senso di vuoto di chi cerca qualcosa su internet e... non la trova più. Proprio quando ormai davamo per scontato di poter recuperare qualsiasi informazione in pochi secondi. Forse non ci rendevamo conto di come buona parte di tutte le informazioni che trovavamo provenisse in realtà da un sito preciso: Wikipedia. Incompleto, inattendibile, ma anche insostituibile, ormai.

Mentre noi fissavamo il vuoto un po' sgomenti, altri esultavano. “La nuova legge sulle intercettazioni potrebbe avere un merito inaspettato: far scomparire Wikipedia”, scrivevaAntonio Di Majo sul Tempo. “L'enciclopedia sul Web, scritta e modificata dai lettori, piena di strafalcioni e di fonti incerte, ha fatto impallidire studiosi, spaventato accademici e depistato studenti”: se scompare tanto meglio, fa capire Di Majo, e suggerisce: “Rispolveriamo la Treccani”.

Non c'è alcun bisogno di rispolverarla, aggiungo io, visto che da qualche tempo la Treccani è presente on line in un'ottima versione molto comoda da consultare. A questo punto però vorrei chiedere una cosa a Di Majo: lei la usa davvero la Treccani, voglio dire abitualmente? Io no. Una volta ci ho anche provato, volevo fidarmi. Non mi ricordavo più chi fosse Mister Pesc e sulla Treccani c'era scritto: "attualmente la carica è ricoperta dallo spagnolo Javier Solana". Così ho scritto, sul mio blog, "Javier Solana". E ho fatto una figura orrenda, visto che (come un commentatore mi ha subito fatto presente) dal novembre 2009 è subentrata, nel suo ruolo, Catherine Ashton. Ma la voce della Treccani non è stata aggiornata. Probabilmente non è facile modificarla. Invece aggiornare una pagina di wikipedia è semplicissimo, come sappiamo tutti. E infatti su wiki è segnalata la Ashton, non Solana. Con tanto di foto e rimando alla biografia.

È solo un piccolo esempio, ma ne potrei fare tanti altri. Per dimostrare quello che gli studiosi del campo hanno ormai accettato, più o meno dallo studio di Nature del 2005:Wikipedia è autorevole quanto l'Encyclopaedia Britannica. Certo, Nature ha esaminato la Wikipedia inglese, molto più elaborata e condivisa. Ma tutto sommato anche la wiki italiana si difende bene. Non avrà l'autorevolezza della Treccani, ma sa aggiornarsi e correggere i suoi errori assai più rapidamente.

Ammettiamo per amor di discussione che su tanti argomenti la Treccani sia più precisa di Wiki: ci sarà sempre qua e là qualche errore o qualche dato non aggiornato. L'utente della Treccani però rischia di non rendersene conto, lasciandosi cullare da un'impressione di infallibilità che nessuna enciclopedia può davvero garantire. L'utente di Wikipedia no, e forse la differenza più importante è questa: chi consulta Wikipedia impara presto che nulla è sicuro. La pagina che sta leggendo potrebbe contenere soltanto informazioni sbagliate: potrebbe essere stata falsificata pochi minuti prima da un vandalo o un burlone. Su wikipedia non ci si può fidare mai al cento per cento. Bisogna stare attenti. Dare un'occhiata alle fonti, se ci sono – e se non ci sono, l'articolo non è così buono.

Bisogna insomma sviluppare un senso critico. Chi consulta la Treccani non ne ha certo bisogno: come scrive Di Majo, gli serve un sapere “sicuro”, “verificato da esperti”. Va bene, facciamo così: chi ha bisogno di sicurezza, chi non sa verificare da solo e ha bisogno degli esperti, usi pure la Treccani. Al massimo confonderà Catherine Ashton con Javier Solana, in fondo su certi siti che differenza vuoi che faccia. Almeno finché qualche Solana o qualche Ashton non avrà niente di meglio da fare che chiedere una rettifica. http://leonardo.blogspot.com
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Il vuoto incolmabile

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Come forse qualcuno avrà notato, da alcuni giorni a questa parte il Partito Democratico, il suo vertice, i suoi militanti, stanno in qualche modo cercando di sopravvivere alla notizia della defezione di Mario Adinolfi.


Lui nel frattempo gioca a carte. Sull'Unità.it comunque c'è un tentativo di prendere Adinolfi un po' sul serio (H1t#93), giusto per non lasciare nulla d'intentato. Si commenta laggiù.

(Ci si vede forse a Riva stasera).

Ma insomma perché nessuno vuole prendere sul serio Mario Adinolfi che abbandona il PD? Forse ha ragione il direttore di Europa Menichini, che dietro alle ironie e alle battutine sulla stazza e sul peso del personaggio intravede una certaarroganza togliattiana. Oggi stavo quindi cercando di rispondere alle critiche di Adinolfi nel modo meno togliattiano possibile, entrando nel merito delle importanti questioni sollevate eccetera, quando su twitter è arrivato un messaggio del Mario:

giornate di novità: ho firmato per i miei nuovi colori pokeristici, esordio all'Ept di Londra con il TeamPro1128

Allora, mettetevi anche un po' nei panni di noi togliattiani. Non siamo mai veramente riusciti a digerire la barca a vela di D'Alema (né l'appartamento newyorkese di Veltroni): cosa potevamo pensare di un giornalista che conciliava la militanza attiva in un partito di sinistra con l'esercizio professionale del gioco d'azzardo? Saremo provinciali, saremo vecchi, ma quando Adinolfi nel suo blog alternava i consigli al segretario sulla linea del PD con quelli ai lettori sulle squadre su cui scommettere, a noi cedevano un po' le ginocchia.

È sempre stato oggettivamente difficile prendere sul serio Adinolfi. Per prima cosa è una persona obesa, e noi a sinistra, sempre pronti a schizzare in piedi di indignazione alla prima barzelletta omofoba e sessista, non abbiamo nessuna difficoltà a ridere degli obesi (“ciccioni”) e dei bassi di statura (“nanetti”): Berlusconi e Ferrara ci hanno allenato bene, in questo senso. Poi è stato militante democristiano e non se ne è mai vergognato, e questo è parecchio destabilizzante. Aggiungi questa cosa del poker e delle scommesse che avrebbe destabilizzato anche i democristiani. Infine, nel momento in cui tutti i politici di sinistra cercavano di presentarsi all'elettorato nel modo più rassicurante e grigio possibile, Adinolfi non ha mai pensato di nascondere una personalità eccentrica e debordante. Nonché una mania di protagonismo che, se in parte era giustificata dalla necessità di restare a galla nel mondo difficile e competitivo dell'infotainment radiotelevisivo, dall'altra spiega il perché le non-dimissioni di Adinolfi (non ricopriva nessun incarico) siano quasi una non-notizia, che in linea teorica non avrebbe meritato più spazio di quella di un volontario della festa dell'unità di Reggio Emilia che oggi decidesse di stracciare la tessera. Certo, è pur vero che nessun volontario reggiano della festa dell'Unità si è mai presentato alle primarie del PD, ma probabilmente se lo avesse fatto avrebbe raccolto più voti di Mario Adinolfi. Quindi, insomma, di che stiamo parlando?

Stiamo parlando di un quarantenne che, a furia di accreditarsi come rappresentante di una generazione, in qualche modo è riuscito a impersonarne almeno alcuni difetti: Adinolfi, che pure è uscito di casa abbastanza presto e ha sempre in qualche modo lavorato, sembra morso dallo stesso demone di tanti trenta-quarantenni italiani che il precariato lo hanno interiorizzato, fino ad elevarlo, in mancanza di meglio, a filosofia di vita: e dopo un decennio passato a corteggiare diverse carriere, senza sceglierne veramente nessuna, si ritrovano a quarant'anni bloccati a un bivio, consapevoli che scegliere una via, una carriera, un mestiere, una vita, significa rinunciare ad altre vie, ad altri mestieri, altre vite. Per carità, qui non si giudica nessuno, ma posso dire che nel continuo saltabeccare di Adinolfi tra editoria politica e gioco d'azzardo un po' mi riconosco (in sedicesimo, diciamo). E in fondo sono contento che lui abbia saputo finalmente scegliere: e anche che non abbia scelto la politica, per la quale, non me ne voglia, forse non era troppo tagliato.

Anche la sua difficoltà a integrarsi nel PD si può leggere in modo generazionale. Un altro problema di noi trenta-quarantenni è che ci siamo sposati tardi, dopo fidanzamenti esageratamente lunghi. Allo stesso modo, dopo aver inseguito per anni il miraggio del grande partito di centrosinistra, quando finalmente l'impossibile si è avverato, Adinolfi ha scoperto sulla sua pelle i dolori e i fastidi della convivenza. Il motivo per cui oggi decide di divorziare è in fondo molto semplice: dalle ultime primarie in poi, Adinolfi si è ritrovato in una corrente di minoranza, e questo gli è insopportabile. È il paradosso per cui proprio gli alfieri del Grande Partito sono quelli che appena un partito abbastanza grandino prende forma non riescono ad accettare gli oneri che esso comporta: l'inevitabile nascita delle correnti, la dialettica interna tra maggioranza e minoranze, il triste centralismo democratico: tutte cose che l'ex democristiano Adinolfi dovrebbe conoscere bene – non ci fossero stati quei vent'anni di caos tra popolari, asinelli, margherite, ulivi, unioni, con tutte quelle intercapedini e quei margini di azione per capitani coraggiosi e un po' spavaldi. Ora il tempo dei corsari è finito: bisognerebbe indossare la giacca e la cravatta dell'uomo d'ordine, ma in quella giacca Adinolfi proprio non ci sta (e questa è l'unica battuta sulla sua taglia che farò, già una di troppo).

A proposito di partitini è buffo che Adinolfi ricordi di aver cercato il “coinvolgimento organico” di radicali e socialisti, oltre a Grillo, che avrebbe voluto candidato alle primarie. Ora, se c'è qualcosa che radicali, socialisti e Grillo hanno in comune, è di non avere mai realmente creduto nel PD, anche quando hanno cercato di usarlo per ottenere un po' di visibilità (il tentativo di Grillo di candidarsi) o per arrivare in Parlamento eludendo gli sbarramenti (la “delegazione radicale”, quei nove posti blindati ottenuti dal PD di Veltroni, la cui lealtà è ben provata dall'assenza di ieri alla Camera, e dalle dichiarazioni di Pannella). Quanto ai socialisti, parliamo di quel partito inesistente che negli ultimi dieci anni ha sempre fatto perdere punti in percentuale a qualsiasi lista con cui si è aggregato (memorabili le batoste di Rosa nel Pugno e Girasole)? Eppure Adinolfi dovrebbe sapere che i socialisti a centrosinistra non hanno mai trovato la porta chiusa, da Occhetto a D'Alema (che fece entrare almeno Amato) fino a quando Boselli, segretario di un partito da prefisso telefonico, fu invitato da Prodi alla costituente del PD e rifiutò sdegnosamente quello che definì il “compromesso storico bonsai”. Poi andò alle urne da solo e riprese il suo zero virgola per cento. Certo, esistono tante cose nell'universo; esistono i neutrini che hanno così poca massa che possono arrivare dal Gran Sasso a Ginevra senza tunnel; così può darsi anche che esista ancora un partito in Italia che si chiama socialista. Ma anche un bonsai non è che debba preoccuparsi di coinvolgere tutti i batteri che transitano nei pressi: la maggior parte sono innocui.

C'è poi la questione "omosex", come la chiama lui, che negli ultimi mesi è diventata una sua piccola ossessione - proprio mentre la passione per la militanza nel PD rapidamente scemava. Non è una coincidenza. Sui diritti civili dei gay ho una teoria: c'è un motivo per cui qualcuno ne parla oggi, quando in Italia governa la destra più becera e omofoba e nessuna reale messa in discussione dello status quo è praticabile. Ed è un motivo che purtroppo ha ben poco a che fare coi gay, e molto a che fare con la storia del PD, e la sua doppia anima catto-diessina. In sostanza si riparla di gay, e soprattutto di matrimoni di gay e di adozioni di gay, semplicemente perché di tutti gli argomenti al mondo è quello più pericoloso per la coesione del PD: quello che davvero rischia di farne cedere le giunture, tanta è la distanza tra le posizioni di cattolici e progressisti. Ora io sarò anche un togliattiano dentro: me lo hanno detto anche i miei quattro lettori, quindi c'è del vero. Però per me proporre un “referendum sul matrimonio omosex”, come Adinolfi dice di aver fatto, equivale a dichiarare di aver tentato di sventrare il PD, proprio nel punto dove la cucitura è più fragile. Solo così si spiega poi l'ossessione per questo argomento in un'estate in cui anche molti gay, più che al matrimonio, probabilmente pensavano ai loro risparmi, all'IVA e alle pensioni.

Già, le pensioni. Ad Adinolfi non è piaciuta l'adesione allo sciopero della CGIL, il sindacato dei pensionati eccetera. Non è una sorpresa che l'eterno precario della politica si trovi più vicino alle posizioni di Ichino: quanto agli ammortizzatori sociali, lui ha sempre rivendicato di trovare meno rischiose le ricevitorie delle banche, e a questo punto la cosa terribile è che non sembra avere tutti i torti. Ma insomma la posizione di Adinolfi la conosciamo da anni: i nostri padri pensionati ci rubano il futuro. Nel frattempo però (dovrebbe essersene accorto) cominciamo ad andare anche noi per la quarantina, e alla pensione iniziamo a pensarci, se non altro perché l'idea di ottenerla a ottant'anni un po' ci spaventa. Forse per Adinolfi il problema non si pone, forse sarà ancora un brillante bluffatore, o forse avrà già raggranellato abbastanza col suo personalissimo sistema integrativo. Noi però non siamo altrettanto capaci, né al tavolo verde né alla vita in generale. Così ci attacchiamo a quel che possiamo: un mestiere piuttosto che un altro, un sindacato piuttosto che un altro, un partito con tanti difetti ma che è meno peggio di tanti altri, eccetera. Nel frattempo Marione se n'è andato verso altre partite, altre sfide, altre avventure. Ci perdonerà se non siamo abbastanza togliattiani da non invidiarlo un po'. http://leonardo.blogspot.com
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La dipendenza della Padania

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Allora se volete un parere (interessato), per me la Padania non sarà mai indipendente.


Finché la rappresentano dei buffoni, almeno. E questo ci lascia almeno dieci, quindici anni di tempo per organizzarci. La Lega per la dipendenza della Padania (H1t#92) si legge sull'Unita.it, e si commenta laggiù.

Ma perché i leghisti parlano di “secessione”? La risposta sembra scontata: ne parlano perché intuiscono che l'esperienza di governo è ormai finita, come nel 1994: e oggi come allora un bel battesimo nell'acqua del Padre Po può lavare via la puzza di compromessi e fallimenti romani che ha impregnato il partito negli ultimi anni. Il secessionismo può riportare molti delusi alle urne, rinsaldando lo zoccolo duro che nel 1996 regalò ai leghisti il risultato nazionale migliore di sempre: quel 10% che determinò la sconfitta di Berlusconi e l'arrivo di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Può anche darsi che stavolta la base leghista non ci caschi: d'altro canto Bossi e compagni non hanno molte alternative. Probabilmente il secessionismo per ora è un'opzione, un piano B, in attesa che a qualcuno venga in mente un piano A per il dopo-Berlusconi. Nel frattempo gridare la parola ai comizi fa notizia e non impegna.

Ma perché la parola è proprio “secessione”? Perché non il più nobile “indipendenza”? In fondo “secessione” è una parola che contiene già in sé una segreta consapevolezza della sconfitta. Un lapsus pesante, perché parlare di “secessione” significa ammettere che una nazione da cui secedere, l'Italia, esiste. Di solito, quando i secessionisti vincono, ottengono il diritto di scrivere la Storia, e nei libri si fanno chiamare indipendentisti. Se invece perdono, chi li ha sconfitti continuerà a chiamarli secessionisti: un nome che quasi sottointende il fallimento. Tanto più che nell'inconscio collettivo della generazione di Bossi e Maroni la parola “secessione” è indissolubilmente legata ai film western con le battaglie tra casacche grigie e blu (e i grigi le prendono quasi sempre). Non è l'unico caso in cui l'immaginario leghista si lega, consapevolmente o meno, a un precedente storico 'perdente': un altro esempio, anche questo derivato dai western, è quel famoso manifesto che istituiva un parallelo tra leghisti e pellerossa americani, condannati a vivere nelle riserve per non aver varato anche loro una legge Bossi-Fini. Questa predilezione per i perdenti può sembrare curiosa, specie se confrontata con l'immaginario berlusconiano, ossessionato da modelli di successo e autorealizzazione. In realtà, oltre a essere in un qualche modo complementare al berlusconesimo, il culto leghista per la sconfitta nobile ha precedenti illustri in altri movimenti nazionalisti: si pensi all'importanza che riveste per i serbi la battaglia – persa – di Kosovo Polje. La sindrome dell'accerchiamento, la percezione della sconfitta inevitabile che genera l'impulso al revanscismo, sono elementi costitutivi dei piccoli nazionalismi europei: quello che il leghismo è stato per una breve stagione (1996-2000) e che potrebbe ridiventare in tempi brevi. Ma funzionerà?

Potrebbe anche funzionare. Abbiamo un bel da ripetere che la Padania non esiste: certamente fino al 1996 non esisteva il concetto di nazione padana. Ma non è necessario guardare al passato, alla ricerca di chissà quale sostrato celtico, per vedere qualche crepa nell'unità nazionale. Concentriamoci sul futuro prossimo: le tensioni a cui la crisi economica sottoporrà l'Italia nei prossimi mesi e anni accentueranno ancora di più il dislivello già grave tra Nord e Sud. Se la situazione dovesse degenerare (default, uscita dall'Euro, eccetera), molti abitanti del nord potrebbero essere tentati da un partito indipendentista o secessionista che dir si voglia. Così, dopo aver perso vent'anni a dividerci tra filo e antiberlusconiani, potremmo buttarne altri venti dividendoci tra secessionisti e unionisti.

Insomma, nella situazione difficile che abbiamo davanti, lo spazio per un partito indipendentista della Val Padana c'è. Il problema (per i secessionisti autentici) è che questo spazio è occupato dalla Lega. E la Lega non è nata indipendentista, ma autonomista; ha scoperto l'indipendentismo abbastanza tardi, al termine di una prima burrascosa esperienza di governo. Persino negli anni ruggenti dell'invenzione della Padania, quando le camicie verdi si davano aria di milizia popolare e marciavano sul Po, mentre a Mantova apriva una specie di parlamento e il leader lanciava accorati inviti a uno sciopero fiscale che molti elettori leghisti praticavano già nel segreto dei loro reparti commerciali...  anche allora tutte queste iniziative somigliavano più a una messa in scena per spaventare Roma che ai prodromi di una vera lotta di liberazione. 

Tutto questo non poteva che deludere gli indipendentisti veri, che in effetti nei loro manifesti e blog parlano sempre piuttosto male della Lega. Ma in breve tempo il secessionismo di Bossi deluse anche il grosso degli elettori, che alle europee del 1999 – appena tre anni dopo il successo del '96 – punirono il partito con uno dei risultati peggiori, un misero 4,5 per cento che mise temporaneamente fine alla parabola secessionista. Bossi tornò nella tana del “mafioso massone” Berlusconi (parole sue), ottenendo un'alleanza che forse gli permise anche di risistemare le casse del partito. Da allora gli esponenti della Lega sembrarono dimenticarsi che il partito si chiamava, e si chiama ancora “Lega Nord per l'indipendenza della Padania” (un nome approvato da Luciano Violante, allora presidente della Camera, che lo trovava più costituzionale di Padania Indipendente). Ma domani?

Domani è un altro giorno. Ribadisco: un po' di spazio per un movimento indipendentista c'è. La teoria è che non ci sarà mai un indipendentismo vero, qui, finché quello spazio sarà occupato da un partito come la Lega, e da leader come Bossi e Maroni, che all'indipendenza e alla Padania non hanno probabilmente mai realmente creduto, nemmeno per un istante. E questa forse è una buona notizia. http://leonardo.blogspot.com  
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Meglio triumviri che niente

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Sei matto a metterti con quei due, dicono, non capisci niente, loro non rispetteranno le tue scelte, bestia, non avranno nessun rispetto per te, cretino, lo capisci che se vai con loro passerai tutto il tempo a litigare? Ma resta qui a casa con noi che ti vogliamo bene, ti facciamo tanti regali, tante sorprese, stavamo giusto scegliendo un set nuovo di coltelli


Sì vabbe', insomma, ho una teoria (#91): il Pd non ha bisogno di alleati (per litigare). Si legge e si commenta, indovinate un po', sull'Unità.it

Quando qualche giorno fa il triangolo Bersani-Di Pietro-Vendola ha preso forma, abbiamo assistito a un fenomeno che potremmo definire paradossale se non fosse, in realtà, abbastanza ricorrente: diversi esponenti del PD, alcuni perfino della maggioranza, hanno espresso il loro dissenso, o perlomeno il loro scarso entusiasmo, nei confronti dell'iniziativa del segretario. Walter Veltroni ha richiamato esplicitamente l'Unione, quella caotica alleanza di dieci partiti, guidata da Romano Prodi, che nel 2006 sconfisse Berlusconi (visti i margini ristrettissimi sarebbe più corretto dire che pareggiò) ma non riuscì a dare al Paese un governo stabile.

Il dissenso, sia ben chiaro, è legittimo, e mostra la distanza tra il PD e altri partiti in cui discutere apertamente delle scelte del leader non è semplicemente concesso. Invece nel PD il dibattito c'è, non è mai troppo – al limite ci si potrebbe domandare se le divisioni ai vertici rispecchiano reali posizioni nella base, ovvero: questa fobia per l'Unione è condivisa dagli elettori? Gli attivisti che si sono dati da fare fino a pochi giorni fa nelle feste di paese, quelli che stanno raccogliendo firme per il referendum antiporcellum, gli elettori delle primarie, insomma, il popolo democratico condivide questo terrore di ripetere la famigerata alleanza a dieci (anche se stavolta gli alleati sarebbero soltanto tre, e tutto sommato già abbastanza rodati)?

Io direi di no, anche se non ho nessun serio titolo per rispondere. Sono soltanto un blogger, il mio parere vale quanto il vostro: in ogni caso a occhio i partiti di Vendola e Di Pietro mi sembrano gli alleati naturali del PD, quelli meno indigesti (se non addirittura simpatici) all'elettore democratico medio. A differenza di Casini, che alla travagliata storia del centrosinistra dall'Ulivo in poi è sempre rimasto estraneo, e di cui non siamo ancora riusciti a dimenticarci i trascorsi berlusconiani: ecco, un'alleanza con lui sarebbe molto più difficile da digerire per l'elettore democratico che ho in mente io (e forse anche per quello che ha in mente Civati). Ma magari ho in mente l'elettore sbagliato.

Cosa c'è dunque di paradossale nel fatto che qualche dirigente del PD paventi il ritorno di un'accozzaglia stile Unione? Il fatto è che chi critica l'alleanza con Vendola e Di Pietro teme che essa possa annacquare le proposte del partito e nuocere alla sua leadership. E proprio per questo motivo, per salvare questa eventuale leadership del PD... si criticano apertamente proprio le scelte del leader, dimostrando una volta ancora che il PD non ha nessun bisogo di allearsi con qualcuno per poi litigare. No, ci riesce benissimo da solo.

Questo paradosso non ha niente di nuovo: lo abbiamo visto in opera da quando è nato il PD. Per Veltroni, che trionfò alle primarie del 2007, il partito doveva ambire a diventare la forza egemone del centrosinistra, rifiutando alleanze e ricatti dei vari cespugli, emarginandoli anche a costo di essere sconfitto alle prime elezioni (come infatti avvenne). Quello che avrebbe perso in quantità, il nuovo partito lo avrebbe dovuto guadagnare in compattezza. Ma fu proprio qui che Veltroni perse la vera scommessa: lo si vide con chiarezza quando, a pochi mesi dalla sconfitta elettorale, il partito decise di astenersi alla Camera su un caso spinoso e cruciale come quello dell'alimentazione forzata a Eluana Englaro. 

L'episodio dimostrò definitivamente a molti elettori del PD – tra cui il sottoscritto – che il nuovo partito non riusciva a trovare una sintesi tra le sue nature, esattamente come l'Unione: non era meno eterogeneo, non era più compatto: era solo più piccolo
Ma al suo interno, tra uno Scalfarotto e una Binetti, continuava a esserci più o meno la stessa inconciliabile distanza che ai tempi dell'Unione c'era tra un deputato della Margherita e uno di Rifondazione. Cosa avevamo perso? Verdi e comunisti erano stati cacciati dal parlamento: l'arco parlamentare si era inclinato vistosamente verso il centrodestra. Cosa avevamo guadagnato? Me lo sto ancora chiedendo.

È passato qualche anno. Il PD mi sembra relativamente migliorato: ha guadagnato qualche punto nei sondaggi e ha perso per strada la Binetti. Continua a essere diviso in correnti, che non vogliono essere chiamate così (vecchio vezzo del PCI) ma che in sostanza portano avanti progetti divergenti. E non c'è niente di male, purché scontri e alleanze non si consumino nei corridoi di una segreteria o di un loft, ma alla luce del sole, davanti agli attivisti ai quali, grazie alle primarie, dovrebbe spettare l'ultima parola. Io, ripeto, sono semplicemente un blogger e non pretendo di spiegare ai vertici del partito quello che la base pensa. Quel che penso io è che il PD le prossime elezioni potrebbe vincerle, alleato con chiunque o perfino da solo, purché riuscisse a proporre a un blocco sociale preciso un programma semplice con priorità ben definite. Questo programma è oggettivamente difficile scriverlo a tre mani, specie se due delle mani sono quelle di Vendola e Di Pietro. Ma non è affatto detto che sia più semplice da scrivere se invece le mani fossero quelle di Veltroni, Renzi e D'Alema (per tacere di Casini). Se si tratta di litigare, di dividersi, di non arrivare a una sintesi, il PD può fare benissimo da solo, e lo ha abbondantemente dimostrato in questi anni. http://leonardo.blogspot.com
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